Noi, quarantenni per sbaglio - Le storie di chi fa fatica a conquistare la maturità
di Matteo Persivale
Abbiamo usato il rifiuto di crescere come simbolo della diversità dai «vecchi». E ora tiriamo il (doloroso) bilancio
C’è una scena di Metropolitan, film-culto di Whit Stillman che nel 1990 colse i quarantenni di oggi (cosiddetta Generazione X) durante gli impressionabili anni universitari, nella quale due ragazzi incontrano in un bar di Manhattan una strana forma di vita: un quarantenne. L’uomo, tra un drink e l’altro, spiega loro due verità dolorose. La prima è che i compagni di feste che avevi a diciannove anni e che pensavi sarebbero stati tuoi amici per il resto della vita diventeranno, crescendo, degli estranei. La seconda è che a quarant’anni, quando incontrerai un coetaneo che ha avuto più successo e ti chiederà «che mestiere fai», avrai poca voglia di rispondergli.
Perché a vent’anni la prospettiva di non diventare quello che sogni è fuori dal tuo radar. A trent’anni è la fonte di una ragionevole preoccupazione. A quaranta è la certezza di non avercela fatta: di essere passato dalla condizione di «troppo giovane» a quella di «troppo vecchio», perché neanche in un Paese a misura di sessantenne come l’Italia puoi pensare a quarant’anni di essere ancora considerato— complimenti a parte di qualche zia ben educata —giovane. Il New York Times recentemente ha scritto della «crisi precoce di mezza età» della Generazione X (quella dei nati, all’incirca, dal 1964 al 1979, immortalata da Douglas Coupland nell’omonimo libro edito in Italia da Mondadori) citando come esempio Greenberg, il film appena uscito negli Stati Uniti con Ben Stiller nei panni di un quarantenne musicista fallito costretto a vivere a casa del fratello: esempio da manuale di eterno adolescente che fa i conti con la morte delle speranze.
Secondo il New York Times, è la storia di una contraddizione: «Come può avere una crisi di mezza età la generazione che ha scelto come marchio culturale quello del rifiuto di crescere?». Una generazione il cui motto è «abbiamo fatto il possibile», e spesso a quarant’anni ha reso al di sotto delle aspettative (proprie e altrui). Chi non ha mai abbandonato l’adolescenza— per pigrizia o perché dava psicologicamente la garanzia di non diventare come i «vecchi» — compiuti i quaranta si trova a indossare le vesti della maturità in modo incerto. Un libro in uscita negli Stati Uniti, Imperial Bedrooms di Bret Easton Ellis, è il seguito, 25 anni dopo, di Meno di Zero (Einaudi) caposaldo della generazione X. Dopo tanto tempo, i personaggi di Ellis non sono cambiati per niente, frenati dai propri limiti: e uno di loro finisce pure squartato.
Almeno un altro romanzo generazionalmente importante, Indecisione di Benjamin Kunkel (pubblicato nel 2006 da Rizzoli) diceva le stesse cose mascherandole però con un apologo sulla «pillola che guarisce l’incertezza». Che esiste solo nella fantasia dell’autore, purtroppo. Il ritornello di «Loser» di Beck («Sono un perdente, baby, perché non mi abbatti?») fa ridere meno di quindici anni fa, e se il suo ultimo cd — come quello dei Beastie Boys—non ti è piaciuto non l’hai detto a nessuno, mentendo per lealtà verso i tuoi gusti di tanto tempo fa. I film di Wes Anderson, con quei tennisti bolliti e padri impresentabili (I Tenenbaum) e figli senza bussola (Il treno per il Darjeeling) ti fanno sorridere, ma con un amaro bonus di identificazione. Così resti solo, in coda alla cassa di un negozio di videogame, con la scomoda certezza di essere circondato da ragazzini delle medie e del liceo (che tra l’altro nelle partite online ti battono regolarmente), e c’è l’amica caritatevole che — credendo di fare un complimento — commenta i ciuffi bianchi sulle tue tempie con «l’uomo maturo ha il suo fascino» e tu pensi «maturo? », in più di un senso.
La maturità sta nell’occhio di chi guarda (dentro se stesso), specialmente per quelli che ambivano a essere diversi dalla generazione che li ha preceduti, con i suoi salti carpiati ideologici attraverso i decenni e l’attaccamento al potere (piccolo o grande) accumulato, e quelle nostalgie per l’Italia in bianco e nero di «Carosello» che per te potrebbe anche non essere mai esistita. Quel che hai cercato di fare, crescendo, è stato un tentativo: di essere un marito, un padre, un proprietario di casa con mutuo a tasso variabile diverso dai mariti, padri, eccetera che hai visto — e stimato poco— nella generazione precedente alla tua. Finché hai capito, durante una maratona notturna di videogame, che eri inumato nel divano di casa esattamente come loro e che il tentativo di trovare una via diversa al diventare adulto si è scontrato con la realtà dei tanti alibi che sei sempre stato bravo a trovare. Anche per questo, compiere quarant’anni per i recalcitranti professionisti della delusione è un’esperienza ancor meno gradevole di quanto lo sia stata per le generazioni precedenti: per ripararsi dalle conseguenze delle aspettative poco realistiche per il futuro, quando alla fine il futuro arriva, non basta neanche lo scudo dell’ironia, che come tutti sanno è l’arma dei deboli.
