08 dicembre 2009

Il rinnegato Bersani

Le giuste ragioni del no alla piazza
di Ernesto Galli della Loggia
Negli
Ha fatto benissi­mo il segretario del Pd Pier Lui­gi Bersani a te­nere il suo partito, alme­no ufficialmente, lontano dalla manifestazione del «No B-day». Quella che si è conclusa sabato a San Giovanni, infatti, non è stata «la rivoluzione vio­la », «l'ingresso ufficiale della politica nell'era di in­ternet », «un miracolo ita­liano », «un giorno che ha cambiato la storia», «la fi­ne decretata della secon­da repubblica» come si è subito proclamato con l'abituale sobrietà dalle co­lonne di Repubblica . In una democrazia che sia minimamente tale cortei e comizi oceanici non cambiano mai realmente il quadro politico. Un an­no fa, per esempio, Veltro­ni radunò al Circo Massi­mo almeno il doppio dei manifestanti di domeni­ca: e cosa è cambiato? Nul­la. Sei mesi dopo, anzi, do­vette dimettersi. Comizi e raduni sono al più un segnale. Ma nel nostro caso il «No B-day» non indica uno di quei sommovimenti epocali che a partire dal '68 ci ven­gono regolarmente an­nunciati ogni sei mesi, tut­te le volte che qualche fol­la, specie se giovanile, si fa una passeggiata per le vie di Roma e che poi al­trettanto regolarmente non avvengono mai. Se­gnala solo il principale problema politico del Par­tito democratico: quello di riuscire a difendere e affermare una propria au­tonoma identità e dun­que una propria linea. Un problema che il Pd si tira dietro da quando è nato, ma per risolvere il quale — si deve essere giusta­mente detto Bersani — la via migliore non può esse­re certo quella di aderire a una manifestazione che, seppure spontanea, ha però assunto da subito le forme e i contenuti del radicalismo giustizialista dell’Italia dei Valori. Vale a dire di un altro partito, diverso dal Pd e in un senso profondo suo con­corrente.
I termini della questio­ne sono semplicissimi: se vuole vincere le elezioni il Pd deve conquistare alme­no una parte dell'elettora­to di centro; ma poiché è ovvio che questo elettora­to rifiuta in genere ogni massimalismo, ne conse­gue che anche il Pd deve fare altrettanto. Può farlo, però, solo se marca la pro­pria distanza da Di Pietro, se sottolinea la propria de­cisa avversione verso l'an­tiberlusconismo parossi­stico dell'ex pm, verso la sua idea che il codice pe­nale e i tribunali siano l'al­fa e l'omega di ogni oppo­sizione. In tutti gli altri Pa­esi avviene così senza pro­blemi: in Germania, per esempio, l'Spd è aperto av­versario della Linke (ci fa talvolta degli accordi di governo locale, ma è tut­t’altra questione), in Fran­cia i socialisti non aderi­scono certo alle manife­stazioni dei vari partiti della sinistra trotzkista. Perché solo in Italia, inve­ce, sembra che non possa accadere lo stesso?
La risposta è che nell'in­finita transizione apertasi a sinistra con il crollo del comunismo, con la fine del Pci e con le sue succes­sive trasformazioni in Pds, Ds e ora Pd, l'elettora­to di quella parte ha visto progressivamente disgre­garsi qualunque profilo identitario realmente strutturato nel quale rico­noscersi.Oltre la naturale vischiosità del passato e la nostalgia autobiografica gli è rimasto solo un insieme di principi — costretti peraltro a mantenersi sul vago, troppo sul vago, per la loro difficile traducibilità nell’Italia del grande ceto medio, per giunta paralizzata da un debito pubblico e da una pressione fiscale smisurati, nonché alle prese con la globalizzazione —; oltre a questi vaghi principi è rimasto soprattutto quello che può definirsi «l’opposizionismo». Cioè la volontà di essere comunque contro, l’idea che ogni compromesso è un «inciucio», ogni minimo accordo uno sporcarsi le mani, che i «nostri» interessi sono sempre legittimi mentre i «loro» mai perché in sostanza «noi» siamo il bene e «loro» il male. Dall’«opposizionismo» al radicalismo massimalistico il passo è brevissimo, come si vede.
Il punto cruciale è che quando c’era il Partito comunista almeno due fattori impedivano che tale passo fosse compiuto. Il primo consisteva nel fatto che «loro», gli avversari, erano essenzialmente i cattolici, la Democrazia cristiana, e non era proprio tanto facile dipingere gli uni e l’altra come rappresentanti di un male assoluto: non da ultimo perché in tal modo il «dialogo» con loro sarebbe tra l’altro diventato impossibile. Il secondo fattore era la tradizione comunista plasmata dal leninismo. Una tradizione fatta di diffidenza profonda verso ogni massimalismo che si presentasse come più «radicale», più «coerente»: una tradizione capace di avvalersi dell’estremismo, anche di coltivarlo magari, ma ancora più capace di combatterlo ricorrendo anche ai mezzi più spietati per togliergli qualunque spazio di agibilità politica. Venute meno la tradizione comunista e la sua prassi, è sopravvissuto solo l’«opposizionismo» che ha finito in modo naturale per prendere sempre più spesso, e alla fine in modo abituale, le vesti del massimalismo, minacciando di diventare il vero e unico carattere identitario del popolo di sinistra, a cominciare da quello «democratico».
Che l’avversario ora non fosse più la Dc bensì un personaggio come Berlusconi con tutto il carico delle sue gravi, oggettive, «anomalie» è stato certo importante, ma assai di più secondo me ha pesato altro. Da un lato ha contato l’incapacità del Pd di dare una spiegazione vera e plausibile della fine ambigua della Prima Repubblica, nonché delle ragioni, legate intimamente a quella fine, che sole spiegano la comparsa e il successo dello stesso Berlusconi. Dall’altro il vuoto di programmi veri e di proposte politiche precise, di alleanze strategiche convincenti, di lotte sociali vaste, che il nuovo partito non è riuscito a colmare, finendo così per lasciar sussistere solo «l’opposizionismo» massimalista che lo trascina fatalmente nell’abbraccio stritolante di Di Pietro. A mantenere in vita tale «opposizionismo» contribuisce, per finire, lo spregiudicato uso di sponda che ne fa ai vertici del Pd chiunque intenda far capire di non condividere interamente la leadership ufficiale o voglia comunque mostrare di essere qualcosa di diverso, voglia conservare una propria immagine distinta. Il segretario cerca di opporsi al massimalismo? Di costruire un’opposizione più ragionata?
Bersani non va al «No B-day»? Ed ecco allora che Bindi, Franceschini e gli altri oligarchi, perfino Veltroni, si precipitano immediatamente per far vedere che no, perbacco!, loro invece ci vanno, loro sì che sono contro: loro per fortuna esistono e lottano per la nostra democrazia insieme a Marco Travaglio e Antonio Di Pietro.
«Corriere della sera» del 7 dicembre 2009

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