La formula per delegittimare il governo è una litania che non coglie il problema: lo strapotere delle oligarchie. La casta dei burocrati e i troppi centri decisionali sono la vera stranezza
di Eugenio Di Rienzo
Dopo i tanti analisti politici, che affollano dei loro editoriali i più prestigiosi quotidiani anglosassoni, ripetendo la monotona litania sulla «democrazia incompiuta», sulla «democrazia senza democrazia» del nostro Paese, qualche giorno fa è toccato a uno storico britannico impartirci nuovamente questa lezioncina snobistica. Stiamo parlando di Christopher Duggan, degno allievo di quel Denis Mack Smith, autore amatissimo dalla nostra sinistra storiografica, che in tempi non remoti dipinse le vicende del nostro Risorgimento come una storia tenebrosa fatta di avventurismo, cialtroneria, doppiogiochismo, delinquenza politica dalla quale non poteva non scaturire che l'avvento della dittatura fascista.
In un recente articolo, pubblicato naturalmente sulle pagine di «Repubblica», Duggan, dopo aver affermato che nella maggior parte delle democrazie sarebbe stato impossibile per Berlusconi diventare primo ministro, per il suo conflitto di interessi, trova la spiegazione di questa «anomalia italiana» nel passato della nostra nazione e nel suo costituzionale deficit di liberalismo. Per Duggan, dopo il 1861 le deboli forze del liberalismo cedettero rapidamente, per mantenere il potere contro le forze socialiste e cattoliche che ne minacciavano la stabilità, alla tentazione di chiudere un occhio sull'illegalità, sulla violenza di Stato, sui brogli elettorali, sulle alleanze con mafiosi e camorristi.
La brutalità e, in seguito, la diffusa corruzione dello Stato fascista si assicurarono egualmente un largo consenso usando il linguaggio della «fede» rivoluzionaria e lo spauracchio del nemico interno. Né il secondo dopoguerra modificò questa linea di tendenza. La Costituzione del 1948 era un inno al liberalismo e alla democrazia, continua Duggan, ma la misura in cui negli anni seguenti ne sono stati violati sia lo spirito che la lettera fa pensare che si trattasse in buona parte di una dichiarazione di intenti, se tanti scandali della Prima Repubblica furono giustificati dall’elettorato e dalle élite politiche appellandosi semplicemente all’idea di una guerra di religione contro le forze del male. Principali vittime di questa situazione furono le istituzioni pubbliche la cui reputazione di imparzialità era stata invece considerata fin dal XIX da Stati liberali come la Gran Bretagna vitale per la propria credibilità.
Si tratta di una tesi non nuova né originale, che fece la sua comparsa subito dopo la vittoria berlusconiana del 2001, quando si cominciò a sostenere la tesi che la qualità della democrazia non dipendeva tanto dal livello di sviluppo economico quanto dallo spazio culturale in cui si afferma e che quindi, per logico corollario, l’autentica democrazia poteva essere soltanto quella instaurata nei Paesi protestanti, poiché quelli cattolici potevano fondare soltanto democrazie spurie, falsificate, fittizie. In quest’ottica la «democrazia latina» e in particolare quella italiana presentava dei tratti inconciliabili con quella nata all'ombra dell’insegnamento di Lutero e di Calvino. Invece di universalismo e di ricerca del bene comune, i frutti della prima erano particolarismo, arbitrarietà, discriminazione, parzialità. Invece di una virtuosa separazione tra Stato e società, la democrazia cattolica produceva collusione fra interessi pubblici e privati, patrimonializzazione del potere, populismo clientelare e corruzione politica.
In realtà la definizione di «democrazia latina» era stata elaborata con maggiore consapevolezza, già all’inizio del secolo passato, da uno dei nostri maggiori scienziati della politica, come Gaetano Mosca. Per Mosca infatti gli effetti della viziosa struttura delle «democrazie latine» non si limitavano all’inefficienza, all’instabilità, alla corta durata dei governi, ad un diffuso immoralismo. Essi si manifestavano piuttosto nella mancata percezione e nel mancato esercizio del primario fondamento di ogni corpo politico, ossia la sovranità dello Stato.
Se in Italia, in Francia, in Spagna «la sovranità ha perduto parte del suo prestigio e quasi ogni potere politico», affermava Mosca, nel resto d'Europa, e particolarmente nei Paesi retti da lungo tempo da un governo parlamentare, «si considera invece come non legittima una qualunque forma di governo priva di una base naturale, che non ha a suo fondamento una vera volontà popolare». Nessuna inferiorità etnica costringeva i popoli latini a permanere in questa posizione di stallo, aggiungeva però Mosca, una volta che essi, dopo essersi sbarazzati della «tirannide delle corti e dei sovrani dell’antico regime», avessero deciso di non sopportare più quella «forse più vergognosa e demoralizzante» delle lobbies politiche e dei poteri forti che a queste facevano capo.
Parole ancora attualissime, quelle di Mosca, come ha confermato il Rapporto Italia 2007, pubblicato dall'Eurispes, dove l’Italia veniva definita una nazione amministrata non più dai legittimi centri di potere ma da un coacervo di istituzioni, usanze, consuetudini e prassi di «stampo feudale». Se al vertice dello Stato rimane per molti versi forte l’egemonia delle vecchie oligarchie della Prima Repubblica e la loro tendenza a fare del premier «un re che regna ma che non governa», alla periferia, la costruzione di un’architettura amministrativa e politica fortemente decentrata, del tutto incompatibile con una struttura autenticamente federalistica, ha moltiplicato le strutture decisionali e di spesa senza responsabilità e controllo. Mentre il protagonismo di molti amministratori locali e la loro possibilità di porre ostacoli a volte insormontabili agli indirizzi e alle politiche unificanti del governo centrale «somigliano sempre più alle intemperanze che vassalli, valvassori, valvassini manifestavano periodicamente nei confronti del sovrano, rivendicando un potere di veto rispetto alle sue decisioni». Ed è in questo, sicuramente, e non in tante interpretazioni del nostro passato, ormai ispirate da una sorta di «dipietrismo storiografico», che va ritrovata la spiegazione dell’anomalia democratica del nostro Paese.
«Il Giornale» del 2 dicembre 2009
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