Esce il nuovo libro del giornalista e già tutti urlano al capolavoro: recensioni imbarazzanti in cui l'autore è accostato ai massimi filosofi dell'Occidente. Rafforzando, senza bisogno, il complesso di superiorità della sinistra intellettuale
di Luigi Mascheroni
«Scrittore italiano occasionalmente prestato alla politica», come fece scrivere in una vecchia biografia autorizzata, costretto però tutta la vita a percorrere una carriera di giornalista che lo ha portato da caporedattore di Roma Fascista a ideologo della progressista Repubblica, Eugenio Scalfari è da tempo ormai un filosofo europeo occasionalmente prestato alla televisione, dove appare con oculata parsimonia.
Ad esempio in programmi molto à la page come Che tempo che fa, dove riesce ad affermare, come l’ultima volta, cose del tipo: «La gente di sinistra ha una sensibilità particolare sulle questioni di tipo morale». E dove, per caso, può pubblicizzare i propri libri.
L’ultimo dei quali Eugenio Scalfari - l’uomo che non credeva in Dio pur sentendosi a volte tale - ha deciso di intitolare Per l’alto mare aperto. Un testo che nell’epilogo l’autore stesso, con molta umiltà, definisce una «rivisitazione della modernità, da Montaigne e Cervantes fino a Leopardi e a Nietzsche, Descartes, Kant e Hegel, e ancora Tolstoj, Proust, Kafka e Joyce». Se non rischiasse di passare per un refuso, nella quarta di copertina potevano aggiungere: ’sti cazzi.
Il libro - pubblicato da una casa editrice di Berlusconi, che essendo di Berlusconi ovviamente non è più l’Einaudi di una volta, nel senso che una volta Giulio Einaudi non pagava mentre oggi Berlusconi sì - è uscito due giorni fa. Ieri sono arrivate le prime recensioni-capolavoro. Le quali, tra l’altro, possono vantare il curioso primato di applicare all’opera del Nostro tutti i gradi di salivazione previsti dalla lingua italiana tra gli aggettivi «vasto» e «eccellente».
Mettendo a confronto l’accoglienza che la stampa ha riservato ai due nuovi libri di Veltroni e Scalfari, se la qualità delle recensioni fosse proporzionale al ruolo politico del recensito, il primo sarebbe un consigliere di zona, il secondo premier.
Comunque, il giornale fondato dal Fondatore, Repubblica, ha festeggiato ieri il libro-evento con il paginone centrale, due articolesse, un disegno celebrativo, il richiamo in Prima pagina. Per Alberto Asor Rosa, che firma il pezzo principale, la nuova opera di Eugenio Scalfari rappresenta il culmine di un percorso iniziato con il romanzo allegorico Incontro con io, del 1994, e continuato con l’autobiografia filosofica L’uomo che non credeva in Dio, del 2008: «Il catalogo degli autori che Scalfari chiama questa volta a raccolta per sostenere la propria idea di modernità - scrive Alberto Asor Rosa, forse l’ultimo vero intellettuale di sinistra, come dimostra il fatto che recentemente ha firmato anche sul Secolo d’Italia - si è fatto sempre più vasto e comprensivo». Ed ecco quindi i “compagni” dell’itinerario filosofico di Eugenio Scalfari, l’Imam della Sinistra Laica: da Montaigne a Pascal, da Diderot a Tocqueville, da Cartesio a Kant, da Spinoza a Marx, da Leopardi a Baudelaire, da Dostoevskij a Tolstoj, da Rilke a Kafka, da Freud a Nietzsche... «le “cime” della modernità sono scalate dal nostro Autore con straordinaria agilità e incredibile capacità comunicativa, che però non diviene mai volgarizzazione pura e semplice», puntualizza estatico il professor Asor Rosa. Non senza però negare all’Autore un paragone con Dante, per l’uso della forma del «viaggio», e uno con Omero, per l’uso del «mito di Ulisse». Infine Asor Rosa non può che dirsi meravigliato per il ruolo che l’Autore - «intellettuale della più specchiata tradizione liberaldemocratica» - attribuisce a Karl Marx nel percorso della modernità: «Arrovesciando totalmente il Marx sostenitore della dittatura del proletariato nel Marx critico e analista della società capitalistica, Scalfari finisce brillantemente per collocarlo fra i teorizzatori dello Stato centralizzato ed autonomo e al tempo stesso (ma non contraddittoriamente) della società civile intesa come luogo in cui l’individuo esercita in modo privilegiato la propria libertà». Uno straordinario elogio da parte del professor Asor Rosa al Filosofo del Capitale e al tempo stesso (ma non contraddittoriamente) al Fondatore anticapitalista.
