di Andrea Vaccaro
La prima volta che un canale televisivo mandò in onda un film spezzettato dalle interruzioni pubblicitarie si assisté quasi ad una sollevazione generale. I registi e gli attori minacciarono di bloccare le loro opere (per quanto lo potessero); i critici si dissero scandalizzati da un tale massacro di opere d’arte; anche il pubblico, snervato, gridò contro tale scempio. Strali inutili, come ben sappiamo. Poi arrivarono i «nativi con lo spot», ovvero le generazioni che non hanno mai visto un film in tv nella sua naturale linearità e adesso non poche persone cominciano ad avvertire un calo fisiologico dell’attenzione dopo 15-20 minuti consecutivi di film e anelano la pubblicità per «riossigenarsi ». La reazione degli umani di fronte a certe novità è spesso scandita da una simile traiettoria: negazione piena d’orrore, negazione priva di orrore, accettazione sdegnata, rassegnazione, indifferenza.
Nel 1996, l’annuncio del primo mammifero nato per clonazione, la pecora Dolly, suscitò, a dir poco, scalpore. Di Dolly si seguirono, con apprensione mediatica, le due gravidanze, l’artrite, il precoce invecchiamento, l’eutanasia all’età di sei anni. Su Dolly si sprecarono persino sottili analisi psicologiche circa la sua obesità e depressione, attribuibili – disse qualcuno – al calo delle comitive scolastiche e dei flash dei fotografi dopo un periodo di vita da star. A Dolly (debitamente imbalsamata) è riservato un posto d’onore al Royal Museum di Edimburgo.
La storia della clonazione dei mammiferi non si è conclusa con Dolly – anzi, era appena iniziata –, eppure è come se le scorte di stupore per il fenomeno, con lei, si fossero esaurite. Quasi con distrazione si apprese, due anni dopo, che all’Università di Honolulu da un unico topo erano stati «prodotti» ben cinquanta cloni, alcuni dei quali clonati a loro volta. Pari trattamento per la cavalla Stella Cometa, il primo animale ad aver partorito il clone di se stesso, avendo inserito nell’ovocito il nucleo di una cellula della propria pelle.
Nulla di più per il toro giapponese, clone di un esemplare morto tredici anni prima (da cellule congelate) o per uno degli ultimi arrivati, il dromedario Injaz, un neonato clone di Dubai di 'appena' una trentina di chili. Un po’ più di risonanza l’ha riscossa Copycat, il gatto clonato dalla Genetic Saving&Clone nel 2001, ma la spiegazione ha natura economica, in quanto l’azienda legava la notizia al lancio di un’offerta di clonazione di animaletti domestici con pedigree al prezzo di 50.000 dollari. Nel 2005, Arlene Judih Klotzko, nel libro Cloni di noi stessi?, informa addirittura che «una teenager intenta a frequentare uno stage estivo in un’azienda americana di biotecnologie è riuscita a clonare un maiale».
E allora, a nemmeno quindici anni di distanza da Dolly, se qualcosa riesce a destare meraviglia, non è certo più l’evento in sé, ma, casomai, il clamore sensazionalistico che accompagnò il primo annuncio. Oggi, con una certa frequenza, si clonano anche schede telefoniche e carte di credito. Per non parlare, in altri ambiti ancora, dei cloni delle tesine studentesche on line, dei programmi tv, di avverbi 'vaganti' e persino di intere brevi frasi. I domini si confondono. E così Steen Malte Willadsen, scienziato esperto del settore, dinanzi all’insistente domanda dei giornalisti sulla possibilità di clonare un essere umano può rispondere: «Clonare geneticamente l’uomo è da retrogradi. Ci sono altre maniere per rendere identiche le persone. La più efficace è farle star davanti alla televisione per otto ore al giorno, anche solo per poche settimane».
Nel 1996, l’annuncio del primo mammifero nato per clonazione, la pecora Dolly, suscitò, a dir poco, scalpore. Di Dolly si seguirono, con apprensione mediatica, le due gravidanze, l’artrite, il precoce invecchiamento, l’eutanasia all’età di sei anni. Su Dolly si sprecarono persino sottili analisi psicologiche circa la sua obesità e depressione, attribuibili – disse qualcuno – al calo delle comitive scolastiche e dei flash dei fotografi dopo un periodo di vita da star. A Dolly (debitamente imbalsamata) è riservato un posto d’onore al Royal Museum di Edimburgo.
La storia della clonazione dei mammiferi non si è conclusa con Dolly – anzi, era appena iniziata –, eppure è come se le scorte di stupore per il fenomeno, con lei, si fossero esaurite. Quasi con distrazione si apprese, due anni dopo, che all’Università di Honolulu da un unico topo erano stati «prodotti» ben cinquanta cloni, alcuni dei quali clonati a loro volta. Pari trattamento per la cavalla Stella Cometa, il primo animale ad aver partorito il clone di se stesso, avendo inserito nell’ovocito il nucleo di una cellula della propria pelle.
Nulla di più per il toro giapponese, clone di un esemplare morto tredici anni prima (da cellule congelate) o per uno degli ultimi arrivati, il dromedario Injaz, un neonato clone di Dubai di 'appena' una trentina di chili. Un po’ più di risonanza l’ha riscossa Copycat, il gatto clonato dalla Genetic Saving&Clone nel 2001, ma la spiegazione ha natura economica, in quanto l’azienda legava la notizia al lancio di un’offerta di clonazione di animaletti domestici con pedigree al prezzo di 50.000 dollari. Nel 2005, Arlene Judih Klotzko, nel libro Cloni di noi stessi?, informa addirittura che «una teenager intenta a frequentare uno stage estivo in un’azienda americana di biotecnologie è riuscita a clonare un maiale».
E allora, a nemmeno quindici anni di distanza da Dolly, se qualcosa riesce a destare meraviglia, non è certo più l’evento in sé, ma, casomai, il clamore sensazionalistico che accompagnò il primo annuncio. Oggi, con una certa frequenza, si clonano anche schede telefoniche e carte di credito. Per non parlare, in altri ambiti ancora, dei cloni delle tesine studentesche on line, dei programmi tv, di avverbi 'vaganti' e persino di intere brevi frasi. I domini si confondono. E così Steen Malte Willadsen, scienziato esperto del settore, dinanzi all’insistente domanda dei giornalisti sulla possibilità di clonare un essere umano può rispondere: «Clonare geneticamente l’uomo è da retrogradi. Ci sono altre maniere per rendere identiche le persone. La più efficace è farle star davanti alla televisione per otto ore al giorno, anche solo per poche settimane».
«Avvenire» del 10 giugno 2010
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