Parla lo psichiatra Eugenio Borgna: «Le emozioni più profonde dell’uomo oggi sono travolte dalla fretta e dal cinismo»
di Marina Corradi
Lo psichiatra e scrittore Eugenio Borgna dedica il suo ultimo saggio (Le emozioni ferite, Feltrinelli) alle emozioni. Che sono, scrive, «anche portatrici di conoscenza: di una conoscenza che ci trascina nel cuore di esperienze di vita irraggiungibili dalla conoscenza razionale». Già questa chiave, di una conoscenza attingibile al di fuori della pura razionalità, colpisce.
Ma, professore, perché le emozioni di cui lei parla sono «ferite»?
«Perché – spiega Borgna – le emozioni più profonde e luminose dell’uomo oggi rischiano di essere travolte dalla fretta e dal cinismo. Fanno “perdere tempo”, non sono produttive, interrompono quella macchina micidiale per cui bisogna “realizzare”, senza fermarsi a riflettere. Emozioni ferite sono spesso quelle dei più giovani, bruciate dal cinismo che colpisce chi voglia uscire dagli argini della razionalità tacitamente imposti dagli adulti».
Occorre dare voce alle emozioni interiori. Lei scrive che le parole tuttavia possono essere «soglie pietrificate » oppure «scialuppe» che salvano. Quando e quali parole sono strumento di salvezza?
«Ci sono parole che affollano le nostre giornate, ma esprimono unicamente le nostre individuali istanze, e diventano solo cascate di rumore. Le parole creative invece sono quelle che nascono in noi dall’urgenza di dire ciò che siamo, dentro a una relazione: e dunque parole tese all’altro. Parola che salva è solo quella che tende all’altro. Solo questo accento divide le parole terrificate da quelle che liberano. Poi, per fondare una relazione autentica, la relazione deve essere il più possibile simmetrica. La asimmetria fra il dolore e la gioia in chi parla e in chi ascolta va resa meno aspra nel com-patire, nel condividere la sofferenza».
Lei parla, nel libro, di silenzio. Anche il silenzio può essere un dialogo?
«Esistono tanti tipi di silenzio. E c’è un silenzio interiore da cui nascono parole che di questo silenzio portano il sigillo, inteso come timbro di immediata intuizione, di contem- plazione dell’essenziale. Nel silenzio contemplativo è possibile cogliere ciò che è essenziale dire a chi ci ascolta ».
Come maestra di silenzio lei cita Etty Hillesum, la giovane ebrea morta ad Auschwitz che ha lasciato le sue intense «Lettere» e il «Diario». La Hillesum che scriveva, mentre il nazismo attorno a lei dilagava: 'In me c’è un silenzio sempre più profondo. Lo lambiscono parole che stancano, perché non riescono a esprimere nulla”».
«Sono stato folgorato da Etty Hillesum. Ciò che ci ha lasciato rimanda a quell’infinito che possiamo cogliere solo se sfuggiamo alla ghigliottina della fredda analisi razionale, a quell’infinito che possiamo vivere solo se non lo riduciamo a qualcosa di calcolabile in senso positivistico. È l’infinito leopardiano, che fa cogliere un’altra immagine della realtà: come se le ragioni del cuore aprissero orizzonti più ampi di quelli della ragione calcolante'».
La Hillesum scrive di un «pozzo molto profondo» che avverte in sé, a cui attingere, ma che spesso è «coperto da sabbia e sassi». L’infinito abita in noi?
«“In interiore homine habitat veritas”, dice Agostino. Dentro ciascuno di noi esistono fonti inesauribili di amore e solidarietà. Fontane sorgenti, coperte però dai detriti dell’abitudine, della fretta, della incapacità della preghiera. Perché la preghiera in cosa consiste se non in parole riempite di silenzio, che ci immettono in un dialogo infinito, in sterminati orizzonti? Il pozzo è in noi, colmo di acqua freschissima; ma è contaminato dalla paura di guardare dentro di noi».
