Un pamphlet contro il vizietto dei maestri di pensiero
di Luigi Mascheroni
Da destra a sinistra, una sbornia di conformismo
L’intellettuale è qualcosa di talmente superfluo che non se ne può fare a meno. Le poche civiltà che nella storia dell’uomo se ne sono tenute alla larga, si sono estinte. Averlo in casa è pericoloso: rischia di darle fuoco, o che se la venda mentre tu non ci sei. Se lo butti fuori, dopo ti senti tremendamente solo. Ossimoro vivente che concentra in sé ogni cosa e il suo contrario - prima fascista, dopo antifascista; in origine comunista, poi liberale; di rigida educazione cattolica approdato in età adulta a un feroce anticlericalismo; già militante di Potere operaio, attualmente senatore del Popolo della libertà - l’intellettuale è assolutamente essenziale nella sua inutilità. Se è un intellettuale significa che pensa, e se pensa significa che può essere sfiorato da qualche idea, ma se ha delle idee può anche cambiarle, e quindi, incidentalmente, tradirle. Succede.
Razza litigiosa, bastarda, volubile, contraddistinta da una genetica vocazione individualista e una totale mancanza di senso autocritico, gli intellettuali - per uno strano corto circuito culturale - rappresentano l’oggetto di riflessione preferito di loro stessi. In ottimo stato di salute nonostante da almeno due secoli se ne pianga la morte, gli intellettuali adorano scrivere - ad esempio - del destino degli intellettuali nella storia, del ruolo degli intellettuali nella società, della necessità degli intellettuali nella postmodernité. Alberto Asor Rosa, un venerato maestro, ne ha da poco deprecato il «grande silenzio»; Alfonso Berardinelli, una delle menti più lucide della critica italiana, sta preparando una monumentale «biografia» dell’intellettuale del Novecento; mentre Pierluigi Battista, uno dei più intellettuali tra i nostri giornalisti, ha appena concluso un accurato studio sulla peggiore delle tante patologie di cui è affetta la categoria: il conformismo. Una malattia di per sé inguaribile, ma di cui forse si può rallentare il decorso assumendo massicce dosi del suo nuovo I conformisti. L’estinzione degli intellettuali d’Italia (Rizzoli, pagg. 221, euro 18). Si consiglia di leggere attentamente le avvertenze («La cultura di sinistra ha smesso di pensare, e quella di destra non riesce nemmeno a cominciare») e le modalità d’uso («Gli irregolari, che sono spiriti irrequieti e caparbi, amano dare risposte chiare agli interrogativi che generalmente i conformisti sono inclini a disertare»).
Esemplare e necessario, il libro di Pierluigi Battista è uno sconfortato più che arrabbiato atto d’accusa contro i costumi degenerati degli intellettuali del Novecento, anche italiani, e anche contemporanei. Dei quali non ha paura - rispondendo con coerenza a una domanda da lui spesso posta ai suoi interlocutori - di fare nomi e cognomi. Da intellettuale informato dei fatti, Battista analizza ed esemplifica i diversi aspetti del devastante conformismo che domina tra gli uomini di cultura: innanzitutto l’essere «fedeli» all’ideologia più che alla verità, mettendo invece ai margini chi pratica l’indipendenza di pensiero, i cosiddetti «irregolari», tra i quali Battista innalza a modello Albert Camus, George Orwell, Georges Bernanos e Simon Weil (capaci in modo diversi tra loro di «tradire» la propria appartenenza politica o ideologica pur di non tradire se stessi, cioè la verità che altri preferivano non vedere, come Brecht, o Heidegger, o Sartre, o Lukàcs, o tanti altri). Poi l’inclinazione, per incapacità di giudizio o peggio per opportunismo, a innamorarsi di tiranni e dittatori, trasformandosi in pifferai dei peggiori totalitarismi, rossi o neri che siano (da Drieu La Rochelle che ancora pochi giorni prima di suicidarsi «meditava la trasmigrazione intellettuale dal filonazismo antisemita alla purezza bolscevica dell’Armata Rossa trionfante» fino agli imbarazzanti cedimenti di Gianni Vattimo al dispotismo del venezuelano Hugo Chávez).
