Oggi i "democratici", a partire dal presidente Napolitano, riscoprono il valore dell’unità nazionale. Ma fino a quando è rimasto in vita, il Pci ha rifiutato il tricolore, l’inno e tutti i simboli dell’italianità. Che ora, in ritardo, esaltano
di Gennaro Sangiuliano
Montecitorio, 17 marzo del 1949, il presidente del Consiglio Alcide De Gasperi prende la parola davanti all’aula della Camera per illustrare le ragioni dell’adesione al Patto Atlantico. Tra i banchi, fra i deputati del Pci e della Dc, si scatena il putiferio. I commessi fanno fatica a sedare il corpo a corpo, i comunisti cantano a squarciagola l’Internazionale, poco dopo trascinati dalla destra monarchica i democristiani cominciano a cantare l’inno di Mameli. Poche settimane dopo, il 25 aprile, a Modena, in occasione delle celebrazioni ufficiali della liberazione, i partigiani impediscono l’esecuzione dell’inno nazionale e fanno suonare l’Internazionale. In tutte le manifestazioni per la Liberazione i partigiani comunisti ostentano il fazzoletto rosso al collo. Il tricolore lo portano i partigiani cattolici, i monarchici, al massimo gli azionisti.
Del resto, «Vittoria Urss è nostra vittoria» è l’incipit di uno scritto di un giovane Enrico Berlinguer, senza data conservato all’Istituto Gramsci, un appunto per un discorso ma che rivela, probabilmente, un significato più profondo perché esprime una mentalità diffusa.
L’inno di Mameli, scelto nel ’46 per sostituire la marcia reale, fu il frutto di un compromesso diretto fra De Gasperi e Togliatti ma per lungo tempo la sinistra avversò i simboli della Nazione e lo stesso Risorgimento bollato come una rivoluzione borghese, fatta eccezione per Garibaldi.
Alla vigilia delle celebrazioni dell’unità d’Italia, appare certamente meritorio il fatto che la sinistra italiana riconosca il valore della Nazione ma questa recente conversione, in sé positiva, non può far dimenticare che nel lungo dopoguerra l’Italia non è la Patria dei comunisti italiani che guardano a un’altra patria che non hanno difficoltà a indicare nell’Unione Sovietica.
Il 7 marzo 1953 in occasione della morte di Stalin, che fatti oggettivi consacreranno fra i più cruenti dittatori della storia, Botteghe Oscure dirama un comunicato ufficiale nel quale esprime il cordoglio dei comunisti italiani: «Una grave, irreparabile sciagura ci ha colpiti tutti. È morto Giuseppe Stalin, l’uomo al quale milioni di operai, di contadini, di intellettuali italiani guardavano con fiducia e affetto, come al loro capo e alla loro speranza». La nota del comitato centrale del Pci si conclude così: «Gloria eterna a Giuseppe Stalin! Viva il Partito Comunista dell’Unione Sovietica! Viva l’indistruttibile amicizia tra il popolo italiano e i popoli dell’Unione Sovietica».
Gli anni freddi della grande contrapposizione ideologica non sono segnati solo dalla cosiddetta «morte della Patria», efficace concetto con cui qualche anno fa Ernesto Galli della Loggia sintetizzò, nell’omonimo saggio, l’oblio di ogni sentimento patriottico e nazionale ma si verificò qualcosa di più grave, una vera e propria «sostituzione della Patria». Per almeno tre decenni la sinistra comunista guardò all’Unione Sovietica come patria dell’universalismo marxista. In ogni discorso, in ogni documento ufficiale, è forte l’eco di Marx, per il quale la nazione era solo un «feticcio borghese», una condizione temporanea verso il regno dell’universalismo proletario, dove Mosca sarà destinata ad avere un ruolo egemone.
Nell’ottobre del 1954 Trieste viene restituita all’Italia, il capo del Pc triestino, Vittorio Vidali, immaginando di fare una cosa opportuna, fa ristampare le tessere del 1955, inserendo un nastrino diagonale tricolore, una mossa politica per non lasciare alla destra il monopolio della riconquistata italianità. Tra i comunisti triestini scoppia una vera e propria sollevazione, le nuove tessere vengono quasi tutte rifiutate, con la richiesta di riavere le vecchie tessere rosse con il simbolo della falce e martello da una parte e l’alabarda di San Sergio dall’altra, come era stato dal dopoguerra in poi.
