di Ilaria Ramelli
La fonte più antica relativa alla drammatica vicenda di Ipazia è, vent’anni dopo la sua morte, lo storico ecclesiastico Socrate, grande ammiratore e difensore di Origene, e anche di Ipazia. Causa della morte della filosofa fu, a suo avviso, «l’invidia», la stessa che secondo Socrate aveva provocato tanta ostilità contro Origene. Nel marzo del 415, durante la quaresima, una massa di «uomini esaltati» del popolino (Socrate non parla nemmeno di monaci) e capeggiati da Pietro il lettore (uno degli ordini ecclesiastici minori), catturò Ipazia mentre stava rincasando, strappandola fuori dalla sua piccola carrozza; la trascinarono in una chiesa detta Kaisar(e)ion, ove la spogliarono e la trucidarono con pezzi acuminati di tegole o cocci. Fatto a brani il suo corpo, gli assassini bruciarono poi i resti in un altro luogo, detto Kinarón. Socrate non incolpa direttamente Cirillo dell’assassinio: egli dice solo che, poiché Ipazia aveva frequenti incontri con Oreste, si sparse «tra il popolo della Chiesa» la «voce calunniosa» che fosse lei ad impedire che il prefetto si riconciliasse con il vescovo. Dopo aver descritto il misfatto, Socrate osserva tuttavia che questo delitto portò «grave biasimo a Cirillo e a tutta la Chiesa d’Alessandria». E soggiunge che nulla potrebbe essere meno cristiano di massacri e violenze di tal genere. Se «il lettore Pietro» è l’omonimo collaboratore di Cirillo, Pietro Anagnoste, il coinvolgimento del vescovo sarebbe più probabile, anche se Socrate non istituisce questo legame. Il filosofo neoplatonico Damascio, in un passo riportato dalla Suda, attribuisce invece a Cirillo la responsabilità diretta, anche se ammette che materialmente l’assassinio fu compiuto da «uomini bestiali ». La motivazione addotta da Damascio è la stessa data da Socrate: «l’invidia», in questo caso quella di Cirillo alla vista della grande folla che seguiva Ipazia e della venerazione di cui era oggetto, e anche della sua popolarità e del suo insegnamento dispensato, oltre che all’interno della sua scuola, pubblicamente a chiunque desiderasse ascoltarla spiegare Platone, Aristotele o altri filosofi. L’imperatore (Teodosio II), secondo Damascio, avrebbe fatto giustizia del crimine della sua uccisione, se Edesio non ne avesse corrotto con denaro gli amici. Secondo Damascio, tuttavia, un suo discendente, forse Valentiniano, pagò l’ingiustizia del predecessore. Damascio aggiunge che il ricordo di questi fatti era ancora vivo negli alessandrini al suo tempo, quasi un secolo dopo. La Suda ripete quale causa «l’invidia» per l’eminente sapienza della filosofa, specialmente in fatto di astronomia, e attribuisce la responsabilità o a Cirillo stesso, «secondo alcuni», o agli alessandrini, «secondo altri». Il cronografo Teofane la ascrive ad «alcuni». Cirillo fu vescovo di Alessandria ancora fino al 444. Era nipote di Teofilo, ma aveva ricevuto una formazione ascetica a Nitria e Sceti, dove studiò la Scrittura, Atanasio, Eusebio e Basilio, proprio allo scoppio della controversia origeniana fu richiamato dal deserto dallo zio, forse perché sapeva che il suo maestro era un origeniano. Fu profondamente influenzato da Atanasio, che ammirava Origene. Conosceva bene Origene e Didimo, che probabilmente incontrò quando era capo della scuola catechetica, e tendeva al concordismo con la filosofia greca; aveva accesso alla biblioteca episcopale di Alessandria, quella della scuola catechetica, e quella personale dell’origeniano Didimo; cita e conosce i Cappadoci, Atanasio, Pietro di Alessandria, il primo Gerolamo, ottimi conoscitori di Origene. Come rivela specialmente il suo commento a Giovanni, scritto una decina d’anni prima del suo episcopato, seguiva l’esegesi spirituale di Origene. In quella che è spesso considerata una confutazione di Origene, Cirillo né cita il filosofo alessandrino né confuta il suo vero pensiero. Il suo coinvolgimento nella trucidazione di Ipazia resta incerto. L’ammirazione di tanti, anche cristiani, per la coltissima filosofa asceta è invece sicuro. Oltre alle già ricordate parole di Sinesio e alla stima di Socrate – due cristiani! –, ne è espressione un epigramma greco di Pallada nell’Antologia Palatina, che la chiama «venerabile» e «stella purissima della sapiente cultura». In base alla doppia dipendenza di se e tês parthénou su cui gioca l’epigrammatista, si intende in apertura: «Quando ti vedo, adoro te e le parole tue, della vergine», i cui atti erano tutti «rivolti verso il cielo». Non solo in quanto astronoma: come osservava Sinesio nel De dono, lo studio del cielo era un mezzo per giungere «all’ineffabile teologia».
«Avvenire» del 15 giugno 2010
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