Sotto la scorza a volte dissacrante e trasgressiva c’era un’anima pura rimasta fanciulla. Un po’ regina un po’ mendicante, ha combattuto gli ultimi suoi anni contro una città sempre più disumana
di Lucia Bellaspiga
Audace, irriverente, scandalosa Merini, con gli occhi verdi attraversati da un lampo quando si divertiva a mettere alla prova chi la veniva a osannare nella sua casa, sulla Ripa di Porta Ticinese: «Si sieda, si sieda, non rimanga in piedi», sbuffava in una nuvola di fumo, incurante del fatto che il malcapitato non sapesse che fare. Di sedie, infatti, a parte la sua, neanche l’ombra, sommerse com’erano da abiti alla rinfusa, piatti semivuoti, mucchi di fogli, chincaglieria di ogni genere. Come il tavolo, del resto, e il pianoforte, simili ai bancali di un bazar mediorientale. Sui mobili, distribuite lungo l’ultimo percorso fatto tra la camera da letto e il salottino, si consumavano fumando tutte le sigarette che aveva iniziato e piantato lì, finché non si spegnevano lasciando un segno bruciacchiato sul legno, sul lenzuolo, sulla tovaglia... «Si sieda, perché resta in piedi?», ripeteva spazientita e scrutava la reazione. Insofferente degli adulatori, che fino a un certo punto la lusingavano, poi finivano sempre per suscitare un certo disprezzo, Alda Merini amava i sinceri e i coraggiosi. Affamata d’affetto, accoglieva molti ma sceglie- va pochi, quella cerchia di amici e amiche (rarissime) cui si rivolgeva nei momenti dell’ispirazione, quando la poesia sgorga e va presa al volo, fermata sulla carta: lei non scriveva, dettava, e il prescelto di turno aveva il privilegio di assistere alla metamorfosi della poetessa, che cambiava tono ed espressione mentre dalla sua bocca improvvisamente usciva, senza sforzo alcuno, la pura poesia. È questa l’esperienza che ieri la cerchia ristretta degli amici – riuniti attorno al letto d’ospedale su cui giaceva addormentata dell’ultimo sonno – si raccontava, la stessa per tutti: l’atto creativo, l’istante in cui, senza preavviso, l’Alda dei Navigli, quella delle barzellette in milanese, diventava la Merini autrice ispirata.
Allora la sua casa sembrava l’antro di una sibilla, lo sguardo si faceva malinconico e vagava lontano, la voce rauca si abbassava e diventava sussurro. Capivi che era finita quando gli occhi, altrettanto improvvisamente, tornavano a guizzare e lei spalancava un sorriso grato, ingenuo, di bambina.
Perché questo era Alda Merini sotto la scorza a volte dissacrante e trasgressiva, un’anima pura rimasta fanciulla. Riconosciuta ormai come una delle voci più autorevoli del Novecento, più volte candidata al Nobel, non è che restasse umile: nemmeno concepiva che il successo la potesse cambiare. Nel suo bazar di ricordi ed emozioni, premi prestigiosi e lettere di personaggi noti avevano la stessa dignità della carta del prosciutto appena mangiato e alla fine subivano lo stesso trattamento, così come le banconote, prima pretese e sudate (spesso lamentava che gli editori la sfruttassero e si facessero ricchi sulla sua pelle), poi immancabilmente regalate a qualche figlia, a un nipote. Non c’era nulla di materiale che destasse la sua attenzione per più di una giornata, e da casa sua si usciva sempre carichi di regali tra i più impensati e ingombranti. Un po’ regina e un po’ mendicante, vestita di stracci e bella di bigiotteria, restava intimamente signora, fine di una finezza interiore, aristocratica nell’onestà.
In questi giorni si farà a gara a celebrarne il genio creativo, ma forse non si dirà abbastanza della sua principale ricchezza, quella bontà innata che ne faceva un’anima candida e nei momenti più imprevisti le stampava sul viso un sorriso di struggente tenerezza. Quasi si stupiva, Alda Merini, di poter incutere timore, lei che non avrebbe fatto male a una mosca, e quando ciò accadeva la divertiva: assistemmo di recente a un episodio il giorno in cui l’inviato di una grande casa editrice – puntualmente ricevuto nella stanza da letto – aveva il compito di riferirle la cifra a lei attribuita come compenso per la riedizione di un suo libro di successo. Alzando la voce, brandì il bastone con il solo intento di alzarsi, ma questo bastò perché il poveretto se la desse a gambe, e la Merini si abbandonasse a una lunga stupefatta risata. L’altra faccia della bontà era infatti l’autoironia, dettata dall’umiltà ma anche da un’intelligenza acuta, perché lei, la donna che per dodici anni era stata rinchiusa in manicomio, cui avevano allontanato le figlie, il cui cervello avevano folgorato con 37 elettrochoc, era dotata di una lucidissima visione della realtà. Dietro l’apparente follia dei comportamenti, si leggeva la solidità dei princìpi e non era raro vederle scuotere il capo mentre guardava fuori dalla finestra, oltre la nebbia dei Navigli, fissando con sconcerto i ritmi frenetici di una Milano incapace ormai di amare: «I pazzi siete voi, quelli chiusi fuori dal manicomio». Contro la Milano che cambia rapidamente ha combattuto gli ultimi suoi anni, disperatamente ancorata a un mondo destinato a morire, avvinghiata alla sua casa di ringhiera che amava così, brutta e vecchia come quando ci entrò bambina, sfollata dai bombardamenti del centro città.
