di Edoardo Castagna
Unione Sovietica e Jugoslavia non sono scomparse, ma vivono (e lottano, verrebbe da dire) con noi. Le sperdute isolotte di Tuvalu sono una mezza superpotenza, mentre gli Stati Uniti sono un microstato o poco più. È la geografia alternativa disegnata dai domini internet, quelle due lettere dopo un punto che etichettano inequivocabilmente un sito web come parte di uno Stato. E che seguono una logica tutta loro. Ci sono i casi semplici, come il nostro .it o i simili .fr francese, .de tedesco o .es spagnolo: sempre gli stessi fin dall’inizio della Rete (1985, un’era geologica fa in termini internettiani), senza possibilità di equivoco. Ma intorno c’è tutta una galassia di eccezioni, particolarità e paradossi. Innanzitutto, gli Stati Uniti: la maggior parte dei siti internet viene registrato in quel Paese, la Rete stessa è nata lì: eppure .us, il loro dominio nazionale, è usato pochissimo.
Gli americani, padroni dell’Impero, non sentono la necessità di specificare un’appartenenza nazionale che danno per scontata, e privilegiano le etichette di genere, quei domini non nazionali noti a tutti i navigatori: .com per i siti commerciali, .org per le organizzazioni non a fine di lucro, .gov per le istituzioni governative, .edu per scuole, università ed enti di ricerca, e così via. La stessa logica, ma a mezzo, è stata scelta dai cugini anglofoni del Regno Unito: anche loro usano i vari .gov, .com (magari contratto in .co), eccetera, ma poi ci aggiungono il dominio nazionale .uk. Una doppia etichetta, tanto per rimarcare anche online la sempre pretesa eccezionalità albionica; così, mentre i governi italiano o francese hanno i semplici indirizzi governo.it e gouvernement.fr, quello di Londra è cabinetioffice.gov.uk. Oltre a .uk per United Kingdom, inoltre, i sudditi di sua maestà hanno messo in cassaforte anche .gb (per Gran Bretagna): non lo usano, ma non si sa mai. Ancora online, invece, è .su: Soviet Union, Unione Sovietica.
E pazienza se lo Stato non esiste più da quasi vent’anni. Assegnato il 19 novembre del 1990, è tuttora attivo e amministrato dall’Istituto russo per le Reti pubbliche. Ci sono quasi centomila siti .su registrati, più o meno nostalgici – tanto del comunismo quanto della potenza imperiale che era stata l’Urss – e l’ente russo continua a venderne a un canone di seicento rubli (quindici euro) l’anno, anche se l’istituto internazionale che gestisce i domini, l’Icann, non vede di buon occhio la cosa.
Ha chiuso i battenti lo scorso 30 marzo, invece, .yu, l’ultimo vessillo della disciolta Jugoslavia. Introdotto nel 1989, nel corso degli anni Novanta aveva già perso per strada vari "pezzi" – Slovenia, Croazia, Bosnia, Macedonia –, fino a ridursi a coprire soltanto Serbia e Montenegro. Era sopravvissuto anche all’abbandono del termine Jugoslavia per l’unione dei due, sostituito nel 2003 da "Unione Statale di Serbia e Montenegro", e per qualche anno anche al definitivo scioglimento del condominio, sancito nel 2006 dall’indipendenza montenegrina. Ma ormai i due Paesi viaggiano, anche su internet, su binari separati, con i domini .rs (Repubblica di Serbia) e . me (Montenegro).
Vane sono state le proteste degli ultimi "jugonostalgici" contro la soppressione del .yu, così come a nulla sono valse, finora, le richieste venate di ostalgie affinché sia reso accessibile il .dd assegnato nel 1990 alla Germania Est e che nessuno ha mai fatto tempo ad attivare. Malinconicamente inutilizzati risultano anche .eh e .so. Il primo è riservato al Sahara Occidentale, il mai nato Stato del popolo dei saharawi occupato militarmente dal Marocco fin dagli anni Settanta. Il secondo è stato assegnato alla Somalia, ma il poverissimo e frazionato Paese del Corno d’Africa non è mai riuscito ad attivare le registrazioni. Eppure non si tratta di un grande sforzo tecnologico, anche perché spesso viene appaltato ad aziende private con sede nel ben più comodo Primo mondo.