Perché a vent’anni la prospettiva di non diventare quello che sogni è fuori dal tuo radar. A trent’anni è la fonte di una ragionevole preoccupazione. A quaranta è la certezza di non avercela fatta: di essere passato dalla condizione di «troppo giovane» a quella di «troppo vecchio», perché neanche in un Paese a misura di sessantenne come l’Italia puoi pensare a quarant’anni di essere ancora considerato— complimenti a parte di qualche zia ben educata —giovane. Il New York Times recentemente ha scritto della «crisi precoce di mezza età» della Generazione X (quella dei nati, all’incirca, dal 1964 al 1979, immortalata da Douglas Coupland nell’omonimo libro edito in Italia da Mondadori) citando come esempio Greenberg, il film appena uscito negli Stati Uniti con Ben Stiller nei panni di un quarantenne musicista fallito costretto a vivere a casa del fratello: esempio da manuale di eterno adolescente che fa i conti con la morte delle speranze.
Secondo il New York Times, è la storia di una contraddizione: «Come può avere una crisi di mezza età la generazione che ha scelto come marchio culturale quello del rifiuto di crescere?». Una generazione il cui motto è «abbiamo fatto il possibile», e spesso a quarant’anni ha reso al di sotto delle aspettative (proprie e altrui). Chi non ha mai abbandonato l’adolescenza— per pigrizia o perché dava psicologicamente la garanzia di non diventare come i «vecchi» — compiuti i quaranta si trova a indossare le vesti della maturità in modo incerto. Un libro in uscita negli Stati Uniti, Imperial Bedrooms di Bret Easton Ellis, è il seguito, 25 anni dopo, di Meno di Zero (Einaudi) caposaldo della generazione X. Dopo tanto tempo, i personaggi di Ellis non sono cambiati per niente, frenati dai propri limiti: e uno di loro finisce pure squartato.
Almeno un altro romanzo generazionalmente importante, Indecisione di Benjamin Kunkel (pubblicato nel 2006 da Rizzoli) diceva le stesse cose mascherandole però con un apologo sulla «pillola che guarisce l’incertezza». Che esiste solo nella fantasia dell’autore, purtroppo. Il ritornello di «Loser» di Beck («Sono un perdente, baby, perché non mi abbatti?») fa ridere meno di quindici anni fa, e se il suo ultimo cd — come quello dei Beastie Boys—non ti è piaciuto non l’hai detto a nessuno, mentendo per lealtà verso i tuoi gusti di tanto tempo fa. I film di Wes Anderson, con quei tennisti bolliti e padri impresentabili (I Tenenbaum) e figli senza bussola (Il treno per il Darjeeling) ti fanno sorridere, ma con un amaro bonus di identificazione. Così resti solo, in coda alla cassa di un negozio di videogame, con la scomoda certezza di essere circondato da ragazzini delle medie e del liceo (che tra l’altro nelle partite online ti battono regolarmente), e c’è l’amica caritatevole che — credendo di fare un complimento — commenta i ciuffi bianchi sulle tue tempie con «l’uomo maturo ha il suo fascino» e tu pensi «maturo? », in più di un senso.
La maturità sta nell’occhio di chi guarda (dentro se stesso), specialmente per quelli che ambivano a essere diversi dalla generazione che li ha preceduti, con i suoi salti carpiati ideologici attraverso i decenni e l’attaccamento al potere (piccolo o grande) accumulato, e quelle nostalgie per l’Italia in bianco e nero di «Carosello» che per te potrebbe anche non essere mai esistita. Quel che hai cercato di fare, crescendo, è stato un tentativo: di essere un marito, un padre, un proprietario di casa con mutuo a tasso variabile diverso dai mariti, padri, eccetera che hai visto — e stimato poco— nella generazione precedente alla tua. Finché hai capito, durante una maratona notturna di videogame, che eri inumato nel divano di casa esattamente come loro e che il tentativo di trovare una via diversa al diventare adulto si è scontrato con la realtà dei tanti alibi che sei sempre stato bravo a trovare. Anche per questo, compiere quarant’anni per i recalcitranti professionisti della delusione è un’esperienza ancor meno gradevole di quanto lo sia stata per le generazioni precedenti: per ripararsi dalle conseguenze delle aspettative poco realistiche per il futuro, quando alla fine il futuro arriva, non basta neanche lo scudo dell’ironia, che come tutti sanno è l’arma dei deboli.
«Corriere della sera» del 5 giugno 2010
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