Antonio Gnoli, nel secondo dei due articoli di Repubblica, al confronto appare timidamente entusiasta: per lui Scalfari rappresenta una «posizione terza» del pensiero Occidentale tra la linea di difesa del mondo moderno di figure come Habermas e Blumenberg e quella dei critici della post-modernità come Lyotard e Baudrillard. Titolo del pezzo: «Quel mondo perduto tra Nietzsche e Proust». Se non rischiasse di passare per un refuso, nell’occhiello avrebbero potuto aggiungere: ’sta minchia.
«Ascesa e crisi della modernità», «Il nuovo viaggio di Eugenio Scalfari: dagli illuministi a Nietzsche» sono invece titolo e catenaccio che hanno celebrato ieri il nuovo Libro del Nostro sulla copertina di Cultura del Corriere della sera. Firma la recensione, superando ogni imbarazzo, il sommo sacerdote della critica italiana: il professore Cesare Segre. Il quale a quest’«opera sapientemente elaborata» riserva un’attenzione filologica, smontando e analizzando il libro di Scalfari nelle singole parti - «climax», «anticlimax», «gran finale» - e rintracciando tutte le citazioni letterarie, musicali, poetiche e pittoriche sparse nell’opera, da Rilke a Proust, da Leopardi a Kojève, da Fumaroli a Montale. Il professor Segre usa tutta la semiologia di cui dispone e tutta la pagina che gli è messa a disposizione per definire un libro che «non è un saggio di storia delle idee in senso stretto», un testo che è un «viaggio letterario e filosofico» ma anche «un’opera d’assieme» a «intensità variabile».
In casi simili, una banale quarta di copertina avrebbe parlato di «Un saggio che ha la lievità di un romanzo e insieme un romanzo che ha la complessità del saggio». L’ottimo Cesare Segre, invece, risolve tutto con uno straordinario: «Questo libro poteva scivolare verso la trattatistica. Scalfari, che sa abbandonarsi alla vocazione di scrittore, l’ha evitato ricorrendo a un ventaglio d’invenzioni schiettamente narrative». Chapeau. Che in francese significa «M’inginocchio».
In fondo spiace che a baciare la pantofola del Fondatore siano professoroni del pensiero e della critica al livello di Asor Rosa, di Segre, di Gnoli. Fanno un torto a se stessi e mettono in imbarazzo (sempre che sappia accorgersene) lo stesso Autore. Al quale dovrebbero bastare e avanzare apologie di bassa lega come quella di recente pubblicata da Angelo Cannatà col titolo Eugenio Scalfari e il suo tempo - nemmeno fosse Heidegger - dove l’ideologo di Largo Fochetti viene celebrato come uno scrittore-filosofo «per il quale ogni definizione si rivela parziale e riduttiva, ogni classificazione disciplinare fuorviante». Eugenio Scalfari? «Un intellettuale lucido, severo nella denuncia, autorevole, ieratico, ateo senza pentimenti ma pronto al dialogo, alla ragionevole discussione su ciò che unisce. Un intellettuale impegnato, con una forte consapevolezza della centralità della Costituzione e dello Stato di diritto. Testardo nella difesa di un liberismo di sinistra. Audace nelle sintesi teoriche, nella ricerca di strade nuove in letteratura e in filosofia». Un uomo che ha avuto «una grandissima influenza nel nostro Paese».
