di Luigi Copertino
Il media system ha ormai deciso! Il Cristianesimo è il «male assoluto» che deve essere deradicato dal cuore degli uomini. La Chiesa una piovra onnivora che deve essere schiacciata senza scrupoli per il bene dell’umanità. I cristiani, in particolare i cattolici, sono tutti brutti, sporchi e cattivi. Da rieducare o eliminare, moralmente e, laddove possibile, anche fisicamente.
Il clima di attacco al Katéchon, al Papato, che si respira in questi giorni, ne è la riprova, laddove qualcuno ne avesse ancora bisogno.
Ciononostante, nei mesi scorsi, le petulanti sirene della folta prole di quella famosa madre che, per sventura di noi tutti, è sempre proverbialmente incinta non si sono fatte remore ad inondare la rete web con farneticanti appelli/denunce contro lo strapotere della Chiesa in Italia che, a loro dire, impediva la programmazione nelle sale cinematografiche del Bel Paese dell’ultimo film di Amenàbar dedicato alla tragica vicenda della filosofa neoplatonica Ipazia, uccisa nel 415 in Alessandria d’Egitto da alcuni monaci fanatici, dietro istigazione - questa l’accusa - del Patriarca Cirillo di Alessandria, un «figuro»che solo la Chiesa poteva fare «santo» e proclamare «dottore» nonostante fosse un assassino e un mandante di assassini.
Dunque un «complotto» clericale stava impedendo, a sentire quei petulanti predicatori ed «appellatori» del web, al pubblico italiano di misurare, attraverso un «capolavoro cinematografico», l’intolleranza ed il fanatismo cristiano, quello stesso, si potrebbe oggi aggiungere, che ha cercato di occultare lo scandalo della pedofilia ecclesiastica.
Benedetto XVI «assassino morale» come e forse più di Cirillo!
La schiera dei detrattori che gridavano al «complotto» era affollata: massoni, liberi pensatori, docenti universitari liberal, radicali, liberali e libertari, comunisti e nazi-neopagani, ecologisti panteisti e sinagogali talmudisti. Tutti insieme appassionatamente! Perché costoro, quando si tratta di dare addosso al Cristianesimo, all’odiato nemico comune, sono capaci di mettere tranquillamente da parte le loro superficiali divisioni.
Ora, però, saranno finalmente contenti, tutti costoro! L’orrida «bestia ecclesiale», che nel film di Amenàbar è impersonata da Cirillo e dai suoi monaci fanatici, è stata sconfitta dalla «bella libertaria», che nel film è interpretata dall’incantevole Rachel Weisz. Il film, infatti, è di imminente uscita anche in Italia.
Alessandro Zaccuri in un’ottima recensione apparsa su Avvenire del 14 aprile scorso annotava: «Insomma, il film dalle nostre parti non si sarebbe potuto vedere perché sgradito alla Chiesa. Argomentazione speciosa, considerato che molte altre pellicole hanno faticato e faticano a trovare un distributore in Italia (‘La strada’, tratto dal capolavoro di Cormac McCarthy, ha avuto vita difficile, e di ‘The Blind Side’, per cui la sventurata Sandra Bullock ha appena ricevuto un Oscar, si sa già che non arriverà mai nelle sale: in entrambi i casi si tratta, tra l’altro, di film cristianamente ineccepibili…) (da parte nostra vogliamo aggiungere anche ‘Katin’, questo sì davvero un capolavoro, che non è mai stato proiettato in Italia, nda). Fatto sta che l’appello ha avuto esito più che positivo e adesso il debutto di ‘Agora’ è accompagnato da una serie di eventi culturali senza precedenti: un convegno oggi pomeriggio a Roma presso l’Enciclopedia Italiana, un altro il 20 aprile a Milano nella sede della Banca Popolare, un dibattito il 21 a Genova. Ogni volta, relatori di tutto rispetto, da Luciano Canfora a Silvia Ronchey, da Umberto Eco a Eva Cantarella, da Franco Cardini allo stesso Amenábar».
