Oggi il via alla grande, e ancora amata, corsa ciclistica
di Umberto Folena
Evviva il Giro d’Italia, evviva!
Gridiamolo con sincero entusiasmo, poiché chi almeno una volta con ha provato un brivido vedendo passare la carovana dal proprio paese, o sui tornanti dolomitici, o congelata sotto la neve, o disciolta sotto il solleone? Evviva il Giro d’Italia, con una vaga speranza nel cuore: che non sia, ancora una volta, l’Italia presa in Giro. I sogni son desideri, non costano nulla, e li snoccioliamo uno per volta a costo di apparire tanto ingenui da strappare sorrisi di compatimento agli scafatissimi addetti ai lavori, quelli del Giro omertoso che tutto sanno e niente dicono, per non veder sfarinare il giocattolo che procura loro fama e denaro.
Ci piacerebbe veder arrivare primo al traguardo, in una di quelle tonitruanti tappone alpine, un ciclista sudato. Sfatto. Farfugliante tènere frasi sconnesse perché tutto l’ossigeno è impegnato a tener vispi cosce e polpacci, e il cervello pazienza. Un ciclista così sarebbe da abbracciare e coccolare. Invece scendono di sella freschi e sorridenti e profumati con congiuntivi e consecutio impeccabili, come neanche dopo una sgambatina sulla pista ciclabile. Troppo incredibile.
Ci piacerebbe che la media generale si abbassasse drasticamente. Sarebbe non la garanzia, ma almeno un indizio che la carovana procede con carburanti naturali, tipo pastasciutta, bistecca, cioccolata ed aranciata.
Ci piacerebbe che il Giro riuscisse a regalare qualche mito, uno di quei miti capaci di solleticare la fantasia e scaldare il cuore. I miti sulle due ruote sono Ginettaccio Bartali che fa imbufalire (eufemismo) i francesi nel 1948; «un uomo solo al comando, il suo nome è Fausto Coppi»; Eddy Merckx il Cannibale che tutto ingurgita, strada e avversari e traguardi; fino al povero Pantani, il cui unico vero avversario lo coltivava dentro di sé, fino a perdere contro di lui l’ultima tragica arrampicata… Mitici sono gli omini di neve che arrancano sul Mortirolo nel ventre della bufera.
Mito fa rima con pulito, e questo potrebbe essere un problema… Ci piacerebbe che il Giro fosse contagioso e a tutti venisse la voglia di spolverare la bici e montare in sella, per gite brevi e lunghe; perfino per una vacanza. Il Giro ha unito l’Italia più di Garibaldi, tirando un filo ideale, fatto di sudore e traguardi volanti e strappi ammazzagambe e discese a rottadicollo, dalle isole remote ai picchi nordici, attraverso le campagne più amene. Il Giro invita al tempo lento, ai luoghi non divorati a velocità folle e intravisti da un finestrino opaco, ma assaporati, annusati, toccati, conquistati metro dopo metro, pedalata dopo pedalata, con sole, vento e pioggia. E per questo amati. Ci piacerebbe che tutti i girini, ma tutti insieme, compresi dirigenti massaggiatori medici, gridassero: noi non ci dopiamo, il doping è veleno e inganno, una bugia detta a noi stessi, prima, e a tutti voi, dopo. Ci piacerebbe che venisse demolita la 'cultura del doping', molto simile alla cultura dell’alcol e della cocaina. È una 'cultura' perversa che suggerisce: se non ti dopi, non vinci neanche la corsa per cicloamatori. Se non ti dopi, non campi. L’importante è non farsi beccare.
Ci piace il Giro d’Italia. Di più: lo amiamo d’un amore assoluto. È parte di noi, della nostra storia, dei nostri sogni. Non potremmo farne a meno. Chi lo avvelena non lo ama, ma lo sfrutta. Chi ama il Giro, e ne ha il potere, cacci gli avvelenatori. Subito.
Gridiamolo con sincero entusiasmo, poiché chi almeno una volta con ha provato un brivido vedendo passare la carovana dal proprio paese, o sui tornanti dolomitici, o congelata sotto la neve, o disciolta sotto il solleone? Evviva il Giro d’Italia, con una vaga speranza nel cuore: che non sia, ancora una volta, l’Italia presa in Giro. I sogni son desideri, non costano nulla, e li snoccioliamo uno per volta a costo di apparire tanto ingenui da strappare sorrisi di compatimento agli scafatissimi addetti ai lavori, quelli del Giro omertoso che tutto sanno e niente dicono, per non veder sfarinare il giocattolo che procura loro fama e denaro.
Ci piacerebbe veder arrivare primo al traguardo, in una di quelle tonitruanti tappone alpine, un ciclista sudato. Sfatto. Farfugliante tènere frasi sconnesse perché tutto l’ossigeno è impegnato a tener vispi cosce e polpacci, e il cervello pazienza. Un ciclista così sarebbe da abbracciare e coccolare. Invece scendono di sella freschi e sorridenti e profumati con congiuntivi e consecutio impeccabili, come neanche dopo una sgambatina sulla pista ciclabile. Troppo incredibile.
Ci piacerebbe che la media generale si abbassasse drasticamente. Sarebbe non la garanzia, ma almeno un indizio che la carovana procede con carburanti naturali, tipo pastasciutta, bistecca, cioccolata ed aranciata.
Ci piacerebbe che il Giro riuscisse a regalare qualche mito, uno di quei miti capaci di solleticare la fantasia e scaldare il cuore. I miti sulle due ruote sono Ginettaccio Bartali che fa imbufalire (eufemismo) i francesi nel 1948; «un uomo solo al comando, il suo nome è Fausto Coppi»; Eddy Merckx il Cannibale che tutto ingurgita, strada e avversari e traguardi; fino al povero Pantani, il cui unico vero avversario lo coltivava dentro di sé, fino a perdere contro di lui l’ultima tragica arrampicata… Mitici sono gli omini di neve che arrancano sul Mortirolo nel ventre della bufera.
Mito fa rima con pulito, e questo potrebbe essere un problema… Ci piacerebbe che il Giro fosse contagioso e a tutti venisse la voglia di spolverare la bici e montare in sella, per gite brevi e lunghe; perfino per una vacanza. Il Giro ha unito l’Italia più di Garibaldi, tirando un filo ideale, fatto di sudore e traguardi volanti e strappi ammazzagambe e discese a rottadicollo, dalle isole remote ai picchi nordici, attraverso le campagne più amene. Il Giro invita al tempo lento, ai luoghi non divorati a velocità folle e intravisti da un finestrino opaco, ma assaporati, annusati, toccati, conquistati metro dopo metro, pedalata dopo pedalata, con sole, vento e pioggia. E per questo amati. Ci piacerebbe che tutti i girini, ma tutti insieme, compresi dirigenti massaggiatori medici, gridassero: noi non ci dopiamo, il doping è veleno e inganno, una bugia detta a noi stessi, prima, e a tutti voi, dopo. Ci piacerebbe che venisse demolita la 'cultura del doping', molto simile alla cultura dell’alcol e della cocaina. È una 'cultura' perversa che suggerisce: se non ti dopi, non vinci neanche la corsa per cicloamatori. Se non ti dopi, non campi. L’importante è non farsi beccare.
Ci piace il Giro d’Italia. Di più: lo amiamo d’un amore assoluto. È parte di noi, della nostra storia, dei nostri sogni. Non potremmo farne a meno. Chi lo avvelena non lo ama, ma lo sfrutta. Chi ama il Giro, e ne ha il potere, cacci gli avvelenatori. Subito.
«Avvenire» dell'8 maggio 2010
Nessun commento:
Posta un commento