E come si fa, a ritrovare questo pozzo?
«Se crediamo in certi orizzonti di senso, con fatica possiamo cercare di adeguarci alle nostre perdite, alle nostre sconfitte, in una prospettiva se si vuole anche mistica: che allarga istantaneamente i confini della nostra capacità di partecipare il senso del vivere e del morire. Occorre dunque ascoltare fino in fondo noi stessi, anche nel dolore e nella sconfitta. E ascoltare le parole della grazia – poiché tutto è grazia infine, come scriveva Bernanos».
Etty Hillesum nel lager trova comunque, prodigiosamente, la gioia. Semplicemente in «uno spicchio di cielo». Che cos’è questa gioia, professore – vorremmo dire quasi, «che roba» è?
«La gioia di Etty Hillesum è la speranza incarnata. La speranza, in sé, è qualcosa che ancora non c’è, pur già illuminando il futuro. La gioia di cui parliamo invece è speranza già in atto, che prescinde dalle tre dimensioni agostiniane del tempo, passato, presente, futuro. La gioia vive in un presente che Agostino chiama eternizzato. Mentre la felicità ha bisogno di presente e di futuro, la gioia nel suo presente eternizzato cancella anche le impronte della morte».
Don Giussani parlò in un suo libro di «istante consistente».
«Appunto: pur essendo il presente inafferrabile, l’istante consistente, il presente della gioia diventa la somma misteriosa, ma aperta all’infinito, di ciò che siamo. Quando mesi fa all’isola di San Giulio ho assistito al “sì” di una giovane benedettina, cui il vescovo chiedeva se era pronta a lasciare tutto, ho colto nei suoi occhi abissi di grazia e di mistero, in una gioia e una apertura all’infinito che le parole non bastano a descrivere».
La gioia come speranza incarnata. Ma, professore, la speranza incarnata per i cristiani è Gesù Cristo...
«È come se in particolari occasioni, per grazia, potesse essere dato a un essere umano la percezione di questa speranza incarnata. La grazia della gioia piena: per cui Etty Hillesum in partenza per Auschwitz vede infine squarciarsi le tenebre e la morte».
Ma, professore, perché le emozioni di cui lei parla sono «ferite»?
«Perché – spiega Borgna – le emozioni più profonde e luminose dell’uomo oggi rischiano di essere travolte dalla fretta e dal cinismo. Fanno “perdere tempo”, non sono produttive, interrompono quella macchina micidiale per cui bisogna “realizzare”, senza fermarsi a riflettere. Emozioni ferite sono spesso quelle dei più giovani, bruciate dal cinismo che colpisce chi voglia uscire dagli argini della razionalità tacitamente imposti dagli adulti».
Occorre dare voce alle emozioni interiori. Lei scrive che le parole tuttavia possono essere «soglie pietrificate » oppure «scialuppe» che salvano. Quando e quali parole sono strumento di salvezza?
«Ci sono parole che affollano le nostre giornate, ma esprimono unicamente le nostre individuali istanze, e diventano solo cascate di rumore. Le parole creative invece sono quelle che nascono in noi dall’urgenza di dire ciò che siamo, dentro a una relazione: e dunque parole tese all’altro. Parola che salva è solo quella che tende all’altro. Solo questo accento divide le parole terrificate da quelle che liberano. Poi, per fondare una relazione autentica, la relazione deve essere il più possibile simmetrica. La asimmetria fra il dolore e la gioia in chi parla e in chi ascolta va resa meno aspra nel com-patire, nel condividere la sofferenza».
Lei parla, nel libro, di silenzio. Anche il silenzio può essere un dialogo?
«Esistono tanti tipi di silenzio. E c’è un silenzio interiore da cui nascono parole che di questo silenzio portano il sigillo, inteso come timbro di immediata intuizione, di contem- plazione dell’essenziale. Nel silenzio contemplativo è possibile cogliere ciò che è essenziale dire a chi ci ascolta ».