Come si vede, le celebrazioni sono partite a tutto spiano ed in pompa magna. E, statene sicuri!, saremo inondati di spot pubblicitari sul film. Gad Lerner, Santoro e, più moderatamente, Bruno Vespa ci ricameranno sopra con i loro talk show. Nelle scuole le maestrine dalla penna rossa o rosa organizzeranno conferenze e convegni di studi con tanto di proiezioni per le scolaresche. Non mancherà neanche il monsignore di turno o l’intellettuale da sacrestia che pontificherà di «colpe storiche» o che sarà chiamato nei predetti show a fare la parte del sacco con il quale si allena il pugile di turno. Sul Corsera e Repubblica, e su tutte le riviste patinate per «persone colte», appariranno paginate intere sul film con entusiastiche recensioni. Tutto secondo il noto copione affinché il fronte ululante di cui sopra possa continuare a ricoprirsi gli occhi con massicce dosi di buon stagionato prosciutto per non vedere chi, nel mondo attuale, ha davvero il potere e per poter continuare a sentirsi paladino della libertà e della tolleranza nonché vendicatore delle povere vittime dell’intolleranza cristiana come Ipazia.
Come si dice: fessi e contenti!
Finora abbiamo voluto fare un po’ di sarcasmo sull’ipocrisia della «somma cultura», sul nuovo «minculpop» (nel senso autenticamente democratico di «mi inc … il popolo»!) dei media e del luogo comune.
Affrontiamo ora la questione con serietà, perché essa va oltre la giusta ed onesta ricostruzione storica di un misfatto di sedici secoli fa, del quale è comunque innegabile, da un punto di vista storico, che la responsabilità ricade su quei monaci. Ma, appunto, su «quei» monaci, che tra l’altro agivano in un contesto infuocato come quello dell’Alessandria del IV secolo, e solo su di essi. Non sulla Chiesa nel suo complesso e nella sua essenza.
Osserva giustamente ancora lo Zaccuri, nella recensione sopra citata: «Ci sono due modi, però, di affrontare il passato, due criteri non necessariamente contraddittori, ma che chiedono almeno di essere riconosciuti e distinti. Il primo è lo sguardo che potremmo definire dell’esattezza (…). La sceneggiatura… è sufficientemente smaliziata da evitare le forzature più grossolane. Basti considerare la cautela con cui il vescovo Cirillo viene presentato quale mandante morale e non quale diretto responsabile dell’uccisione di Ipazia (…). Come se non bastasse, le circostanze dell’assassinio da parte dei fanatici cristiani sono addirittura edulcorate rispetto alla narrazione di Socrate Scolastico, l’autore ecclesiastico a cui si devono le informazioni sul terribile episodio. Ma c’è un altro criterio, un secondo punto di vista che si può adottare nei confronti del passato, ed è quello dell’analogia. Ecco, senza questo diverso inquadramento prospettico forse non ci sarebbe stata nessuna petizione per ‘Agora’. Anzi, forse non ci sarebbe stato neppure ‘Agora’. Dopo una prima parte tutto sommato equilibrata e coinvolgente nel descrivere il marasma dell’Alessandria tardo-antica, nella quale credenze vecchie e nuove si intrecciano in una rete pressoché inestricabile di conflitti, con la scena madre della distruzione della Biblioteca, il film cambia bruscamente di tono e il gioco delle analogie si fa più evidente. Cirillo e i suoi seguaci, i monaci parabolani, si presentano come una sorta di Gestapo, la Chiesa è una congrega oscurantista e misogina (ma perché anche qui, come già nel Codice Da Vinci, ci si dimentica sempre della Vergine Maria?), la fede appare di volta in volta come una scelta opportunistica, come una fuga dalla realtà, mai come un tormento. La stessa Ipazia lo afferma con chiarezza quando, invitata a battezzarsi, sostiene che non potrebbe mai smettere di revocare in dubbio ciò in cui crede. Illuminismo scientifico contro cieco fideismo, dunque, con tanti saluti alla complessa elaborazione teologica che, proprio nel IV secolo, comporta una continua riconsiderazione di una tradizione ancora recente. Del resto, è così che funziona l’analogia: prende quel che serve e respinge tutto il resto. Il risultato è che, al di là delle raffinatezze filologiche di cui ‘Agora’ è costellato, l’impressione generale che lo spettatore ne ricava è di una Chiesa arrogante e spietata, che si fa scudo del nome di Dio per compiere stragi e perseguitare innocenti».
Lo scrivente si è occupato del film di Amenàbar qualche mese fa, proprio su questo sito («L’Ipazia mistificata di Amenabar»). Se ne sono occupati anche alcuni recensori che fanno per professione gli storici, con giudizi divergenti dallo scrivente, che hanno ritenuto il film storicamente fededegno. Tuttavia, ci appare evidente che il recensore di Avvenire ha visto giusto ed ha messo il dito in quella piaga che molti noti e competenti storici, qualcuno persino cattolico, non sembrano aver colto.