Tanto che riescono ad avere domini internet attivi, sia pure utilizzati da una manciata di siti, i numerosi territori d’oltremare che punteggiano il globo e politicamente dipendenti da Regno Unito, Francia, Stati Uniti e così via. Ecco che il planisfero di internet si colora di sigle a prima vista incomprensibili, da .ac per Ascensione (isoletta britannica in mezzo all’Atlantico, con un migliaio di abitanti) a .ax per le Åland, una miriade di isolotti tra Finlandia e Svezia sotto la sovranità di Helnsinki; da .fo e .gl per le danesi Fær Øer e Groenlandia a .wf per le sperdute Wallis e Futuna, avamposti francesi nel Pacifico. Hanno un proprio dominio, benché per ora inutilizzato, perfino le isole artiche norvegesi di Svalbard e Jan Mayen (.sj), quelle francesi di Saint-Pierre e Miquelon, al largo di Terranova (.pm), Bouvet, isola subantartica appartenente alla Norvegia (.bv; il fatto che sia disabitata evidentemente non conta) e perfino l’Antartide: .aq, usato da una manciata di laboratori di ricerca stanziati sul continente di ghiaccio.
Dismessi invece per le giravolte della geopolitica .bu e .zr, un tempo domini di Birmania e Zaire e ora rimpiazzati da .mm e .cd dopo che i due Paesi si sono ridenominati, rispettivamente, Myanmar e Repubblica Democratica del Congo. Rottamato anche .cs, che pure aveva vissuto già due volte. Nel 1990 era stato assegnato alla Cecoslovacchia, ma appena tre anni dopo Cechia e Slovacchia hanno scelto di separarsi, anche in Rete. Nel 1995 .cs era stato così ritirato, salvo essere resuscitato nel 2003 per l’unione di Serbia e Montenegro. Mai realmente utilizzato – serbi e montenegrini andavano infatti avanti con il .yu –, nel 2006 è stato rottamato definitivamente.
Ben altri sono i numeri internettiani di Tuvalu, minuscola isoletta dell’Oceania che dal web ha avuto un grande dono: il dominio .tv, dall’ovvio (e redditizio) doppio senso televisivo. Così Tuvalu, un pulviscolo di isolette sparse nel Pacifico con poche migliaia di abitanti, su quel dominio ci campa: dal 2000 ne ha affidato la gestione a una società californiana che lo rivende alle televisioni di mezzo mondo (non ultima Rai.tv) in cambio di cinquanta milioni di dollari in dodici anni. Oltre quaranta milioni di euro: non poco, per uno Stato che ha un prodotto interno lordo annuo di poco più di dieci milioni.
Gli americani, padroni dell’Impero, non sentono la necessità di specificare un’appartenenza nazionale che danno per scontata, e privilegiano le etichette di genere, quei domini non nazionali noti a tutti i navigatori: .com per i siti commerciali, .org per le organizzazioni non a fine di lucro, .gov per le istituzioni governative, .edu per scuole, università ed enti di ricerca, e così via. La stessa logica, ma a mezzo, è stata scelta dai cugini anglofoni del Regno Unito: anche loro usano i vari .gov, .com (magari contratto in .co), eccetera, ma poi ci aggiungono il dominio nazionale .uk. Una doppia etichetta, tanto per rimarcare anche online la sempre pretesa eccezionalità albionica; così, mentre i governi italiano o francese hanno i semplici indirizzi governo.it e gouvernement.fr, quello di Londra è cabinetioffice.gov.uk. Oltre a .uk per United Kingdom, inoltre, i sudditi di sua maestà hanno messo in cassaforte anche .gb (per Gran Bretagna): non lo usano, ma non si sa mai. Ancora online, invece, è .su: Soviet Union, Unione Sovietica.
E pazienza se lo Stato non esiste più da quasi vent’anni. Assegnato il 19 novembre del 1990, è tuttora attivo e amministrato dall’Istituto russo per le Reti pubbliche. Ci sono quasi centomila siti .su registrati, più o meno nostalgici – tanto del comunismo quanto della potenza imperiale che era stata l’Urss – e l’ente russo continua a venderne a un canone di seicento rubli (quindici euro) l’anno, anche se l’istituto internazionale che gestisce i domini, l’Icann, non vede di buon occhio la cosa.
