di Bianca Garavelli
I ricordi più lontani tornano più il numero degli anni aumenta. Così anche per Alda Merini, nata il primo giorno di primavera e morta il giorno di tutti i Santi: in Uomini miei (Frassinelli, 2005) aveva riunito racconti della sua infanzia, e degli amati familiari. Diceva di essere stata «una bambina cattivissima» e che la nonna in punto di morte avvertì di stare attenti alla «piccolina», perché era «completamente matta». In realtà libera e impulsiva, in fuga dalle regole sociali.
Alda Merini era nata nello stesso anno di uno dei libri meno tradizionali della poesia italiana: il 1931, data di uscita de L’Allegria di Giuseppe Ungaretti. Anche il suo destino poetico sarebbe stato quello di un’assoluta libertà formale, di un percorso originale e precoce, fin dal secondo dopoguerra, quando iniziò a scrivere poco più che adolescente. Un destino di poesia «da lei mai tradito», scrive Maria Corti nella prefazione a Fiore di Poesia (Einaudi 1998), ma anche il destino di una donna che rinasce dalle proprie ceneri. La poesia di Alda Merini rinasce nel 1984, grazie alla mediazione della stessa Corti e di Paolo Mauri, col volume La Terra Santa (Scheiwiller). Un capolavoro che ha aperto la strada a molti altri libri, fino a fare di lei la voce poetica più popolare dell’ultimo Novecento, insignita di riconoscimenti prestigiosi, come i premi Librex Montale e Viareggio, e candidata al Nobel. Ma già trent’anni prima aveva riscosso le lodi di critici e scrittori, tra cui Giacinto Spagnoletti, primo in assoluto a scoprirla, Giorgio Manganelli e Carlo Betocchi. Ragione di un silenzio così lungo è la tragica parentesi del manicomio, in cui fu internata nel 1965 per uscirne definitivamente solo nel 1972 con alterni ricoveri e dimissioni. Quasi dieci anni di sospensione dalla vita che spezzano a metà la biografia della poetessa. Merini parla del manicomio come delle «mura di Gerico», con la nuova forza che le conferisce la poesia rinata, proprio ne La Terra Santa: la scrittura poetica era diventata per lei una via di salvezza.
Grazie a un’esperienza così drammatica e feconda, è come se esistessero due Alda Merini: la giovanissima, che scrive a 16 anni ( La presenza di Orfeo, 1953) poesie fluide e complesse, cariche di intuizioni cosmiche sul rapporto tra la vita umana e quella dei sistemi fisici e stellari. E la matura, musa della Milano dei Navigli, dell’amore per uomini famosi e per barboni, autrice di poesie in cui la vita appare più spoglia, come i versi più spogli di metafore. Entrambe hanno una forza poetica unica: la capacità di leggere il mondo come un negativo fotografico pronto per la stampa, ma ancora un evento mentale, esplosivo, difficile da condividere. La traccia lasciata dal manicomio è quella della vita che travolge, nella sua provvisorietà e apparente casualità. Ma l’esperienza della follia era prefigurata dalla poesia precedente, in cui sono più importanti gli eventi affettivi di quelli storici, della guerra che pure ha sconvolto la sua famiglia e la città amata, Milano, in cui era nata «insieme alla primavera». È una poesia di sentimenti concreti, tangibili, da pronunciare con nomi precisi, nei primi e negli ultimi testi. Come in Nozze romane del 1955 (Schwarz), dove ansie per la vita coniugale con il primo marito Ettore Carniti si alternano a immagini religiose, in cui l’autrice si identifica con la Maddalena e dedica testi a Cristo portacroce e a Giovanni Evangelista. E in Tu sei Pietro del 1961 (Scheiwiller), l’ultimo libro prima dell’internamento, dove l’amore non corrisposto per il medico Pietro De Paschale si carica di toni mistici, diviene presentimento del dolore attraverso il «cuore trafitto dall’amore ». Ma non c’è solo l’amore terreno: in Paura di Dio del 1955 (Scheiwiller), un’angoscia profonda si mescola all’attrazione, vertiginosa e terribile, per Dio. Che è Padre, ma di un amore che sembra troppo grande alla donna che teme la sua «ascesa simile all’abisso». Un uguale istinto d’amore la spinge a scrivere versi per Michele Pierri, il poeta di Taranto che sposò nel 1983, e per Titano, barbone in cui vede un eroico cavaliere in miseria ( Titano amori intorno, La Vita Felice 1994).
Negli ultimi anni, in cui aveva raccolto la sfida del genere noir con La nera novella (Rizzoli 2007), era tornata a un’ispirazione cosmica e religiosa, la cui urgenza è attestata da libri come l’intenso Superba è la notte (Einaudi 2000), dove l’amore come un presentimento della fine si intreccia con le «tenebre sicure» della morte che pulisce da ogni male, Mistica d’amore (2008), che riunisce ben cinque precedenti opere di ispirazione religiosa, e Padre mio (2009, entrambi Frassinelli), in cui torna la figura del Padre divino, anche incarnata nei grandi padri umani della letteratura e della vita, tra cui David Maria Turoldo, «che diradava le tenebre». E da un libro che uscirà da Einaudi alla fine del 2009: Il carnevale della croce. Poesie religiose. Poesie d’amore, di nuovo con doppia anima, amorosa e religiosa. Un libro che purtroppo lei non vedrà.
