Un capitalismo malato che stenta a ritrovare il bene comune. Come costruire un sistema più equo? Convegno all’Università Cattolica
di mimmo Muolo
Negli
Di che cosa soffre oggi il capitalismo? Una malattia passeggera o un cancro potenzialmente letale? E quali sono le cause e i possibili rimedi?
Ad esempio una diversa formazione dei manager? Non deve stupire il gergo medico per inquadrare le questioni legate alla recente crisi economica. Perché, se una riflessione del genere viene promossa nell’ambito delle strutture del Policlinico 'Gemelli', e a guidarla è il rettore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, Lorenzo Ornaghi, la metafora viene anzi spontanea.
Così, ieri pomeriggio, al capezzale dell’illustre paziente – il capitalismo appunto – si sono ritrovati «medici» di diverse «branche», dall’economista Luigi Campiglio allo scrittore Claudio Magris, dal segretario generale della Cei, monsignor Mariano Crociata, al banchiere Giovanni Bazoli. In primis per presentare il libro Chiesa e capitalismo , che quest’ultimo ha scritto a quattro mani con il giurista tedesco Ernst-Wolfgang Bockenforde, ma soprattutto per riflettere su un tema che l’attualità da un lato, e la recente enciclica di Benedetto XVI, Caritas in veritate, dall’altro, hanno posto all’attenzione dell’opinione pubblica mondiale. Univoca in pratica la diagnosi.
Il capitalismo per sopravvivere ha bisogno di una massiccia iniezione di quelle particolari vitamine che sono le regole etiche. «La risposta alle questioni poste dalla crisi finanziaria ed economica – ha fatto notare monsignor Mariano Crociata – superano i confini della competenza economica e finanziaria». Perciò al magistero sociale della Chiesa spetta «il compito di ricordare» quanto sia necessario guardare alla situazione odierna in un’ottica più ampia. «La crisi, infatti – ha osservato il vescovo – nasce dalla pretesa di creare valore senza passare dal lavoro e dalla produzione di beni e di servizi». E dunque le sue «cause ultime» sono proprio di natura etica. La questione, infatti, è soprattutto di natura antropologica e «non può essere adeguatamente affrontata – ha sottolineato il vescovo – prescindendo da un recupero di visione integrale della persona umana e delle condizioni della sua compiuta umanizzazione». Una visione che pone la persona stessa «dentro una rete di relazioni sociali improntate alla fraternità come anima della solidarietà entro cui ognuno, liberamente e sussidiariamente, è se stesso non senza o contro, ma con e per gli altri». Crociata ha anche ricordato i sintomi più gravi della malattia del capitalismo. «Fatica dei giovani a entrare nel mondo del lavoro», «perdita con il lavoro della stabilità affettiva ed abitativa», difficoltà di quanti hanno «genitori anziani da assistere o familiari inabili» e famiglie «normali» che si indebitano «per far fronte al mutuo della prima casa o per affrontare la crescita dei prezzi di prodotti di prima necessità». Tutti concordi, anche, sulla natura antropologica della cura. «La Chiesa – ha ricordato Giovanni Bazoli –, accettando il capitalismo, non ha rinunciato a criticare le ingiustizie e gli squilibri. Del resto «la crisi ha evidenziato lacune delle regole e vizi di comportamenti. Non bastano le regole, serve una svolta culturale e antropologica, occorre riformare i canoni etici con cui sono formati i manager». A tal proposito il presidente del Consiglio di Sorveglianza di Intesa Sanpaolo ha rilevato la necessità di «superare i criteri correnti, teorizzati nelle scuole di formazione manageriale e ispirati al postulato che la soddisfazione di utilità particolari si traduca automaticamente in una crescita del benessere collettivo». Il «bene comune», infatti, è diverso dal «perseguimento di interessi individuali» e richiede oggi «una profonda e lungimirante revisione del modello di sviluppo per correggerne le disfunzioni e le distorsioni». Per Bazoli, dunque, «un impegno di coerenza alla parola evangelica può offrire ai credenti la possibilità di svolgere un ruolo esemplare in un campo come quello economico che si è sempre ritenuto poco propizio a una testimonianza di fede».
Analoga la posizione di Luigi Campiglio : «Non possiamo chiedere al mercato ciò che non può dare. Il mercato infatti è solo uno strumento». E allora «è meglio prevenire che curare, riportando all’origine dei fenomeni economici le ragioni dell’equità e della giustizia». Altrimenti, ha concluso Claudio Magris, il rischio è che la malattia del capitalismo «sradichi i valori perenni dell’umanesimo che oggi sono difesi principalmente proprio dalla Chiesa». E se ciò avvenisse, sì che sarebbe una malattia letale.