Ha chiuso i battenti lo scorso 30 marzo, invece, .yu, l’ultimo vessillo della disciolta Jugoslavia. Introdotto nel 1989, nel corso degli anni Novanta aveva già perso per strada vari "pezzi" – Slovenia, Croazia, Bosnia, Macedonia –, fino a ridursi a coprire soltanto Serbia e Montenegro. Era sopravvissuto anche all’abbandono del termine Jugoslavia per l’unione dei due, sostituito nel 2003 da "Unione Statale di Serbia e Montenegro", e per qualche anno anche al definitivo scioglimento del condominio, sancito nel 2006 dall’indipendenza montenegrina. Ma ormai i due Paesi viaggiano, anche su internet, su binari separati, con i domini .rs (Repubblica di Serbia) e . me (Montenegro).
Vane sono state le proteste degli ultimi "jugonostalgici" contro la soppressione del .yu, così come a nulla sono valse, finora, le richieste venate di ostalgie affinché sia reso accessibile il .dd assegnato nel 1990 alla Germania Est e che nessuno ha mai fatto tempo ad attivare. Malinconicamente inutilizzati risultano anche .eh e .so. Il primo è riservato al Sahara Occidentale, il mai nato Stato del popolo dei saharawi occupato militarmente dal Marocco fin dagli anni Settanta. Il secondo è stato assegnato alla Somalia, ma il poverissimo e frazionato Paese del Corno d’Africa non è mai riuscito ad attivare le registrazioni. Eppure non si tratta di un grande sforzo tecnologico, anche perché spesso viene appaltato ad aziende private con sede nel ben più comodo Primo mondo.
Tanto che riescono ad avere domini internet attivi, sia pure utilizzati da una manciata di siti, i numerosi territori d’oltremare che punteggiano il globo e politicamente dipendenti da Regno Unito, Francia, Stati Uniti e così via. Ecco che il planisfero di internet si colora di sigle a prima vista incomprensibili, da .ac per Ascensione (isoletta britannica in mezzo all’Atlantico, con un migliaio di abitanti) a .ax per le Åland, una miriade di isolotti tra Finlandia e Svezia sotto la sovranità di Helnsinki; da .fo e .gl per le danesi Fær Øer e Groenlandia a .wf per le sperdute Wallis e Futuna, avamposti francesi nel Pacifico. Hanno un proprio dominio, benché per ora inutilizzato, perfino le isole artiche norvegesi di Svalbard e Jan Mayen (.sj), quelle francesi di Saint-Pierre e Miquelon, al largo di Terranova (.pm), Bouvet, isola subantartica appartenente alla Norvegia (.bv; il fatto che sia disabitata evidentemente non conta) e perfino l’Antartide: .aq, usato da una manciata di laboratori di ricerca stanziati sul continente di ghiaccio.
Dismessi invece per le giravolte della geopolitica .bu e .zr, un tempo domini di Birmania e Zaire e ora rimpiazzati da .mm e .cd dopo che i due Paesi si sono ridenominati, rispettivamente, Myanmar e Repubblica Democratica del Congo. Rottamato anche .cs, che pure aveva vissuto già due volte. Nel 1990 era stato assegnato alla Cecoslovacchia, ma appena tre anni dopo Cechia e Slovacchia hanno scelto di separarsi, anche in Rete. Nel 1995 .cs era stato così ritirato, salvo essere resuscitato nel 2003 per l’unione di Serbia e Montenegro. Mai realmente utilizzato – serbi e montenegrini andavano infatti avanti con il .yu –, nel 2006 è stato rottamato definitivamente.
Ben altri sono i numeri internettiani di Tuvalu, minuscola isoletta dell’Oceania che dal web ha avuto un grande dono: il dominio .tv, dall’ovvio (e redditizio) doppio senso televisivo. Così Tuvalu, un pulviscolo di isolette sparse nel Pacifico con poche migliaia di abitanti, su quel dominio ci campa: dal 2000 ne ha affidato la gestione a una società californiana che lo rivende alle televisioni di mezzo mondo (non ultima Rai.tv) in cambio di cinquanta milioni di dollari in dodici anni. Oltre quaranta milioni di euro: non poco, per uno Stato che ha un prodotto interno lordo annuo di poco più di dieci milioni.
«Avvenire» del 6 giugno 2010
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