Il film, che sarà pure storicamente fededegno, è però viziato da una retrospettiva di tipo illuminista. E dunque da un intento platealmente anacronistico. Il film si basa sulla «Storia Ecclesiastica» di Socrate Scolastico, un cristiano, ma anche su altre fonti, pagane e nestoriane, quindi di per sé impossibili da accreditare acriticamente perché provenienti dai nemici teologici di Cirillo. Il punto cruciale della questione sta nella responsabilità, riguardo al linciaggio di Ipazia, attribuita a Cirillo, patriarca di Alessandria, la sede vescovile dalla quale deriva la Chiesa copta, che, come detto, è santo e dottore anche per la Chiesa cattolica. Cirillo era, senza dubbio, un patriarca autoritario e per niente tenero ma dobbiamo proprio a lui la difesa dei fondamenti stessi del dogma cristologico cattolico (o, se si vuole, niceno) ai tempi della disputa mariologica con Nestorio.
Oggi alcuni storici del Cristianesimo ritengono che quest’ultimo, Nestorio, sia stato frainteso a causa della diversità di linguaggio filosofico e della diversità di approccio volto a mettere l’accento sulla Umanità di Cristo a fronte dell’eccesso di idealismo platonizzante della scuola alessandrina, alla quale apparteneva Cirillo, che rischiava, come in effetti poi fu, esiti monofisiti. Ma è fuor di dubbio che, se pure Nestorio non voleva essere «nestoriano», i suoi seguaci radicalizzavano un certo suo linguaggio teologico sino a mettere in dubbio l’integrale Divino-Umanità di Cristo. Dunque, se non a proposito della teologia di Nestorio, nei limiti in cui essa fu effettivamente fraintesa (sempre che lo fu veramente), Cirillo aveva certamente ragione, dal punto di vista dogmatico, sulle conseguenze che da tale teologia traevano i nestoriani del tempo.
Ma per tornare alla nostra questione principale, è forse anche vero che, nella vicenda relativa alla povera Ipazia, Cirillo nascose dietro motivazioni religiose quelli che erano i dissidi politici che lo opponevano al prefetto imperiale Oreste, intenzionato, quest’ultimo, a punire un cristiano che si era vendicato delle violenze anticristiane degli ebrei di Alessandria a loro volta causate dall’eccessiva foga predicatoria di un altro cristiano.
In realtà, in tutta la vicenda si andava profilando il conflitto, che sarà poi anche medioevale, tra la tendenza «teocratica», quella di Cirillo, e la tendenza «cesaropapista», quella di Oreste. Pare che Ipazia, forse inseguendo il sogno della «perfetta repubblica platonica», fosse diventata la consigliera di Oreste e che per questo fu ritenuta colpevole da alcuni monaci fanatici, che le attribuivano anche l’intenzione di riportare l’impero al paganesimo, della rottura tra il Patriarca ed il Prefetto.
Al clima di sospetto che si creò intorno alla filosofa alessandrina, probabilmente, contribuì anche Cirillo che, pur grande cristianizzatore della filosofia platonica, nelle sue omelie osteggiava con veemenza la corrente magico-teurgica del neoplatonismo, corrente però estranea al «magistero» filosofico di Ipazia.
Ciò che, dunque, dal punto di vista storico può, con qualche relativa certezza, attribuirsi a Cirillo è solo una preterintenzionale ed incauta veemenza polemica, che se si vuole può anche chiamarsi «responsabilità morale» (comunque sia lui che Oreste, dopo il linciaggio di Ipazia, tornarono, colti di sorpresa dalla piega che gli avvenimenti avevano preso, a toni più pacati nella loro contesa).
Non può, tuttavia, attribuirsi a Cirillo, come ha tentato di fare lo storico settecentesco, protestante ed illuminista, Edward Gibbon, la responsabilità giuridica di essere il mandante del linciaggio e quindi quella di essere un assassino.