Come maestra di silenzio lei cita Etty Hillesum, la giovane ebrea morta ad Auschwitz che ha lasciato le sue intense «Lettere» e il «Diario». La Hillesum che scriveva, mentre il nazismo attorno a lei dilagava: 'In me c’è un silenzio sempre più profondo. Lo lambiscono parole che stancano, perché non riescono a esprimere nulla”».
«Sono stato folgorato da Etty Hillesum. Ciò che ci ha lasciato rimanda a quell’infinito che possiamo cogliere solo se sfuggiamo alla ghigliottina della fredda analisi razionale, a quell’infinito che possiamo vivere solo se non lo riduciamo a qualcosa di calcolabile in senso positivistico. È l’infinito leopardiano, che fa cogliere un’altra immagine della realtà: come se le ragioni del cuore aprissero orizzonti più ampi di quelli della ragione calcolante'».
La Hillesum scrive di un «pozzo molto profondo» che avverte in sé, a cui attingere, ma che spesso è «coperto da sabbia e sassi». L’infinito abita in noi?
«“In interiore homine habitat veritas”, dice Agostino. Dentro ciascuno di noi esistono fonti inesauribili di amore e solidarietà. Fontane sorgenti, coperte però dai detriti dell’abitudine, della fretta, della incapacità della preghiera. Perché la preghiera in cosa consiste se non in parole riempite di silenzio, che ci immettono in un dialogo infinito, in sterminati orizzonti? Il pozzo è in noi, colmo di acqua freschissima; ma è contaminato dalla paura di guardare dentro di noi».
E come si fa, a ritrovare questo pozzo?
«Se crediamo in certi orizzonti di senso, con fatica possiamo cercare di adeguarci alle nostre perdite, alle nostre sconfitte, in una prospettiva se si vuole anche mistica: che allarga istantaneamente i confini della nostra capacità di partecipare il senso del vivere e del morire. Occorre dunque ascoltare fino in fondo noi stessi, anche nel dolore e nella sconfitta. E ascoltare le parole della grazia – poiché tutto è grazia infine, come scriveva Bernanos».
Etty Hillesum nel lager trova comunque, prodigiosamente, la gioia. Semplicemente in «uno spicchio di cielo». Che cos’è questa gioia, professore – vorremmo dire quasi, «che roba» è?
«La gioia di Etty Hillesum è la speranza incarnata. La speranza, in sé, è qualcosa che ancora non c’è, pur già illuminando il futuro. La gioia di cui parliamo invece è speranza già in atto, che prescinde dalle tre dimensioni agostiniane del tempo, passato, presente, futuro. La gioia vive in un presente che Agostino chiama eternizzato. Mentre la felicità ha bisogno di presente e di futuro, la gioia nel suo presente eternizzato cancella anche le impronte della morte».
Don Giussani parlò in un suo libro di «istante consistente».
«Appunto: pur essendo il presente inafferrabile, l’istante consistente, il presente della gioia diventa la somma misteriosa, ma aperta all’infinito, di ciò che siamo. Quando mesi fa all’isola di San Giulio ho assistito al “sì” di una giovane benedettina, cui il vescovo chiedeva se era pronta a lasciare tutto, ho colto nei suoi occhi abissi di grazia e di mistero, in una gioia e una apertura all’infinito che le parole non bastano a descrivere».
La gioia come speranza incarnata. Ma, professore, la speranza incarnata per i cristiani è Gesù Cristo...
«È come se in particolari occasioni, per grazia, potesse essere dato a un essere umano la percezione di questa speranza incarnata. La grazia della gioia piena: per cui Etty Hillesum in partenza per Auschwitz vede infine squarciarsi le tenebre e la morte».
«Avvenire» del 30 settembre 2009