di Lorenzo Fazzini
Tutto ha a che fare con il riconoscimento. E con un concetto che ha radici cristiane: la dignità dell’uomo. Spesso è stato accusato di relativismo e incitamento ad un "comunitarismo" (la corrente filosofica contemporanea cui viene più abitualmente associato) che diventa "tribalismo". Ovvero, compresenza vitale di culture diverse in una stessa società al punto che ciascuna arriva ad autodeterminarsi con proprie norme giuridiche. Come talune comunità islamiche in Gran Bretagna o in Canada che le quali propugnano un riferimento autonomo alla sharìa nella regolamentazione delle proprie questioni legali.
Ma leggendone i testi, il multiculturalismo di Charles Taylor, il filosofo canadese, ospite la settimana che si apre a Milano per due dibattiti, non ha niente a che vedere con una posizione debolistica. Anzi, sembrerebbe che il suo multiculturalismo abbia radici precipuamente cristiane. «La tesi [del multiculturalismo] è che la nostra identità sia plasmata, in parte, dal riconoscimento o dal mancato riconoscimento, o spesso, da un misconoscimento da parte di altre persone, per cui un individuo o un gruppo può subire un danno reale, una reale distorsione, se le persone o la società che lo circondano gli rimandano, come uno specchio, un’immagine di sé che lo limita o sminuisce o umilia».
È quanto Taylor scrive in Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento (Feltrinelli), accompagnato da un testo di Jurgen Habermas. Secondo il pensatore canadese, «il non riconoscimento può essere una forma di oppressione che imprigiona una persona in un modo di vivere falso, distorto o impoverito». Sembra di sentire un’eco del pensiero filosofico di Emmanuel Lévinas, teorico dell’altro come elemento etico che diventa principio ontologico. Il multiculturalismo potrebbe essere dunque visto come una presa in carico dell’alterità culturale a livello sociale in maniera tale. Così che la diversa espressione di culture non venga sopraffatta dall’omologazione maggioritaria.
Ma quando va affermandosi, storicamente, il germe filosofico del multiculturalismo? Taylor rintraccia nell’Ottocento tale spartiacque, in particolare il passaggio di priorità valoriale, dal principio dell’onore a quello di dignità. E cita Hegel e Herder come le cerniere intellettuali di tali cesura: «Alla nozione di onore si contrappone quella moderna di dignità, che oggi usiamo in senso universalistico e ugualitario quando parliamo dell’intrinseca "dignità dell’uomo"».
Si diceva di una paradossale filiazione cristiana del multiculturalismo. Ascoltiamo sempre Taylor: «La fonte che dobbiamo ritrovare [di questa dignità] è nel profondo di noi stessi; e questo non è che un aspetto della grande svolta soggettiva della cultura moderna, di una nuova forma di vita interiore. Inizialmente questa teoria di una fonte interna non esclude una nostra relazione con Dio o con un regno di idee, anzi può essere considerata il modo corretto di relazionarci a essi. In un certo senso possiamo vederla come una semplice continuazione e intensificazione della via aperta da Sant’Agostino, per il quale il cammino verso Dio passava per la nostra autocoscienza». Agostino padre del multiculturalismo? La provocazione non è indifferente e può essere colta in tutta la sua fecondità.
Un altro aspetto è stato poi rimproverato ai teorici del multiculturalismo, e a Taylor in particolare. L’idea che, se le varie culture debbono convivere giustapposte in una società, questo significa che essi non diano giudizi di valore. Ovvero, che per loro tutte le culture sono uguali. Leggendo Taylor, si capisce qualcosa di diverso: la sottolineatura della preziosità dell’alterità culturale, non il livellamento egualitario. Partendo dal principio di dignità, Taylor evidenzia come sorge «la richiesta di non lasciare soltanto sopravvivere le diverse culture, ma di prendere atto che sono preziose. Oggi la richiesta del riconoscimento è esplicita». Habermas rimarcava così, nello stesso Multiculturalismo, il quid della proposta tayloriana: «Comunitaristi come Taylor e Walzer contrastano la neutralità del diritto e possono permettersi di pretendere dallo Stato di diritto anche la promozione attiva di determinate concezioni della "vita buona"».
Posta così, la questione non riguarda un livellamento appiattente. Il nodo diventa un principio di giustizia: il non riconoscimento culturale genera frustrazione, risentimento, sentimento di oppressione. Che tale problema non sia questione di lana caprina lo si può capire considerando il caso 11 settembre.