E ancora: gli intellettuali conformisti sono imbattibili nella trasformistica capacità di riciclarsi impunemente, tradendo tutti e tutto, e rimanendo sempre al proprio posto, con discredito degli «ex» e assoluzione dei «post» (si pensi ai «redenti» passati indenni dal fascismo entusiasta all’antifascismo orgoglioso). Sono maestri nella funambolica arte del «pensiero doppio» (José Saramago, capace di difendere contro ogni censura un libro fotografico blasfemo e anti-cattolico, ma pronto a denunciare l’irresponsabilità di chi ha pubblicato le vignette satiriche contro Maometto). Sono tragicamente affetti da memoria corta o «selettiva» (Eugenio Scalfari che non si risparmia sarcasmi sull’anticomunismo senza comunismo, ma simultaneamente richiama i valori eterni dell’antifascismo senza fascismo). E sono spesso e volentieri vittima di sconcertanti miopie e strabismi ideologici, incubi revisionisti, vecchi e nuovi oscurantismi, sfrenati e controproducenti laicismi, inquietanti ipnosi cospirazioniste (da Pier Paolo Pasolini, ahinoi, a Giuseppe D’Avanzo, ahilui: «Io so, ma non ho le prove»...). Senza contare ostracismi e indifferenza a corrente alternata (ci si straccia le vesti se qualcuno pronuncia la parola «antidarwinismo» e non si alza un dito per difendere Ayaan Hirsi Ali e la sua battaglia contro l’islam fondamentalista).
Ma soprattutto, ed è l’aspetto peggiore del peggior conformismo, ciò che colpisce nella classe intellettuale di quest’Italia spaccata in berlusconiani e anti-berlusconiani, è la letale predisposizione alla «guerra civile» politico-culturale. Un comico «bipolarismo antropologico» che divide ogni discussione, ogni problema, ogni proposta in due blocchi omogenei, uno di destra e uno di sinistra, senza sfumature, senza dialogo, senza «aperture» che non sembrino cedimenti. Con il risultato che il conformismo si è scisso in due conformismi. Uno di destra e uno di sinistra. E il terzismo è solo una comoda formula bipartisan prudentemente equidistante da tutto, e quindi da niente.
Pierluigi Battista dei nostri intellettuali ne salva pochi (giusto Arbasino, Fruttero e qualcun altro) e ne chiama in causa parecchi (soloni del pensiero politicamente corretto che poi inciampano in scopiazzature e cretinismi vari, come Umberto Galimberti e Piergiorgio Odifreddi, e ce n’è persino per un «intoccabile» come Roberto Saviano). E ai suoi esempi, se ne potrebbero aggiungere molti altri naturalmente. A noi, tra i tanti, vengono in mente gli intellos di Gianfranco Fini, lanciati ultimamente in spericolati sofismi ideologico-buonisti per giustificare le «svolte» del Capo. Oppure la messa all’indice di uno scrittore che ha scelto di scrivere sulle pagine culturali di un giornale di centrodestra come Libero, da parte di un giovanissimo sacerdote della critica antifascista come Andrea Cortellessa. Anche questi sono conformismi.
Del resto la coerenza, come la politica, è una cosa troppo seria per essere lasciata in mano all’intellettuale. Sempre troppo impegnato - anzi, engagé - per avere dubbi. Soprattutto su di sé.
Razza litigiosa, bastarda, volubile, contraddistinta da una genetica vocazione individualista e una totale mancanza di senso autocritico, gli intellettuali - per uno strano corto circuito culturale - rappresentano l’oggetto di riflessione preferito di loro stessi. In ottimo stato di salute nonostante da almeno due secoli se ne pianga la morte, gli intellettuali adorano scrivere - ad esempio - del destino degli intellettuali nella storia, del ruolo degli intellettuali nella società, della necessità degli intellettuali nella postmodernité. Alberto Asor Rosa, un venerato maestro, ne ha da poco deprecato il «grande silenzio»; Alfonso Berardinelli, una delle menti più lucide della critica italiana, sta preparando una monumentale «biografia» dell’intellettuale del Novecento; mentre Pierluigi Battista, uno dei più intellettuali tra i nostri giornalisti, ha appena concluso un accurato studio sulla peggiore delle tante patologie di cui è affetta la categoria: il conformismo. Una malattia di per sé inguaribile, ma di cui forse si può rallentare il decorso assumendo massicce dosi del suo nuovo I conformisti. L’estinzione degli intellettuali d’Italia (Rizzoli, pagg. 221, euro 18). Si consiglia di leggere attentamente le avvertenze («La cultura di sinistra ha smesso di pensare, e quella di destra non riesce nemmeno a cominciare») e le modalità d’uso («Gli irregolari, che sono spiriti irrequieti e caparbi, amano dare risposte chiare agli interrogativi che generalmente i conformisti sono inclini a disertare»).
