26 giugno 2010

Intellettuali, basta politica

Aragno pubblica il viaggio di Cesare De Michelis nella letteratura del Novecento. Modernità e antimodernità: un profilo per l'oggi
di Alfonso Berardinelli
«Il conformismo è nato con l'appartenenza, è l'ora di uscire dalle trincee»
Avviso ai progressisti: il progresso ha fatto il suo tempo. Prima di dire che qualcosa è superato mordetevi la lingua, pensateci tre volte. Non si va avanti senza tornare, più o meno, indietro. Il nuovo non coincide con il meglio e la linea che ci trascina verso il futuro è tracciata dal demone della distruzione e dell'oblio. Il secolo che ci sta alle spalle, secolo della tabula rasa e dell'utopia, delle avanguardie e delle rivoluzioni, si è concluso in un cumulo di macerie, in un trionfo di stragi e genocidi a fin di bene. I cimiteri della Modernità mostrano quanto possa essere agghiacciante credere di avere in pugno, concettualmente e politicamente, il corso futuro della Storia. Da tempo immaginiamo di non credere più nel progresso. In realtà l'idea che abbiamo della crescita economica e dello sviluppo tecnologico ci ricorda ogni giorno che la nostra cultura è dominata da una sola cosa: l'espansione illimitata e unilineare del nostro potere di cancellare il passato per migliorare il presente. Il Novecento non è stato affatto un susseguirsi di avanguardie e restaurazioni (da superare con nuove avanguardie) quanto piuttosto una lotta della modernità contro il mito di se stessa, contro i suoi effetti e le sue realizzazioni. Ogni rivoluzione, di sinistra o di destra, politica o tecnica, è stata accompagnata da utopie costruite con materiali mitologici: la nuova umanità, la fine della storia, l'ordine nuovo, la società liberata, il potere della ragione, il superuomo e l'oltreuomo, la comunicazione totale, la vita piena e la morte felice, la produzione ininterrotta... Comunque sia, non sono superati i Presocratici e le sapienze esoteriche (secondo alcuni) né l'arte socratica del dialogo (secondo altri). Maometto e il Medioevo cristiano fanno ancora rumore. Il Rinascimento e l'Illuminismo sono ancora le radici dell'Occidente, ma anche le radici possono marcire. A questo punto cosa pensare del Novecento? Cosa pensare della smania novecentesca di liberarsi dell'Ottocento, una smania che è durata un secolo? Mi ripeto questi pensieri e queste domande incoraggiato dalla lettura dell'imponente, appassionato volume Moderno Antimoderno (Aragno, pagine 506, 40) in cui il mio coetaneo Cesare De Michelis ha raccolto i suoi saggi e studi novecenteschi. Leggo questo libro come un bilancio storico e come un' autobiografia intellettuale in cui ampiamente mi riconosco. Il tono fondamentale del libro è quello dell' insoddisfazione, della delusione. Ma sono gli interrogativi la cosa che soprattutto conta. L'incipit non lascia dubbi: «Sono quarant'anni e più che il Novecento mi sfugge nella sua identità, eppure (...) in questo lungo periodo mi sono confrontato con personalità di piccolo e grande rilievo e con questioni più o meno generali, sempre cercando di cogliere un' identità che mi sarebbe piaciuto riuscire a definire (...) Ebbene, mi è apparso chiaro che del Novecento non se ne sa ancora abbastanza: non lo so io (...) ma non lo sanno neppure gli altri, tanto più quelli che più si sono illusi di saperlo» (p. 9). Come dichiara anche un titolo di Massimo Onofri appena riedito da Avagliano, il Novecento è un «secolo plurale»: un secolo che secondo De Michelis resta «innominabile», di cui «non si riesce a cogliere la cifra unificante». Lo scontro, la compresenza di moderno e antimoderno, «evoca appunto quest'intima contraddittorietà che non riusciamo a risolvere». Da un lato «la corsa all'innovazione»: tecnologia, rivoluzioni politiche, spirito critico «che azzera ogni conquistata certezza». Dall'altro «la disperata resistenza antimoderna della letteratura», che si esprime soprattutto nel romanzo, genere per eccellenza moderno, eppure animato da una insuperabile vocazione antiavanguardista a ritrovare le connessioni, le determinazioni di spazio e di tempo, la fisionomia morale dei personaggi, la circolarità e ciclicità degli eventi reali contro la tirannia delle astrazioni e della razionalità progressiva. Alla fine degli anni novanta De Michelis scrisse che il Novecento è «un secolo doloroso» e che ormai le catastrofi avvenute le vediamo interamente, anche se «a dire il vero, tutto questo avrebbe dovuto essere chiaro almeno da