Diversi analisti hanno osservato come lo shock delle Torri gemelle affossate dall’estremismo islamico dovrebbe aver sollevato il velo sul predominio culturale dell’Occidente rispetto al panorama musulmano. «Dovremmo provare a domandarci, realisticamente, se anche all’interno delle società occidentali non ci sarebbe chi sceglierebbe la scorciatoia della violenza se fossimo noi a doverci confrontare con una globalizzazione guidata e informata dai valori della cultura islamica». Così scriveva il politologo dell’Università Cattolica Vittorio Emanuele Parsi nell’introduzione al libro Guerra santa? Il terrore nel nome dell’islam (Vita & Pensiero), opera di John L. Esposito, direttore del Center for Muslim-Christian Understanding della Georgetown University di Washington.
Ancora. Nello stesso volume si citava un articolo di Paul Kennedy sul "Wall Street Journal" che analizzava proprio questo nodo: «Dobbiamo cercare di capire come gli altri possono vedere noi stessi». Kennedy si immaginava un mondo globalizzato a trazione islamica (e non americana) e si chiedeva se «a queste condizioni non inizierebbero molti americani a disprezzare tale Colosso [islamico], desiderando inoltre di colpirlo e danneggiarlo?».
Anche sul fronte immigrazione molto vi è da fare: «Dobbiamo fare in modo che gli immigrati abbiano una reale opportunità di integrarsi - afferma ancora Taylor in una recente intervista alla rivista culturale Usa "The Other Journal" -. E non vi sarà davvero questa opportunità fino a quando l’educazione e qualificazione professionale che avevano nel loro Paese di origine non verrà riconosciuta».
Uno dei punti che Taylor sente più vividi è l’islamofobia: «Vi sono ampi strati dell’opinione pubblica occidentale capaci di soccombere all’isteria islamofoba - dichiara nella stessa intervista -. È interessante notare che larga parte del Rapporto Stasi in Francia, che ha bandito il velo islamico dalle scuole, presenta lo stesso tipo di isteria. E penso che tale sentimento aleggi in tutto l’Occidente». E in occasione del Premio Templeton, ricevuto nel 2007, Taylor ha rimarcato: «E’ nelle nostre mani la questione se il nostro modo di pensare sarà quello dello scontro di civiltà. In Occidente oggi combattiamo tra di noi sull’idea di islamofobia. Ve ne è una versione secondo la quale tutti il miliardo e duecento milioni di islamici sono la stessa cosa e fanno tutte le identiche cose».
Che fare, allora, perché il multiculturalismo non venga recepito come debolismo? Taylor si rifà al compianto pensatore tedesco Hans Georg Gadamer e alla sua «fusione degli orizzonti» che permette «lo sviluppo di nuovi vocabolari comparativi grazie ai quali possiamo articolare questi contrasti». In questo un ruolo decisivo lo riveste il dialogo: «C’è un numero considerevole di cittadini i quali appartengono anche a quella cultura che mette in questione il nostro orizzonte filosofico - dice Taylor -. E abbiamo il difficile compito di tener conto del loro senso di marginalizzazione senza compromettere i nostri principi politici fondamentali».
Infine. Che il cattolicesimo, debba avere una coloritura multiculturale per risultare "vincente" Taylor lo evidenziava nel recente L’età secolare (Feltrinelli): «Non è che bisognerebbe vivacizzare il cristianesimo con una dose di paganesimo: piuttosto, è la nostra stessa vita cristiana che ha subito una mutilazione imponendo una simile omogeneizzazione. La Chiesa avrebbe dovuto essere il luogo in cui gli esseri umani, con tutte le loro differenze e i loro itinerari disparati, si riuniscono; e, ovviamente, siamo ancora ben lontani dall’avere raggiunto questo scopo».
Secondo il pensatore nordamericano, la stessa modernità non rappresenta la fine della religione cristiana, come vorrebbe una certa teoria della secolarizzazione, ben rappresentata dalla celebre copertina del settimanale "Time" negli anni Sessanta, che recitava: «God is dead». Taylor sostiene che rispetto alla modernità il cristianesimo deve mantenere la sua capacità meta-culturale: «Il cristianesimo è una religione che è stata ospitata da diverse culture e continuerà a vivere in molte altre culture e dovrà sempre trovare il modo di ricreare una versione autentica di sé all’interno di queste culture», afferma nel libro-intervista con Akbar Gangji Islamabad (Transeuropa).