Il film, stando alla recensione di cui sopra, sembra attenersi alla tesi della involontaria responsabilità morale, non senza però sottendere anche l’altra ipotesi. Ora, al di là di ogni discussione circa la veridicità storica del film (che sembra avere le sue pecche anche sotto questo profilo se è vero che Ipazia, quando fu assassinata, era vecchia, mentre nel film, interpretata dalla splendida Rachel Weisz, al momento del linciaggio appare giovane e bella, a rimarcare la misoginia cattolica) e circa le questioni teologiche e filosofiche, appare chiaro che l’intenzione del regista, Amenàbar, non è affatto quella di portare a conoscenza del pubblico, nei suoi giusti contorni storici, una storia, purtroppo, vera ma quella di mettere sul banco degli imputati, con un odioso criterio di responsabilità oggettiva e collettiva, la Chiesa ed i cristiani tutti.
Anzi, il Cristianesimo stesso che, per dirla con l’egittologo Jas Assmann e il «neopagano» Alain De Benoist, come tutte le fedi monoteistiche (compresi dunque anche ebraismo ed islam) sarebbe, per definizione, intollerante per via della sua pretesa di possedere l’unica Verità.
Chi ha letto l’entusiastica recensione al film apparsa su Il Messaggero del 13 aprile scorso, a firma di Giulio Giorello (1), si è reso conto del vizio «illuminista» e dunque anacronistico che rende il film, comunque lo si giudichi, solo un ulteriore attacco al Cattolicesimo. Un attacco che va ad aggiungersi a molti altri in atto, da ultimo la artatamente gonfiata, oltre la pur tragica ma minoritaria realtà del fenomeno, questione pedofilia.
Senza ammiccare al trionfalismo apologetico da «leggenda aurea», apologetica questa «cattiva», solitamente di marca cons e neocons, servirebbe un altro tipo di apologetica, che sappia affrontare, senza giustificarne i singoli ed autentici responsabili, fatti come quelli di Ipazia ma, al tempo stesso, pretendendo, chiaramente e con decisione, dai detrattori di non barare nel tentativo di far passare il messaggio, viziato sia storicamente che filosoficamente, «Cristianesimo = intolleranza».
Dovremmo forse noi cattolici per primi adoperarci in questo impegno storico e confrontarci con i casi dolorosi come quello di Ipazia, per non lasciare che altri lo facciano al posto nostro senza, però, la necessaria onestà intellettuale.
Lo scrivente rimane comunque convinto che l’episodio di Ipazia non sarebbe stato riesumato se non ci fosse stato di mezzo un patriarca che la Chiesa ha fatto santo e proclamato dottore. Nulla poi può toglierci la convinzione che nel regista, Amenàbar, abbia, poi, giocato molto la sua avversione di omosessuale verso la Chiesa.
Detto questo, lo scrivente resta in attesa, senza farsi tuttavia troppe illusioni sull’onestà intellettuale degli Amenàbar e dei Giorello, che qualcuno faccia un film anche sul massacro, che precede di qualche decennio quello di Ipazia, delle vergini cristiane di Eliopoli, in Siria, i cui resti furono gettati ai porci dopo essere state denudate, violentate ed uccise, insieme ad un diacono, da una folla, eccitata dal predicatore di turno, questa volta «pagano», durante il tentativo di restaurazione di Giuliano l’Apostata (2).
Perché alla fine, anche se cacciata dalla porta, ritorna sempre, dalla finestra, l’ineliminabile Verità del Vangelo: «Chi è senza peccato, scagli la prima pietra»!
Il clima di attacco al Katéchon, al Papato, che si respira in questi giorni, ne è la riprova, laddove qualcuno ne avesse ancora bisogno.
Ciononostante, nei mesi scorsi, le petulanti sirene della folta prole di quella famosa madre che, per sventura di noi tutti, è sempre proverbialmente incinta non si sono fatte remore ad inondare la rete web con farneticanti appelli/denunce contro lo strapotere della Chiesa in Italia che, a loro dire, impediva la programmazione nelle sale cinematografiche del Bel Paese dell’ultimo film di Amenàbar dedicato alla tragica vicenda della filosofa neoplatonica Ipazia, uccisa nel 415 in Alessandria d’Egitto da alcuni monaci fanatici, dietro istigazione - questa l’accusa - del Patriarca Cirillo di Alessandria, un «figuro»che solo la Chiesa poteva fare «santo» e proclamare «dottore» nonostante fosse un assassino e un mandante di assassini.
Dunque un «complotto» clericale stava impedendo, a sentire quei petulanti predicatori ed «appellatori» del web, al pubblico italiano di misurare, attraverso un «capolavoro cinematografico», l’intolleranza ed il fanatismo cristiano, quello stesso, si potrebbe oggi aggiungere, che ha cercato di occultare lo scandalo della pedofilia ecclesiastica.
