di Maurizio Cucchi
Era davvero tempo, io credo, che si tornasse a Émile Zola grazie a un’opera in grado di promuoverne con autorevolezza la lettura e lo studio. Quest’opera è il primo volume dei «Romanzi», che esce nei Meridiani Mondadori a cura di Pierluigi Pellini, con traduzioni dello stesso Pellini (che firma anche l’introduzione), Giovanni Bogliolo e Paola Messori. Questo primo, importante volume comprende «Théreèse Raquin», «L’assommoir» e «Nanà». Zola è uno scrittore oggi letto meno di altri maestri della grande narrativa francese dell’Ottocento, come Stendhal, Hugo, Balzac, Flaubert, Maupassant. Sicuramente gli ha nuociuto l’etichetta limitativa di scrittore naturalista. Eppure sento da numerosi giovani amici un sicuro riaccendersi dell’interesse, e a volte una vera e propria passione. Al romanziere parigino (di origine italiana: il padre Francesco era un ingegnere di Venezia), vissuto tra il 1840 e il 1902, dobbiamo altri capolavori, oltre ai primi tre proposti nel Meridiano. Penso a «Il ventre di Parigi», «Al paradiso delle signore», a «Germinal». E devo aggiungere che ho personalmente un debole (tra i romanzi del ciclo dei «Rougon-Macquart, storia naturale e sociale di una famiglia sotto il secondo impero») per «La terre» e per «Il dottor Pascal», di cui esiste una recente e pregevole traduzione delle edizioni Medusa, per le quali è uscito quest’anno «Il viaggio a Lourdes», prima parte di una trilogia che comprende poi Roma e Parigi, e dunque esterna alla storia dei «Rougon Macquart». Come lo è il perfetto e ancora giovanile «Thérèse Raquin» (1867), che la precede, ed è un geometrico romanzo nerissimo, la storia di un delitto e dei fatali rimorsi che produce nei suoi artefici. Altro capitolo decisivo per Zola è naturalmente il pamphlet «J’accuse!» per l’affaire Dreyfus, che gli costò nel ’98 la condanna a un anno di carcere e la fuga in Inghilterra. Il vorticoso respiro di Zola, la sua capacità di rappresentare il mondo del suo tempo nell’accumulo sempre vivo di dettagli, la cascata di situazioni e cose che conferisce un’impressionante vitalità visiva alle sue descrizioni, mi fa pensare a uno scrittore più barocco che naturalista. Penso alle descrizioni dei mercati parigini delle Halles nel «Ventre di Parigi»: le merci, nella stupefacente varietà e nei colori, grondano letteralmente sulla pagina in un’opulenza che schiaccia le minime esistenze dei poveracci cui Zola ha saputo dare parola, usando il linguaggio che usciva dalla loro bocca. La stessa sfolgorante Nanà, la celebre e amatissima donna di piacere, è figlia dei poveracci ubriaconi di uno dei libri più crudamente emozionanti della narrativa di Ottocento: «L’assommoir». Parola che significa manganello ma anche bettola, ed era l’insegna di un’osteria di Montmartre dove gli operai parigini prendevano la consolazione dell’oblio, tracannando acquavite fino allo stordimento. Vagavano poi nelle vie del quartiere come assurdi pulcinella, prima di sprofondarsi a russare nei loro poveri tuguri. Nanà è la figlia dell’alacre e poi degenerata lavandaia Gervaise e dell’operaio Coupeau, vittime dell’alcolismo. Ed è sorellastra del protagonista di «Germinal», il romanzo dei tremendi scioperi nelle miniere di carbone. In Zola, amore e orrore per la realtà riuscivano a coesistere e la sua è l’opera di un genio visionario e barocco, realista e onirico, capace di proporre alternativamente o insieme il miserabile e il grandioso.
«Avvenire» del 15 giugno 2010
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