Alda Merini era nata nello stesso anno di uno dei libri meno tradizionali della poesia italiana: il 1931, data di uscita de L’Allegria di Giuseppe Ungaretti. Anche il suo destino poetico sarebbe stato quello di un’assoluta libertà formale, di un percorso originale e precoce, fin dal secondo dopoguerra, quando iniziò a scrivere poco più che adolescente. Un destino di poesia «da lei mai tradito», scrive Maria Corti nella prefazione a Fiore di Poesia (Einaudi 1998), ma anche il destino di una donna che rinasce dalle proprie ceneri. La poesia di Alda Merini rinasce nel 1984, grazie alla mediazione della stessa Corti e di Paolo Mauri, col volume La Terra Santa (Scheiwiller). Un capolavoro che ha aperto la strada a molti altri libri, fino a fare di lei la voce poetica più popolare dell’ultimo Novecento, insignita di riconoscimenti prestigiosi, come i premi Librex Montale e Viareggio, e candidata al Nobel. Ma già trent’anni prima aveva riscosso le lodi di critici e scrittori, tra cui Giacinto Spagnoletti, primo in assoluto a scoprirla, Giorgio Manganelli e Carlo Betocchi. Ragione di un silenzio così lungo è la tragica parentesi del manicomio, in cui fu internata nel 1965 per uscirne definitivamente solo nel 1972 con alterni ricoveri e dimissioni. Quasi dieci anni di sospensione dalla vita che spezzano a metà la biografia della poetessa. Merini parla del manicomio come delle «mura di Gerico», con la nuova forza che le conferisce la poesia rinata, proprio ne La Terra Santa: la scrittura poetica era diventata per lei una via di salvezza.
Grazie a un’esperienza così drammatica e feconda, è come se esistessero due Alda Merini: la giovanissima, che scrive a 16 anni ( La presenza di Orfeo, 1953) poesie fluide e complesse, cariche di intuizioni cosmiche sul rapporto tra la vita umana e quella dei sistemi fisici e stellari. E la matura, musa della Milano dei Navigli, dell’amore per uomini famosi e per barboni, autrice di poesie in cui la vita appare più spoglia, come i versi più spogli di metafore. Entrambe hanno una forza poetica unica: la capacità di leggere il mondo come un negativo fotografico pronto per la stampa, ma ancora un evento mentale, esplosivo, difficile da condividere. La traccia lasciata dal manicomio è quella della vita che travolge, nella sua provvisorietà e apparente casualità. Ma l’esperienza della follia era prefigurata dalla poesia precedente, in cui sono più importanti gli eventi affettivi di quelli storici, della guerra che pure ha sconvolto la sua famiglia e la città amata, Milano, in cui era nata «insieme alla primavera». È una poesia di sentimenti concreti, tangibili, da pronunciare con nomi precisi, nei primi e negli ultimi testi. Come in Nozze romane del 1955 (Schwarz), dove ansie per la vita coniugale con il primo marito Ettore Carniti si alternano a immagini religiose, in cui l’autrice si identifica con la Maddalena e dedica testi a Cristo portacroce e a Giovanni Evangelista. E in Tu sei Pietro del 1961 (Scheiwiller), l’ultimo libro prima dell’internamento, dove l’amore non corrisposto per il medico Pietro De Paschale si carica di toni mistici, diviene presentimento del dolore attraverso il «cuore trafitto dall’amore ». Ma non c’è solo l’amore terreno: in Paura di Dio del 1955 (Scheiwiller), un’angoscia profonda si mescola all’attrazione, vertiginosa e terribile, per Dio. Che è Padre, ma di un amore che sembra troppo grande alla donna che teme la sua «ascesa simile all’abisso». Un uguale istinto d’amore la spinge a scrivere versi per Michele Pierri, il poeta di Taranto che sposò nel 1983, e per Titano, barbone in cui vede un eroico cavaliere in miseria ( Titano amori intorno, La Vita Felice 1994).
Negli ultimi anni, in cui aveva raccolto la sfida del genere noir con La nera novella (Rizzoli 2007), era tornata a un’ispirazione cosmica e religiosa, la cui urgenza è attestata da libri come l’intenso Superba è la notte (Einaudi 2000), dove l’amore come un presentimento della fine si intreccia con le «tenebre sicure» della morte che pulisce da ogni male, Mistica d’amore (2008), che riunisce ben cinque precedenti opere di ispirazione religiosa, e Padre mio (2009, entrambi Frassinelli), in cui torna la figura del Padre divino, anche incarnata nei grandi padri umani della letteratura e della vita, tra cui David Maria Turoldo, «che diradava le tenebre». E da un libro che uscirà da Einaudi alla fine del 2009: Il carnevale della croce. Poesie religiose. Poesie d’amore, di nuovo con doppia anima, amorosa e religiosa. Un libro che purtroppo lei non vedrà.
«Avvenire» del 3 novembre 2009
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