Soprattutto su quella parte che, senza averne i titoli, si è sempre creduta migliore dell’altra. Si chiama complesso di superiorità.
Ad esempio in programmi molto à la page come Che tempo che fa, dove riesce ad affermare, come l’ultima volta, cose del tipo: «La gente di sinistra ha una sensibilità particolare sulle questioni di tipo morale». E dove, per caso, può pubblicizzare i propri libri.
L’ultimo dei quali Eugenio Scalfari - l’uomo che non credeva in Dio pur sentendosi a volte tale - ha deciso di intitolare Per l’alto mare aperto. Un testo che nell’epilogo l’autore stesso, con molta umiltà, definisce una «rivisitazione della modernità, da Montaigne e Cervantes fino a Leopardi e a Nietzsche, Descartes, Kant e Hegel, e ancora Tolstoj, Proust, Kafka e Joyce». Se non rischiasse di passare per un refuso, nella quarta di copertina potevano aggiungere: ’sti cazzi.
Il libro - pubblicato da una casa editrice di Berlusconi, che essendo di Berlusconi ovviamente non è più l’Einaudi di una volta, nel senso che una volta Giulio Einaudi non pagava mentre oggi Berlusconi sì - è uscito due giorni fa. Ieri sono arrivate le prime recensioni-capolavoro. Le quali, tra l’altro, possono vantare il curioso primato di applicare all’opera del Nostro tutti i gradi di salivazione previsti dalla lingua italiana tra gli aggettivi «vasto» e «eccellente».
Mettendo a confronto l’accoglienza che la stampa ha riservato ai due nuovi libri di Veltroni e Scalfari, se la qualità delle recensioni fosse proporzionale al ruolo politico del recensito, il primo sarebbe un consigliere di zona, il secondo premier.
Comunque, il giornale fondato dal Fondatore, Repubblica, ha festeggiato ieri il libro-evento con il paginone centrale, due articolesse, un disegno celebrativo, il richiamo in Prima pagina. Per Alberto Asor Rosa, che firma il pezzo principale, la nuova opera di Eugenio Scalfari rappresenta il culmine di un percorso iniziato con il romanzo allegorico Incontro con io, del 1994, e continuato con l’autobiografia filosofica L’uomo che non credeva in Dio, del 2008: «Il catalogo degli autori che Scalfari chiama questa volta a raccolta per sostenere la propria idea di modernità - scrive Alberto Asor Rosa, forse l’ultimo vero intellettuale di sinistra, come dimostra il fatto che recentemente ha firmato anche sul Secolo d’Italia - si è fatto sempre più vasto e comprensivo». Ed ecco quindi i “compagni” dell’itinerario filosofico di Eugenio Scalfari, l’Imam della Sinistra Laica: da Montaigne a Pascal, da Diderot a Tocqueville, da Cartesio a Kant, da Spinoza a Marx, da Leopardi a Baudelaire, da Dostoevskij a Tolstoj, da Rilke a Kafka, da Freud a Nietzsche... «le “cime” della modernità sono scalate dal nostro Autore con straordinaria agilità e incredibile capacità comunicativa, che però non diviene mai volgarizzazione pura e semplice», puntualizza estatico il professor Asor Rosa. Non senza però negare all’Autore un paragone con Dante, per l’uso della forma del «viaggio», e uno con Omero, per l’uso del «mito di Ulisse». Infine Asor Rosa non può che dirsi meravigliato per il ruolo che l’Autore - «intellettuale della più specchiata tradizione liberaldemocratica» - attribuisce a Karl Marx nel percorso della modernità: «Arrovesciando totalmente il Marx sostenitore della dittatura del proletariato nel Marx critico e analista della società capitalistica, Scalfari finisce brillantemente per collocarlo fra i teorizzatori dello Stato centralizzato ed autonomo e al tempo stesso (ma non contraddittoriamente) della società civile intesa come luogo in cui l’individuo esercita in modo privilegiato la propria libertà». Uno straordinario elogio da parte del professor Asor Rosa al Filosofo del Capitale e al tempo stesso (ma non contraddittoriamente) al Fondatore anticapitalista.