Benedetto XVI «assassino morale» come e forse più di Cirillo!
La schiera dei detrattori che gridavano al «complotto» era affollata: massoni, liberi pensatori, docenti universitari liberal, radicali, liberali e libertari, comunisti e nazi-neopagani, ecologisti panteisti e sinagogali talmudisti. Tutti insieme appassionatamente! Perché costoro, quando si tratta di dare addosso al Cristianesimo, all’odiato nemico comune, sono capaci di mettere tranquillamente da parte le loro superficiali divisioni.
Ora, però, saranno finalmente contenti, tutti costoro! L’orrida «bestia ecclesiale», che nel film di Amenàbar è impersonata da Cirillo e dai suoi monaci fanatici, è stata sconfitta dalla «bella libertaria», che nel film è interpretata dall’incantevole Rachel Weisz. Il film, infatti, è di imminente uscita anche in Italia.
Alessandro Zaccuri in un’ottima recensione apparsa su Avvenire del 14 aprile scorso annotava: «Insomma, il film dalle nostre parti non si sarebbe potuto vedere perché sgradito alla Chiesa. Argomentazione speciosa, considerato che molte altre pellicole hanno faticato e faticano a trovare un distributore in Italia (‘La strada’, tratto dal capolavoro di Cormac McCarthy, ha avuto vita difficile, e di ‘The Blind Side’, per cui la sventurata Sandra Bullock ha appena ricevuto un Oscar, si sa già che non arriverà mai nelle sale: in entrambi i casi si tratta, tra l’altro, di film cristianamente ineccepibili…) (da parte nostra vogliamo aggiungere anche ‘Katin’, questo sì davvero un capolavoro, che non è mai stato proiettato in Italia, nda). Fatto sta che l’appello ha avuto esito più che positivo e adesso il debutto di ‘Agora’ è accompagnato da una serie di eventi culturali senza precedenti: un convegno oggi pomeriggio a Roma presso l’Enciclopedia Italiana, un altro il 20 aprile a Milano nella sede della Banca Popolare, un dibattito il 21 a Genova. Ogni volta, relatori di tutto rispetto, da Luciano Canfora a Silvia Ronchey, da Umberto Eco a Eva Cantarella, da Franco Cardini allo stesso Amenábar».
Come si vede, le celebrazioni sono partite a tutto spiano ed in pompa magna. E, statene sicuri!, saremo inondati di spot pubblicitari sul film. Gad Lerner, Santoro e, più moderatamente, Bruno Vespa ci ricameranno sopra con i loro talk show. Nelle scuole le maestrine dalla penna rossa o rosa organizzeranno conferenze e convegni di studi con tanto di proiezioni per le scolaresche. Non mancherà neanche il monsignore di turno o l’intellettuale da sacrestia che pontificherà di «colpe storiche» o che sarà chiamato nei predetti show a fare la parte del sacco con il quale si allena il pugile di turno. Sul Corsera e Repubblica, e su tutte le riviste patinate per «persone colte», appariranno paginate intere sul film con entusiastiche recensioni. Tutto secondo il noto copione affinché il fronte ululante di cui sopra possa continuare a ricoprirsi gli occhi con massicce dosi di buon stagionato prosciutto per non vedere chi, nel mondo attuale, ha davvero il potere e per poter continuare a sentirsi paladino della libertà e della tolleranza nonché vendicatore delle povere vittime dell’intolleranza cristiana come Ipazia.
Come si dice: fessi e contenti!
Finora abbiamo voluto fare un po’ di sarcasmo sull’ipocrisia della «somma cultura», sul nuovo «minculpop» (nel senso autenticamente democratico di «mi inc … il popolo»!) dei media e del luogo comune.
Affrontiamo ora la questione con serietà, perché essa va oltre la giusta ed onesta ricostruzione storica di un misfatto di sedici secoli fa, del quale è comunque innegabile, da un punto di vista storico, che la responsabilità ricade su quei monaci. Ma, appunto, su «quei» monaci, che tra l’altro agivano in un contesto infuocato come quello dell’Alessandria del IV secolo, e solo su di essi. Non sulla Chiesa nel suo complesso e nella sua essenza.