«La mia idea è che i cattolici guardino alla loro relazione con la modernità occidentale in questa luce. Questa è una cultura tra le tante che l’uomo ha elaborato ed elaborerà. Invece di guardare ad essa come una realtà assoluta, dobbiamo considerarla nella prospettiva di ricreare in essa una fede diversa».
Ma leggendone i testi, il multiculturalismo di Charles Taylor, il filosofo canadese, ospite la settimana che si apre a Milano per due dibattiti, non ha niente a che vedere con una posizione debolistica. Anzi, sembrerebbe che il suo multiculturalismo abbia radici precipuamente cristiane. «La tesi [del multiculturalismo] è che la nostra identità sia plasmata, in parte, dal riconoscimento o dal mancato riconoscimento, o spesso, da un misconoscimento da parte di altre persone, per cui un individuo o un gruppo può subire un danno reale, una reale distorsione, se le persone o la società che lo circondano gli rimandano, come uno specchio, un’immagine di sé che lo limita o sminuisce o umilia».
È quanto Taylor scrive in Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento (Feltrinelli), accompagnato da un testo di Jurgen Habermas. Secondo il pensatore canadese, «il non riconoscimento può essere una forma di oppressione che imprigiona una persona in un modo di vivere falso, distorto o impoverito». Sembra di sentire un’eco del pensiero filosofico di Emmanuel Lévinas, teorico dell’altro come elemento etico che diventa principio ontologico. Il multiculturalismo potrebbe essere dunque visto come una presa in carico dell’alterità culturale a livello sociale in maniera tale. Così che la diversa espressione di culture non venga sopraffatta dall’omologazione maggioritaria.
Ma quando va affermandosi, storicamente, il germe filosofico del multiculturalismo? Taylor rintraccia nell’Ottocento tale spartiacque, in particolare il passaggio di priorità valoriale, dal principio dell’onore a quello di dignità. E cita Hegel e Herder come le cerniere intellettuali di tali cesura: «Alla nozione di onore si contrappone quella moderna di dignità, che oggi usiamo in senso universalistico e ugualitario quando parliamo dell’intrinseca "dignità dell’uomo"».
Si diceva di una paradossale filiazione cristiana del multiculturalismo. Ascoltiamo sempre Taylor: «La fonte che dobbiamo ritrovare [di questa dignità] è nel profondo di noi stessi; e questo non è che un aspetto della grande svolta soggettiva della cultura moderna, di una nuova forma di vita interiore. Inizialmente questa teoria di una fonte interna non esclude una nostra relazione con Dio o con un regno di idee, anzi può essere considerata il modo corretto di relazionarci a essi. In un certo senso possiamo vederla come una semplice continuazione e intensificazione della via aperta da Sant’Agostino, per il quale il cammino verso Dio passava per la nostra autocoscienza». Agostino padre del multiculturalismo? La provocazione non è indifferente e può essere colta in tutta la sua fecondità.
Un altro aspetto è stato poi rimproverato ai teorici del multiculturalismo, e a Taylor in particolare. L’idea che, se le varie culture debbono convivere giustapposte in una società, questo significa che essi non diano giudizi di valore. Ovvero, che per loro tutte le culture sono uguali. Leggendo Taylor, si capisce qualcosa di diverso: la sottolineatura della preziosità dell’alterità culturale, non il livellamento egualitario. Partendo dal principio di dignità, Taylor evidenzia come sorge «la richiesta di non lasciare soltanto sopravvivere le diverse culture, ma di prendere atto che sono preziose. Oggi la richiesta del riconoscimento è esplicita». Habermas rimarcava così, nello stesso Multiculturalismo, il quid della proposta tayloriana: «Comunitaristi come Taylor e Walzer contrastano la neutralità del diritto e possono permettersi di pretendere dallo Stato di diritto anche la promozione attiva di determinate concezioni della "vita buona"».
Posta così, la questione non riguarda un livellamento appiattente. Il nodo diventa un principio di giustizia: il non riconoscimento culturale genera frustrazione, risentimento, sentimento di oppressione. Che tale problema non sia questione di lana caprina lo si può capire considerando il caso 11 settembre.