Esemplare e necessario, il libro di Pierluigi Battista è uno sconfortato più che arrabbiato atto d’accusa contro i costumi degenerati degli intellettuali del Novecento, anche italiani, e anche contemporanei. Dei quali non ha paura - rispondendo con coerenza a una domanda da lui spesso posta ai suoi interlocutori - di fare nomi e cognomi. Da intellettuale informato dei fatti, Battista analizza ed esemplifica i diversi aspetti del devastante conformismo che domina tra gli uomini di cultura: innanzitutto l’essere «fedeli» all’ideologia più che alla verità, mettendo invece ai margini chi pratica l’indipendenza di pensiero, i cosiddetti «irregolari», tra i quali Battista innalza a modello Albert Camus, George Orwell, Georges Bernanos e Simon Weil (capaci in modo diversi tra loro di «tradire» la propria appartenenza politica o ideologica pur di non tradire se stessi, cioè la verità che altri preferivano non vedere, come Brecht, o Heidegger, o Sartre, o Lukàcs, o tanti altri). Poi l’inclinazione, per incapacità di giudizio o peggio per opportunismo, a innamorarsi di tiranni e dittatori, trasformandosi in pifferai dei peggiori totalitarismi, rossi o neri che siano (da Drieu La Rochelle che ancora pochi giorni prima di suicidarsi «meditava la trasmigrazione intellettuale dal filonazismo antisemita alla purezza bolscevica dell’Armata Rossa trionfante» fino agli imbarazzanti cedimenti di Gianni Vattimo al dispotismo del venezuelano Hugo Chávez).
E ancora: gli intellettuali conformisti sono imbattibili nella trasformistica capacità di riciclarsi impunemente, tradendo tutti e tutto, e rimanendo sempre al proprio posto, con discredito degli «ex» e assoluzione dei «post» (si pensi ai «redenti» passati indenni dal fascismo entusiasta all’antifascismo orgoglioso). Sono maestri nella funambolica arte del «pensiero doppio» (José Saramago, capace di difendere contro ogni censura un libro fotografico blasfemo e anti-cattolico, ma pronto a denunciare l’irresponsabilità di chi ha pubblicato le vignette satiriche contro Maometto). Sono tragicamente affetti da memoria corta o «selettiva» (Eugenio Scalfari che non si risparmia sarcasmi sull’anticomunismo senza comunismo, ma simultaneamente richiama i valori eterni dell’antifascismo senza fascismo). E sono spesso e volentieri vittima di sconcertanti miopie e strabismi ideologici, incubi revisionisti, vecchi e nuovi oscurantismi, sfrenati e controproducenti laicismi, inquietanti ipnosi cospirazioniste (da Pier Paolo Pasolini, ahinoi, a Giuseppe D’Avanzo, ahilui: «Io so, ma non ho le prove»...). Senza contare ostracismi e indifferenza a corrente alternata (ci si straccia le vesti se qualcuno pronuncia la parola «antidarwinismo» e non si alza un dito per difendere Ayaan Hirsi Ali e la sua battaglia contro l’islam fondamentalista).
Ma soprattutto, ed è l’aspetto peggiore del peggior conformismo, ciò che colpisce nella classe intellettuale di quest’Italia spaccata in berlusconiani e anti-berlusconiani, è la letale predisposizione alla «guerra civile» politico-culturale. Un comico «bipolarismo antropologico» che divide ogni discussione, ogni problema, ogni proposta in due blocchi omogenei, uno di destra e uno di sinistra, senza sfumature, senza dialogo, senza «aperture» che non sembrino cedimenti. Con il risultato che il conformismo si è scisso in due conformismi. Uno di destra e uno di sinistra. E il terzismo è solo una comoda formula bipartisan prudentemente equidistante da tutto, e quindi da niente.
Pierluigi Battista dei nostri intellettuali ne salva pochi (giusto Arbasino, Fruttero e qualcun altro) e ne chiama in causa parecchi (soloni del pensiero politicamente corretto che poi inciampano in scopiazzature e cretinismi vari, come Umberto Galimberti e Piergiorgio Odifreddi, e ce n’è persino per un «intoccabile» come Roberto Saviano). E ai suoi esempi, se ne potrebbero aggiungere molti altri naturalmente. A noi, tra i tanti, vengono in mente gli intellos di Gianfranco Fini, lanciati ultimamente in spericolati sofismi ideologico-buonisti per giustificare le «svolte» del Capo. Oppure la messa all’indice di uno scrittore che ha scelto di scrivere sulle pagine culturali di un giornale di centrodestra come Libero, da parte di un giovanissimo sacerdote della critica antifascista come Andrea Cortellessa. Anche questi sono conformismi.
Del resto la coerenza, come la politica, è una cosa troppo seria per essere lasciata in mano all’intellettuale. Sempre troppo impegnato - anzi, engagé - per avere dubbi. Soprattutto su di sé.
«Il Giornale» del 17 gennaio 2010
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