Qualche anno fa gliela restaurarono e per lei fu tragedia. Chiusa nelle sue stanze, le difese dalla furia iconoclasta e ancora adesso sulle pareti resta scritta un po’ tutta la sua vita, i nomi e i numeri di telefono degli amici, le firme, i disegni: diventerà museo o una mano di bianco cancellerà ogni cosa?
Avvenire era il suo giornale, da queste pagine sceglieva di pregare quel Padre e soprattutto quella Madre in cui vedeva rispecchiato il suo bisogno di maternità e tra le cui braccia trovava il vero conforto. Il 30 dicembre del 2006 ci dettò la sua epigrafe e noi, diligenti, appuntammo: «Morì credendo di essere viva». Parole che forse resteranno sulla carta, ma che ieri, guardandola per l’ultima volta in viso, certo apparivano vere.
Allora la sua casa sembrava l’antro di una sibilla, lo sguardo si faceva malinconico e vagava lontano, la voce rauca si abbassava e diventava sussurro. Capivi che era finita quando gli occhi, altrettanto improvvisamente, tornavano a guizzare e lei spalancava un sorriso grato, ingenuo, di bambina.
Perché questo era Alda Merini sotto la scorza a volte dissacrante e trasgressiva, un’anima pura rimasta fanciulla. Riconosciuta ormai come una delle voci più autorevoli del Novecento, più volte candidata al Nobel, non è che restasse umile: nemmeno concepiva che il successo la potesse cambiare. Nel suo bazar di ricordi ed emozioni, premi prestigiosi e lettere di personaggi noti avevano la stessa dignità della carta del prosciutto appena mangiato e alla fine subivano lo stesso trattamento, così come le banconote, prima pretese e sudate (spesso lamentava che gli editori la sfruttassero e si facessero ricchi sulla sua pelle), poi immancabilmente regalate a qualche figlia, a un nipote. Non c’era nulla di materiale che destasse la sua attenzione per più di una giornata, e da casa sua si usciva sempre carichi di regali tra i più impensati e ingombranti. Un po’ regina e un po’ mendicante, vestita di stracci e bella di bigiotteria, restava intimamente signora, fine di una finezza interiore, aristocratica nell’onestà.
In questi giorni si farà a gara a celebrarne il genio creativo, ma forse non si dirà abbastanza della sua principale ricchezza, quella bontà innata che ne faceva un’anima candida e nei momenti più imprevisti le stampava sul viso un sorriso di struggente tenerezza. Quasi si stupiva, Alda Merini, di poter incutere timore, lei che non avrebbe fatto male a una mosca, e quando ciò accadeva la divertiva: assistemmo di recente a un episodio il giorno in cui l’inviato di una grande casa editrice – puntualmente ricevuto nella stanza da letto – aveva il compito di riferirle la cifra a lei attribuita come compenso per la riedizione di un suo libro di successo. Alzando la voce, brandì il bastone con il solo intento di alzarsi, ma questo bastò perché il poveretto se la desse a gambe, e la Merini si abbandonasse a una lunga stupefatta risata. L’altra faccia della bontà era infatti l’autoironia, dettata dall’umiltà ma anche da un’intelligenza acuta, perché lei, la donna che per dodici anni era stata rinchiusa in manicomio, cui avevano allontanato le figlie, il cui cervello avevano folgorato con 37 elettrochoc, era dotata di una lucidissima visione della realtà. Dietro l’apparente follia dei comportamenti, si leggeva la solidità dei princìpi e non era raro vederle scuotere il capo mentre guardava fuori dalla finestra, oltre la nebbia dei Navigli, fissando con sconcerto i ritmi frenetici di una Milano incapace ormai di amare: «I pazzi siete voi, quelli chiusi fuori dal manicomio». Contro la Milano che cambia rapidamente ha combattuto gli ultimi suoi anni, disperatamente ancorata a un mondo destinato a morire, avvinghiata alla sua casa di ringhiera che amava così, brutta e vecchia come quando ci entrò bambina, sfollata dai bombardamenti del centro città.
Qualche anno fa gliela restaurarono e per lei fu tragedia. Chiusa nelle sue stanze, le difese dalla furia iconoclasta e ancora adesso sulle pareti resta scritta un po’ tutta la sua vita, i nomi e i numeri di telefono degli amici, le firme, i disegni: diventerà museo o una mano di bianco cancellerà ogni cosa?
Avvenire era il suo giornale, da queste pagine sceglieva di pregare quel Padre e soprattutto quella Madre in cui vedeva rispecchiato il suo bisogno di maternità e tra le cui braccia trovava il vero conforto. Il 30 dicembre del 2006 ci dettò la sua epigrafe e noi, diligenti, appuntammo: «Morì credendo di essere viva». Parole che forse resteranno sulla carta, ma che ieri, guardandola per l’ultima volta in viso, certo apparivano vere.
«Avvenire» del 3 novembre 2009
Nessun commento:
Posta un commento