di Maurizio Cucchi
«Resistenza del classico » è un bel titolo, ed è il titolo dell’almanacco Bur (Rizzoli, p. 380, euro 24,50) curato da Roberto Andreotti e comprendente una serie varia di interventi, saggi, traduzioni. Ma, appunto, un classico, per essere veramente tale, dovrà resistere indifferente alla banalità delle mode e al cambiare delle epoche e dei gusti. Come giustamente fa notare lo stesso Andreotti nella sua introduzione, si fa spesso ricorso ingenuamente al concetto di « attualità » , quando si intende riproporre un classico. In effetti, un classico non è mai « attuale » , in quanto oltrepassa concetti e categorie di una contemporaneità a cui non appartiene e a cui non può ridursi. La grandezza, la meraviglia del classico consistono nel fatto che il lettore di oggi, pur avendone una percezione sostanzialmente mutata, altra, rispetto a quella del lettore di epoche passate, degli stessi contemporanei dell’autore, può cogliere nel classico continue risorse di energia, può riusarlo utilmente secondo il proprio modo di intenderlo. Dante e Petrarca non sono attuali. Le lettura delle loro opere ci pone di fronte a innumerevoli ostacoli, il cui superamento è una conquista vitale, e il « piacere » che ne deriva conferma che a distanza di secoli, come per miracolo, continuano a parlarci e a raggiungerci in profondo. Ma non c’è nessun miracolo: c’è « solo » la grandezza umana della poesia. In effetti, ho citato due grandi che non rientrano, a rigore, nel progetto di Andreotti. Il quale si riferisce essenzialmente ai classici greci e latini, come è puntualmente confermato anche dalle traduzioni proposte ( tra cui quelle di Alessandro Fo per Catullo e Virgilio, e di Jolanda Insana per Marziale) dalla sezione su Ovidio, dalle note di filologia.
Ma se questo è vero, è anche implicita in tutto il volume, la tensione verso un pieno allargamento del concetto, visto poi che il punto di partenza è individuato in una famosa conferenza di T. S. Eliot e nel suo interrogativo: « Che cos’è un classico? » . A questo fa riferimento nel suo bel saggio Mario Lavagetto, a questo si riferisce anche Valerio Magrelli in un’intervista. Essenziale è allora riprendere ciò che dice Seamus Heaney ( di cui è qui tradotta una conferenza del 2002): « ciò che rende vitale un genere letterario è la sua abilità nel misurarsi con le sfide offerte dalle nuove circostanze storiche» . Un classico, insomma, è un testo che, appunto, resiste in virtù della sua capacità ad essere utilmente e variamente riusato in epoche diverse da quella in cui era stato realizzato. Il classico è un’opera alla quale sempre di più, oggi, è necessario affidarsi, per rafforzare la propria autonomia di giudizio, per affinare il gusto ( che è cultura, che è frutto di conoscenza), per alimentarsi ancora e opporre resistenza alla confusione organizzata di un mercato che, come tante volte mi è già capitato di dire, propone surrogati di facile ma di ben poco remunerativo consumo. Un tempo il classico era il deposito di una grande tradizione, da cui procedere per continuare rinnovando.
Oggi è soprattutto il riferimento alto, l’esempio e il conforto di cui si ha bisogno all’interno di una condizione culturale imbarbarita, involgarita.
Ma se questo è vero, è anche implicita in tutto il volume, la tensione verso un pieno allargamento del concetto, visto poi che il punto di partenza è individuato in una famosa conferenza di T. S. Eliot e nel suo interrogativo: « Che cos’è un classico? » . A questo fa riferimento nel suo bel saggio Mario Lavagetto, a questo si riferisce anche Valerio Magrelli in un’intervista. Essenziale è allora riprendere ciò che dice Seamus Heaney ( di cui è qui tradotta una conferenza del 2002): « ciò che rende vitale un genere letterario è la sua abilità nel misurarsi con le sfide offerte dalle nuove circostanze storiche» . Un classico, insomma, è un testo che, appunto, resiste in virtù della sua capacità ad essere utilmente e variamente riusato in epoche diverse da quella in cui era stato realizzato. Il classico è un’opera alla quale sempre di più, oggi, è necessario affidarsi, per rafforzare la propria autonomia di giudizio, per affinare il gusto ( che è cultura, che è frutto di conoscenza), per alimentarsi ancora e opporre resistenza alla confusione organizzata di un mercato che, come tante volte mi è già capitato di dire, propone surrogati di facile ma di ben poco remunerativo consumo. Un tempo il classico era il deposito di una grande tradizione, da cui procedere per continuare rinnovando.
Oggi è soprattutto il riferimento alto, l’esempio e il conforto di cui si ha bisogno all’interno di una condizione culturale imbarbarita, involgarita.
«Avvenire» del 14 gennaio 2010
Nessun commento:
Posta un commento