L’ispirazione a Mosca non è solo un dato estetico, il patriottismo sovietico è qualcosa di molto più concreto, durante i lavori della Costituente, Palmiro Togliatti prende a modello la Costituzione sovietica del 1936 quando si tratta di configurare la parte concernente i rapporti economico sociali. Nelle «Relazioni e proposte presentate alla prima sottocommissione» dal segretario del Pci e concernenti quelli che lui stesso definisce «Principi dei rapporti economico sociali», c’è un esplicito quanto chiaro riferimento. Nel richiamare la necessità che la Costituzione italiana riconosca una funzione sociale e limitata del diritto di proprietà, scrive testualmente il leader del Pci: «Tale è il principio a cui si ispira, per dare il più notevole degli esempi, la Costituzione sovietica del 1936».
Il “Migliore” presenterà come un grande successo comunista l’articolo 41 della Costituzione italiana nella parte in cui afferma che «la legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali». Oggi un’affermazione condivisibile da tutti, ma che per i comunisti fu da intendere come un richiamo ai principi del dirigismo economico introdotti in Unione Sovietica, una vittoria che sanciva quella che i giuristi chiamano la «funzionalizzazione» dell’iniziativa economica privata, un limite alla piena libertà dell’impresa. Per rafforzare la mitologia sovietica nella base militante il Pci organizzò al suo interno una vera e propria struttura di raccordo con l’Unione Sovietica, l’«Associazione Italia-Urss», dotata di fondi ingenti e articolazioni su tutto il territorio nazionale. Era il braccio esecutivo di un tam-tam teso a magnificare le «sorti progressive» del comunismo russo, modello a cui tendere.
La riscrittura della Storia, fatta da sinistra, ha molto insistito sulla svolta di Salerno e sull’adesione ai principi democratici voluta da Togliatti nell’immediato dopoguerra, ma essa, a ben vedere, risulta piuttosto il prodotto di una tattica politica dettata dalla stessa Unione Sovietica, a sua volta frutto di una pragmatica valutazione dei rapporti di forza nel contesto geopolitico internazionale.
Il recupero del valore dell’identità nazionale anche da parte della sinistra costituisce un fattore di crescita e consolidamento della democrazia, come testimonia l’impegno del Presidente Giorgio Napolitano, che fu un esponente di primo piano del Pci. Un fatto importante di cui compiacersi, ma recente.
Del resto, «Vittoria Urss è nostra vittoria» è l’incipit di uno scritto di un giovane Enrico Berlinguer, senza data conservato all’Istituto Gramsci, un appunto per un discorso ma che rivela, probabilmente, un significato più profondo perché esprime una mentalità diffusa.
L’inno di Mameli, scelto nel ’46 per sostituire la marcia reale, fu il frutto di un compromesso diretto fra De Gasperi e Togliatti ma per lungo tempo la sinistra avversò i simboli della Nazione e lo stesso Risorgimento bollato come una rivoluzione borghese, fatta eccezione per Garibaldi.
Alla vigilia delle celebrazioni dell’unità d’Italia, appare certamente meritorio il fatto che la sinistra italiana riconosca il valore della Nazione ma questa recente conversione, in sé positiva, non può far dimenticare che nel lungo dopoguerra l’Italia non è la Patria dei comunisti italiani che guardano a un’altra patria che non hanno difficoltà a indicare nell’Unione Sovietica.
Il 7 marzo 1953 in occasione della morte di Stalin, che fatti oggettivi consacreranno fra i più cruenti dittatori della storia, Botteghe Oscure dirama un comunicato ufficiale nel quale esprime il cordoglio dei comunisti italiani: «Una grave, irreparabile sciagura ci ha colpiti tutti. È morto Giuseppe Stalin, l’uomo al quale milioni di operai, di contadini, di intellettuali italiani guardavano con fiducia e affetto, come al loro capo e alla loro speranza». La nota del comitato centrale del Pci si conclude così: «Gloria eterna a Giuseppe Stalin! Viva il Partito Comunista dell’Unione Sovietica! Viva l’indistruttibile amicizia tra il popolo italiano e i popoli dell’Unione Sovietica».