Ad esempio una diversa formazione dei manager? Non deve stupire il gergo medico per inquadrare le questioni legate alla recente crisi economica. Perché, se una riflessione del genere viene promossa nell’ambito delle strutture del Policlinico 'Gemelli', e a guidarla è il rettore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, Lorenzo Ornaghi, la metafora viene anzi spontanea.
Così, ieri pomeriggio, al capezzale dell’illustre paziente – il capitalismo appunto – si sono ritrovati «medici» di diverse «branche», dall’economista Luigi Campiglio allo scrittore Claudio Magris, dal segretario generale della Cei, monsignor Mariano Crociata, al banchiere Giovanni Bazoli. In primis per presentare il libro Chiesa e capitalismo , che quest’ultimo ha scritto a quattro mani con il giurista tedesco Ernst-Wolfgang Bockenforde, ma soprattutto per riflettere su un tema che l’attualità da un lato, e la recente enciclica di Benedetto XVI, Caritas in veritate, dall’altro, hanno posto all’attenzione dell’opinione pubblica mondiale. Univoca in pratica la diagnosi.
Il capitalismo per sopravvivere ha bisogno di una massiccia iniezione di quelle particolari vitamine che sono le regole etiche. «La risposta alle questioni poste dalla crisi finanziaria ed economica – ha fatto notare monsignor Mariano Crociata – superano i confini della competenza economica e finanziaria». Perciò al magistero sociale della Chiesa spetta «il compito di ricordare» quanto sia necessario guardare alla situazione odierna in un’ottica più ampia. «La crisi, infatti – ha osservato il vescovo – nasce dalla pretesa di creare valore senza passare dal lavoro e dalla produzione di beni e di servizi». E dunque le sue «cause ultime» sono proprio di natura etica. La questione, infatti, è soprattutto di natura antropologica e «non può essere adeguatamente affrontata – ha sottolineato il vescovo – prescindendo da un recupero di visione integrale della persona umana e delle condizioni della sua compiuta umanizzazione». Una visione che pone la persona stessa «dentro una rete di relazioni sociali improntate alla fraternità come anima della solidarietà entro cui ognuno, liberamente e sussidiariamente, è se stesso non senza o contro, ma con e per gli altri». Crociata ha anche ricordato i sintomi più gravi della malattia del capitalismo. «Fatica dei giovani a entrare nel mondo del lavoro», «perdita con il lavoro della stabilità affettiva ed abitativa», difficoltà di quanti hanno «genitori anziani da assistere o familiari inabili» e famiglie «normali» che si indebitano «per far fronte al mutuo della prima casa o per affrontare la crescita dei prezzi di prodotti di prima necessità». Tutti concordi, anche, sulla natura antropologica della cura. «La Chiesa – ha ricordato Giovanni Bazoli –, accettando il capitalismo, non ha rinunciato a criticare le ingiustizie e gli squilibri. Del resto «la crisi ha evidenziato lacune delle regole e vizi di comportamenti. Non bastano le regole, serve una svolta culturale e antropologica, occorre riformare i canoni etici con cui sono formati i manager». A tal proposito il presidente del Consiglio di Sorveglianza di Intesa Sanpaolo ha rilevato la necessità di «superare i criteri correnti, teorizzati nelle scuole di formazione manageriale e ispirati al postulato che la soddisfazione di utilità particolari si traduca automaticamente in una crescita del benessere collettivo». Il «bene comune», infatti, è diverso dal «perseguimento di interessi individuali» e richiede oggi «una profonda e lungimirante revisione del modello di sviluppo per correggerne le disfunzioni e le distorsioni». Per Bazoli, dunque, «un impegno di coerenza alla parola evangelica può offrire ai credenti la possibilità di svolgere un ruolo esemplare in un campo come quello economico che si è sempre ritenuto poco propizio a una testimonianza di fede».
Analoga la posizione di Luigi Campiglio : «Non possiamo chiedere al mercato ciò che non può dare. Il mercato infatti è solo uno strumento». E allora «è meglio prevenire che curare, riportando all’origine dei fenomeni economici le ragioni dell’equità e della giustizia». Altrimenti, ha concluso Claudio Magris, il rischio è che la malattia del capitalismo «sradichi i valori perenni dell’umanesimo che oggi sono difesi principalmente proprio dalla Chiesa». E se ciò avvenisse, sì che sarebbe una malattia letale.
«Avvenire» del 9 giugno 2010
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