di Fiorenzo Facchini
L’umanità neandertaliana, piuttosto bistrattata nel passato (qualcuno si è chiesto perfino se fossero uomini…), sembra in netta rivalutazione. Si è visto che i Neandertaliani, un tempo riconosciuti nel periodo tra 100.000 e 30.000 anni fa, caratterizzano lo scenario europeo per centinaia di migliaia di anni. Manifestazioni simboliche (come decorazioni, uso di coloranti, incisioni), ritenute appannaggio dell’umanità moderna, sono documentate presso Neandertaliani. Il loro isolamento genetico rispetto all’umanità moderna e quindi l’appartenenza a una specie diversa, sostenuta da molti sulla base del Dna mitocondriale (fino al punto di ritenere che un eventuale incrocio con uomini di tipo moderno dovesse dare una prole sterile) è smentito dalle nuove ricerche. E’ di ieri la notizia, apparsa sulla rivista «Science», di studi eseguiti sul genoma di Neandertaliani che suggeriscono incroci tra le due popolazioni.
Qualcosa del Dna neandertaliano è presente in noi, riconosce Svante Paabo, capocordata dell’équipe che ha compiuto le analisi sul Dna nucleare( più informativo di quello mitocondriale) nel genoma di tre donne neandertaliane della grotta di Vindija, in Croazia (38.000 anni fa). I risultati ottenuti sono stati confrontati con il Dna di cinque umani moderni (uno del Sud Africa, uno dell’Africa occidentale, un Papua della Nuova Guinea, un cinese e un francese). Il confronto mette in evidenza che sia gli asiatici che l’europeo condividono con i Neandertaliani da 1% al 4% del Dna nucleare. Non così gli africani. Ciò suggerisce che antichi uomini anatomicamente moderni si incrociarono con i Neandertaliani dopo avere lasciato l’Africa e prima che si diffondessero in Asia e in Europa.
Dunque viene ammesso un flusso genico fra Neandertaliani e forma moderna. Ciò non sorprende, solo che si pensi che in alcune regioni, Neandertaliani e uomini ormai moderni sono vissuti a lungo, nella stessa epoca, in alcuni casi, come in Israele, accomunati dalla medesima cultura musteriana.
Come escludere la possibilità di incroci? Quanto è stato trovato mostra un certo accordo con le vedute della paleoantropologia che si basa sugli aspetti morfologici. In vari reperti di 30.000 anni fa (gli ultimi Neandertaliani o le prime forme moderne) non sono rari aspetti moderni in soggetti neandertaliani o reminiscenze neandertaliane in reperti riferiti a umanità moderna.
Alcuni reperti di tipo moderno del Paleolitico superiore (come il bambino di Velho, in Portogallo, e vari reperti della Romania e della Moravia) mostrano qualche aspetto neandertaliano. Caratteri neandertaliani attenuati appaiono già nella donna di Tabun (Israele) che è molto più antica (intorno a 100.000 anni fa), forse per qualche mescolanza con l’umanità moderna proveniente dall’Africa.
Del resto la presenza dell’uomo moderno nella grotte di Qafzé e di Skhul in Israele risale a epoca molto antica (90.000 anni fa).
C’erano tutte le condizioni per qualche mescolanza di popolazioni. I nuovi studi mettono in guardia da facili semplificazioni nel parlare di specie nell’umanità preistorica, specialmente per popolazioni che potevano comunicare facilmente fra loro, come quelle di una medesima regione. Per l’umanità preistorica eventuali specie, caratterizzate cioè da isolamento riproduttivo, sono supposte, ma non dimostrate. Questa cautela è stata più volte sottolineata da chi scrive. E c’è una ragione. La cultura, che caratterizza l’uomo dalle sue origini, deve avere favorito le comunicazioni fra i gruppi e l’adattamento ai vari ambienti, rallentando quell’isolamento che caratterizza i processi di speciazione.
Qualcosa del Dna neandertaliano è presente in noi, riconosce Svante Paabo, capocordata dell’équipe che ha compiuto le analisi sul Dna nucleare( più informativo di quello mitocondriale) nel genoma di tre donne neandertaliane della grotta di Vindija, in Croazia (38.000 anni fa). I risultati ottenuti sono stati confrontati con il Dna di cinque umani moderni (uno del Sud Africa, uno dell’Africa occidentale, un Papua della Nuova Guinea, un cinese e un francese). Il confronto mette in evidenza che sia gli asiatici che l’europeo condividono con i Neandertaliani da 1% al 4% del Dna nucleare. Non così gli africani. Ciò suggerisce che antichi uomini anatomicamente moderni si incrociarono con i Neandertaliani dopo avere lasciato l’Africa e prima che si diffondessero in Asia e in Europa.
Dunque viene ammesso un flusso genico fra Neandertaliani e forma moderna. Ciò non sorprende, solo che si pensi che in alcune regioni, Neandertaliani e uomini ormai moderni sono vissuti a lungo, nella stessa epoca, in alcuni casi, come in Israele, accomunati dalla medesima cultura musteriana.
Come escludere la possibilità di incroci? Quanto è stato trovato mostra un certo accordo con le vedute della paleoantropologia che si basa sugli aspetti morfologici. In vari reperti di 30.000 anni fa (gli ultimi Neandertaliani o le prime forme moderne) non sono rari aspetti moderni in soggetti neandertaliani o reminiscenze neandertaliane in reperti riferiti a umanità moderna.
Alcuni reperti di tipo moderno del Paleolitico superiore (come il bambino di Velho, in Portogallo, e vari reperti della Romania e della Moravia) mostrano qualche aspetto neandertaliano. Caratteri neandertaliani attenuati appaiono già nella donna di Tabun (Israele) che è molto più antica (intorno a 100.000 anni fa), forse per qualche mescolanza con l’umanità moderna proveniente dall’Africa.
Del resto la presenza dell’uomo moderno nella grotte di Qafzé e di Skhul in Israele risale a epoca molto antica (90.000 anni fa).
C’erano tutte le condizioni per qualche mescolanza di popolazioni. I nuovi studi mettono in guardia da facili semplificazioni nel parlare di specie nell’umanità preistorica, specialmente per popolazioni che potevano comunicare facilmente fra loro, come quelle di una medesima regione. Per l’umanità preistorica eventuali specie, caratterizzate cioè da isolamento riproduttivo, sono supposte, ma non dimostrate. Questa cautela è stata più volte sottolineata da chi scrive. E c’è una ragione. La cultura, che caratterizza l’uomo dalle sue origini, deve avere favorito le comunicazioni fra i gruppi e l’adattamento ai vari ambienti, rallentando quell’isolamento che caratterizza i processi di speciazione.
«Avvenire» dell'8 maggio 2010
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