cinquant' anni, ma non è stato così, perché quando cadde il nazismo restò il comunismo, quando venne la pace ricominciò più mostruosa di prima la guerra e piano piano divenne chiaro per tutti che dopo la civiltà contadina poteva morire anche la natura» (p. 25). Al di là delle filosofie essenzialiste, i generi narrativi sanno che si può raccontare la globalità planetaria solo localizzandola: per questo il Novecento italiano può anche non avere oggi un grande interesse nel mercato internazionale delle idee, ma certo lo ha, deve averlo per noi, se non vogliamo alimentarci di fantasmi culturali. De Michelis parla soprattutto di Novecento letterario italiano. Ne parla con una attenzione fedele e fraterna. Non si precipita a dare giudizi. Procede con pazienza nelle sue indagini su scrittori che ha seguito nel corso degli anni, libro dopo libro, che ha amato e sentito vicini, spesso geograficamente vicini per familiarità triveneta: come Stuparich, Berto, Cibotto, Tomizza, Camon, Magris, Tamaro. A questi si aggiungono Tozzi, Gallian, Pannunzio, Vittorini, Antonio Debenedetti, Daniele Del Giudice, Marco Lodoli. Scelte parziali, discutibili o perfino stravaganti: ma comunque campionature che permettono di articolare in pochi esemplari la riflessione sull' intero Novecento. Un libro di saggi non è un volume di storia letteraria, vive di assenze non meno che di presenze. I capitoli monografici più interessanti mi sono sembrati quelli su Tozzi, Pannunzio («estremista moderato»), Vittorini, Magris (che sceglie la forma saggistica come «sfida all'avanguardia»), Antonio Debenedetti (che ha «la sadica pazienza e la perversa curiosità di un antropologo d' eccezione»). Nei ritratti di singoli autori quello di De Michelis è lo stile della curiosità, della generosità, della comprensione e del rispetto: uno stile, direi, da editore e da prefatore, che non è tentato dalla volontà di sovrastare gli scrittori con giudizi perentori e definizioni brillanti. I primi quattro saggi (nell' insieme circa cento pagine) anche come scrittura sono quasi un libro a sé. Il primo è più che una prefazione, è autobiografia intellettuale, esame di coscienza generazionale, fra schemi teorico-simbolici, note di lettura e inserti semidiaristici («confesso ingenuo che ho nostalgia della pace, della democrazia, delle regole, del decoro, delle grigie giornate di lavoro ben fatto... non ne posso più delle rivoluzioni»). Il secondo saggio («Un'idea del romanzo novecentesco», 1999) si apre con l'affermazione che «una convincente credibile storia letteraria del Novecento ancora non si è riusciti a raccontarla» e che la narrativa del secolo ha oscillato fra l'antiromanzo lirico, l'autobiografismo esistenziale, la concitazione espressionistica (da Tozzi a Gadda a Vittorini): come se il romanzo avesse ubbidito alla stessa logica dell'avanguardia e dell'utopia. È con la fine del decennio settanta che i miti della modernità sprofondano all' improvviso nel vuoto. Arriva Il nome della rosa, «clamoroso esempio» di riciclaggio che rischia con spregiudicata indifferenza «gli effetti più incredibilmente kitsch». Ma il romanzo resta il «genere della modernità» e dopo le autodemolizioni novecentesche oggi può imporre «il recupero del tempo, la riconquista del passato, il ripristino di un ordine». Ma fra ideologia, letteratura e politica, al centro di questo libro c'è un personaggio decisivo: l'intellettuale. Qui la polemica arriva al suo punto più caldo. Obiettando o approvando, si parla di Prezzolini, Gobetti, Chiaromonte, Vittorini, Bobbio, fino a Goffredo Fofi e Piergiorgio Bellocchio. Il «conformismo degli intellettuali» nasce, secondo De Michelis, quando nasce il loro impegno politico, quando gli intellettuali diventano gruppo e decidono di compiere il salto dalla teoria alla prassi e tutto viene sacrificato al «primato della politica».
L'intellettuale novecentesco emerge dal superamento delle due figure che storicamente l'hanno preceduto, il chierico e il letterato, per i quali la mancanza di potere era ovvia. Perciò ormai, conclude De Michelis, il vero anticonformismo intellettuale «è senza scampo impolitico» e gli intellettuali dovrebbero decidersi a «uscire finalmente dalle trincee». Chi alza le bandiere della pace e della non violenza, questo dovrebbe capirlo. La lotta contro la menzogna non è una lotta politica, ma piuttosto impolitica.
«Corriere della Sera» del 21 giugno 2010
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