di Lucio Lami *
Di tanto in tanto, con crescente rassegnazione, qualche letterato alza la voce sul mercantilismo che domina il mondo delle lettere. Camon, col suo timbro moralistico, lo fa da vent’anni e si è ripetuto col lucidissimo articolo di pochi giorni fa su 'Avvenire': «I premi ingannano, meglio i critici». Il guaio è che l’editoria, trasformata esclusivamente in mercato, va bene a troppi e il 99 percento dei premi sedicenti letterari altro non sono che enormi banchi di vendita e pubblicità, dietro ai quali disquisiscono giurie manovrate e si accapigliano col pugnale tra i denti, i caporali delle grandi case editrici. Di fatto, la maggior parte dei grandi premi, sono dati dagli editori a se stessi e all’autore che vogliono piazzare sul mercato. Una campagna di lancio che costerebbe un patrimonio, invece, attraverso i premi, viene in gran parte pagata da terzi, sponsor e istituzioni, con la benedizione dello Stato, i cui ministri prediligono questo tipo di premi, ignorando i pochi che non danno garanzie di stare al gioco. In questo contesto, la stampa, appartenga o no agli stessi editori che pubblicano libri, si comporta come Giano bifronte: alla vigilia d’ogni grande evento ridicolizza il premio del quale ha seguito la preparazione, denunciando ora i brogli economici, ora le infelici manovre delle giurie, ora gli aspetti più patetici delle risse per la nomina dei finalisti. Ma, dopo un paio di settimane, ecco i severi critici accorrere alla manifestazione che hanno appena squalificato, partecipando alla gran festa come tutto fosse normale, tifando magari per il proprio editore. Una volta che segnalai questa contraddizione a 'La Stampa', mi fu risposto con un certo sarcasmo, alla maniera di Bogart: «È premiopoli, bellezza». Come dire: se il frutto è marcio noi ne siamo il concime. Lascia intendere Camon: gli editori pensano al prodotto che può sfondare tra un pubblico pasturato nell’ignoranza dalla televisione, sarebbe meglio far scegliere ai critici, in termini qualitativi. Sono vent’anni che gli rispondono picche. Per gli editori, la qualità del libro è un accessorio di modesto valore: non a caso sempre più spesso, gli editors, i cucinieri delle redazioni editoriali, commissionano i libri agli scrittori di fiducia, in base alle loro ricerche sugli ingredienti più appetiti. Camon, che è stato mio predecessore alla presidenza del Pen e che mi spalleggiò nel portare avanti il Premio Pen per il quale votano tutti gli scrittori-soci e gli editori sono tenuti alla larga, sa benissimo che cosa comporta introdurre il tema «premiamo solo il merito». Nessuno è ostile ai premi, visto che provocano il successo di questo o quel libro. Sono un po’ come il doping per i ciclisti. Ma questo dovrebbe in ogni caso spingere il mondo della cultura a salvaguardare in qualche modo la ricerca della qualità, a non considerarla offensiva per le leggi del mercato. Il mercato è di per sé invasivo; il mercato, caro Camon, ha tanti meriti, ma con la cultura non riesce a sintonizzarsi. Quanto ai critici letterari, sono praticamente spariti da buona parte dei giornali, con l’esultanza degli editori e la complicità dei direttori. L’educazione alla lettura? Roba da antiquariato.
*presidente onorario del Pen Club Italiano
«Avvenire» del 16 giugno 2010
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