Gli anni freddi della grande contrapposizione ideologica non sono segnati solo dalla cosiddetta «morte della Patria», efficace concetto con cui qualche anno fa Ernesto Galli della Loggia sintetizzò, nell’omonimo saggio, l’oblio di ogni sentimento patriottico e nazionale ma si verificò qualcosa di più grave, una vera e propria «sostituzione della Patria». Per almeno tre decenni la sinistra comunista guardò all’Unione Sovietica come patria dell’universalismo marxista. In ogni discorso, in ogni documento ufficiale, è forte l’eco di Marx, per il quale la nazione era solo un «feticcio borghese», una condizione temporanea verso il regno dell’universalismo proletario, dove Mosca sarà destinata ad avere un ruolo egemone.
Nell’ottobre del 1954 Trieste viene restituita all’Italia, il capo del Pc triestino, Vittorio Vidali, immaginando di fare una cosa opportuna, fa ristampare le tessere del 1955, inserendo un nastrino diagonale tricolore, una mossa politica per non lasciare alla destra il monopolio della riconquistata italianità. Tra i comunisti triestini scoppia una vera e propria sollevazione, le nuove tessere vengono quasi tutte rifiutate, con la richiesta di riavere le vecchie tessere rosse con il simbolo della falce e martello da una parte e l’alabarda di San Sergio dall’altra, come era stato dal dopoguerra in poi.
L’ispirazione a Mosca non è solo un dato estetico, il patriottismo sovietico è qualcosa di molto più concreto, durante i lavori della Costituente, Palmiro Togliatti prende a modello la Costituzione sovietica del 1936 quando si tratta di configurare la parte concernente i rapporti economico sociali. Nelle «Relazioni e proposte presentate alla prima sottocommissione» dal segretario del Pci e concernenti quelli che lui stesso definisce «Principi dei rapporti economico sociali», c’è un esplicito quanto chiaro riferimento. Nel richiamare la necessità che la Costituzione italiana riconosca una funzione sociale e limitata del diritto di proprietà, scrive testualmente il leader del Pci: «Tale è il principio a cui si ispira, per dare il più notevole degli esempi, la Costituzione sovietica del 1936».
Il “Migliore” presenterà come un grande successo comunista l’articolo 41 della Costituzione italiana nella parte in cui afferma che «la legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali». Oggi un’affermazione condivisibile da tutti, ma che per i comunisti fu da intendere come un richiamo ai principi del dirigismo economico introdotti in Unione Sovietica, una vittoria che sanciva quella che i giuristi chiamano la «funzionalizzazione» dell’iniziativa economica privata, un limite alla piena libertà dell’impresa. Per rafforzare la mitologia sovietica nella base militante il Pci organizzò al suo interno una vera e propria struttura di raccordo con l’Unione Sovietica, l’«Associazione Italia-Urss», dotata di fondi ingenti e articolazioni su tutto il territorio nazionale. Era il braccio esecutivo di un tam-tam teso a magnificare le «sorti progressive» del comunismo russo, modello a cui tendere.
La riscrittura della Storia, fatta da sinistra, ha molto insistito sulla svolta di Salerno e sull’adesione ai principi democratici voluta da Togliatti nell’immediato dopoguerra, ma essa, a ben vedere, risulta piuttosto il prodotto di una tattica politica dettata dalla stessa Unione Sovietica, a sua volta frutto di una pragmatica valutazione dei rapporti di forza nel contesto geopolitico internazionale.
Il recupero del valore dell’identità nazionale anche da parte della sinistra costituisce un fattore di crescita e consolidamento della democrazia, come testimonia l’impegno del Presidente Giorgio Napolitano, che fu un esponente di primo piano del Pci. Un fatto importante di cui compiacersi, ma recente.
«Il Giornale» del 7 giugno 2010
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