Antonio Gnoli, nel secondo dei due articoli di Repubblica, al confronto appare timidamente entusiasta: per lui Scalfari rappresenta una «posizione terza» del pensiero Occidentale tra la linea di difesa del mondo moderno di figure come Habermas e Blumenberg e quella dei critici della post-modernità come Lyotard e Baudrillard. Titolo del pezzo: «Quel mondo perduto tra Nietzsche e Proust». Se non rischiasse di passare per un refuso, nell’occhiello avrebbero potuto aggiungere: ’sta minchia.
«Ascesa e crisi della modernità», «Il nuovo viaggio di Eugenio Scalfari: dagli illuministi a Nietzsche» sono invece titolo e catenaccio che hanno celebrato ieri il nuovo Libro del Nostro sulla copertina di Cultura del Corriere della sera. Firma la recensione, superando ogni imbarazzo, il sommo sacerdote della critica italiana: il professore Cesare Segre. Il quale a quest’«opera sapientemente elaborata» riserva un’attenzione filologica, smontando e analizzando il libro di Scalfari nelle singole parti - «climax», «anticlimax», «gran finale» - e rintracciando tutte le citazioni letterarie, musicali, poetiche e pittoriche sparse nell’opera, da Rilke a Proust, da Leopardi a Kojève, da Fumaroli a Montale. Il professor Segre usa tutta la semiologia di cui dispone e tutta la pagina che gli è messa a disposizione per definire un libro che «non è un saggio di storia delle idee in senso stretto», un testo che è un «viaggio letterario e filosofico» ma anche «un’opera d’assieme» a «intensità variabile».
In casi simili, una banale quarta di copertina avrebbe parlato di «Un saggio che ha la lievità di un romanzo e insieme un romanzo che ha la complessità del saggio». L’ottimo Cesare Segre, invece, risolve tutto con uno straordinario: «Questo libro poteva scivolare verso la trattatistica. Scalfari, che sa abbandonarsi alla vocazione di scrittore, l’ha evitato ricorrendo a un ventaglio d’invenzioni schiettamente narrative». Chapeau. Che in francese significa «M’inginocchio».
In fondo spiace che a baciare la pantofola del Fondatore siano professoroni del pensiero e della critica al livello di Asor Rosa, di Segre, di Gnoli. Fanno un torto a se stessi e mettono in imbarazzo (sempre che sappia accorgersene) lo stesso Autore. Al quale dovrebbero bastare e avanzare apologie di bassa lega come quella di recente pubblicata da Angelo Cannatà col titolo Eugenio Scalfari e il suo tempo - nemmeno fosse Heidegger - dove l’ideologo di Largo Fochetti viene celebrato come uno scrittore-filosofo «per il quale ogni definizione si rivela parziale e riduttiva, ogni classificazione disciplinare fuorviante». Eugenio Scalfari? «Un intellettuale lucido, severo nella denuncia, autorevole, ieratico, ateo senza pentimenti ma pronto al dialogo, alla ragionevole discussione su ciò che unisce. Un intellettuale impegnato, con una forte consapevolezza della centralità della Costituzione e dello Stato di diritto. Testardo nella difesa di un liberismo di sinistra. Audace nelle sintesi teoriche, nella ricerca di strade nuove in letteratura e in filosofia». Un uomo che ha avuto «una grandissima influenza nel nostro Paese».
Soprattutto su quella parte che, senza averne i titoli, si è sempre creduta migliore dell’altra. Si chiama complesso di superiorità.
«Il Giornale» dell'8 maggio 2010
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