Diversi analisti hanno osservato come lo shock delle Torri gemelle affossate dall’estremismo islamico dovrebbe aver sollevato il velo sul predominio culturale dell’Occidente rispetto al panorama musulmano. «Dovremmo provare a domandarci, realisticamente, se anche all’interno delle società occidentali non ci sarebbe chi sceglierebbe la scorciatoia della violenza se fossimo noi a doverci confrontare con una globalizzazione guidata e informata dai valori della cultura islamica». Così scriveva il politologo dell’Università Cattolica Vittorio Emanuele Parsi nell’introduzione al libro Guerra santa? Il terrore nel nome dell’islam (Vita & Pensiero), opera di John L. Esposito, direttore del Center for Muslim-Christian Understanding della Georgetown University di Washington.
Ancora. Nello stesso volume si citava un articolo di Paul Kennedy sul "Wall Street Journal" che analizzava proprio questo nodo: «Dobbiamo cercare di capire come gli altri possono vedere noi stessi». Kennedy si immaginava un mondo globalizzato a trazione islamica (e non americana) e si chiedeva se «a queste condizioni non inizierebbero molti americani a disprezzare tale Colosso [islamico], desiderando inoltre di colpirlo e danneggiarlo?».
Anche sul fronte immigrazione molto vi è da fare: «Dobbiamo fare in modo che gli immigrati abbiano una reale opportunità di integrarsi - afferma ancora Taylor in una recente intervista alla rivista culturale Usa "The Other Journal" -. E non vi sarà davvero questa opportunità fino a quando l’educazione e qualificazione professionale che avevano nel loro Paese di origine non verrà riconosciuta».
Uno dei punti che Taylor sente più vividi è l’islamofobia: «Vi sono ampi strati dell’opinione pubblica occidentale capaci di soccombere all’isteria islamofoba - dichiara nella stessa intervista -. È interessante notare che larga parte del Rapporto Stasi in Francia, che ha bandito il velo islamico dalle scuole, presenta lo stesso tipo di isteria. E penso che tale sentimento aleggi in tutto l’Occidente». E in occasione del Premio Templeton, ricevuto nel 2007, Taylor ha rimarcato: «E’ nelle nostre mani la questione se il nostro modo di pensare sarà quello dello scontro di civiltà. In Occidente oggi combattiamo tra di noi sull’idea di islamofobia. Ve ne è una versione secondo la quale tutti il miliardo e duecento milioni di islamici sono la stessa cosa e fanno tutte le identiche cose».
Che fare, allora, perché il multiculturalismo non venga recepito come debolismo? Taylor si rifà al compianto pensatore tedesco Hans Georg Gadamer e alla sua «fusione degli orizzonti» che permette «lo sviluppo di nuovi vocabolari comparativi grazie ai quali possiamo articolare questi contrasti». In questo un ruolo decisivo lo riveste il dialogo: «C’è un numero considerevole di cittadini i quali appartengono anche a quella cultura che mette in questione il nostro orizzonte filosofico - dice Taylor -. E abbiamo il difficile compito di tener conto del loro senso di marginalizzazione senza compromettere i nostri principi politici fondamentali».
Infine. Che il cattolicesimo, debba avere una coloritura multiculturale per risultare "vincente" Taylor lo evidenziava nel recente L’età secolare (Feltrinelli): «Non è che bisognerebbe vivacizzare il cristianesimo con una dose di paganesimo: piuttosto, è la nostra stessa vita cristiana che ha subito una mutilazione imponendo una simile omogeneizzazione. La Chiesa avrebbe dovuto essere il luogo in cui gli esseri umani, con tutte le loro differenze e i loro itinerari disparati, si riuniscono; e, ovviamente, siamo ancora ben lontani dall’avere raggiunto questo scopo».
Secondo il pensatore nordamericano, la stessa modernità non rappresenta la fine della religione cristiana, come vorrebbe una certa teoria della secolarizzazione, ben rappresentata dalla celebre copertina del settimanale "Time" negli anni Sessanta, che recitava: «God is dead». Taylor sostiene che rispetto alla modernità il cristianesimo deve mantenere la sua capacità meta-culturale: «Il cristianesimo è una religione che è stata ospitata da diverse culture e continuerà a vivere in molte altre culture e dovrà sempre trovare il modo di ricreare una versione autentica di sé all’interno di queste culture», afferma nel libro-intervista con Akbar Gangji Islamabad (Transeuropa).
«La mia idea è che i cattolici guardino alla loro relazione con la modernità occidentale in questa luce. Questa è una cultura tra le tante che l’uomo ha elaborato ed elaborerà. Invece di guardare ad essa come una realtà assoluta, dobbiamo considerarla nella prospettiva di ricreare in essa una fede diversa».
«Avvenire» del 6 giugno 2010
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