Osserva giustamente ancora lo Zaccuri, nella recensione sopra citata: «Ci sono due modi, però, di affrontare il passato, due criteri non necessariamente contraddittori, ma che chiedono almeno di essere riconosciuti e distinti. Il primo è lo sguardo che potremmo definire dell’esattezza (…). La sceneggiatura… è sufficientemente smaliziata da evitare le forzature più grossolane. Basti considerare la cautela con cui il vescovo Cirillo viene presentato quale mandante morale e non quale diretto responsabile dell’uccisione di Ipazia (…). Come se non bastasse, le circostanze dell’assassinio da parte dei fanatici cristiani sono addirittura edulcorate rispetto alla narrazione di Socrate Scolastico, l’autore ecclesiastico a cui si devono le informazioni sul terribile episodio. Ma c’è un altro criterio, un secondo punto di vista che si può adottare nei confronti del passato, ed è quello dell’analogia. Ecco, senza questo diverso inquadramento prospettico forse non ci sarebbe stata nessuna petizione per ‘Agora’. Anzi, forse non ci sarebbe stato neppure ‘Agora’. Dopo una prima parte tutto sommato equilibrata e coinvolgente nel descrivere il marasma dell’Alessandria tardo-antica, nella quale credenze vecchie e nuove si intrecciano in una rete pressoché inestricabile di conflitti, con la scena madre della distruzione della Biblioteca, il film cambia bruscamente di tono e il gioco delle analogie si fa più evidente. Cirillo e i suoi seguaci, i monaci parabolani, si presentano come una sorta di Gestapo, la Chiesa è una congrega oscurantista e misogina (ma perché anche qui, come già nel Codice Da Vinci, ci si dimentica sempre della Vergine Maria?), la fede appare di volta in volta come una scelta opportunistica, come una fuga dalla realtà, mai come un tormento. La stessa Ipazia lo afferma con chiarezza quando, invitata a battezzarsi, sostiene che non potrebbe mai smettere di revocare in dubbio ciò in cui crede. Illuminismo scientifico contro cieco fideismo, dunque, con tanti saluti alla complessa elaborazione teologica che, proprio nel IV secolo, comporta una continua riconsiderazione di una tradizione ancora recente. Del resto, è così che funziona l’analogia: prende quel che serve e respinge tutto il resto. Il risultato è che, al di là delle raffinatezze filologiche di cui ‘Agora’ è costellato, l’impressione generale che lo spettatore ne ricava è di una Chiesa arrogante e spietata, che si fa scudo del nome di Dio per compiere stragi e perseguitare innocenti».
Lo scrivente si è occupato del film di Amenàbar qualche mese fa, proprio su questo sito («L’Ipazia mistificata di Amenabar»). Se ne sono occupati anche alcuni recensori che fanno per professione gli storici, con giudizi divergenti dallo scrivente, che hanno ritenuto il film storicamente fededegno. Tuttavia, ci appare evidente che il recensore di Avvenire ha visto giusto ed ha messo il dito in quella piaga che molti noti e competenti storici, qualcuno persino cattolico, non sembrano aver colto.
Il film, che sarà pure storicamente fededegno, è però viziato da una retrospettiva di tipo illuminista. E dunque da un intento platealmente anacronistico. Il film si basa sulla «Storia Ecclesiastica» di Socrate Scolastico, un cristiano, ma anche su altre fonti, pagane e nestoriane, quindi di per sé impossibili da accreditare acriticamente perché provenienti dai nemici teologici di Cirillo. Il punto cruciale della questione sta nella responsabilità, riguardo al linciaggio di Ipazia, attribuita a Cirillo, patriarca di Alessandria, la sede vescovile dalla quale deriva la Chiesa copta, che, come detto, è santo e dottore anche per la Chiesa cattolica. Cirillo era, senza dubbio, un patriarca autoritario e per niente tenero ma dobbiamo proprio a lui la difesa dei fondamenti stessi del dogma cristologico cattolico (o, se si vuole, niceno) ai tempi della disputa mariologica con Nestorio.
Oggi alcuni storici del Cristianesimo ritengono che quest’ultimo, Nestorio, sia stato frainteso a causa della diversità di linguaggio filosofico e della diversità di approccio volto a mettere l’accento sulla Umanità di Cristo a fronte dell’eccesso di idealismo platonizzante della scuola alessandrina, alla quale apparteneva Cirillo, che rischiava, come in effetti poi fu, esiti monofisiti. Ma è fuor di dubbio che, se pure Nestorio non voleva essere «nestoriano», i suoi seguaci radicalizzavano un certo suo linguaggio teologico sino a mettere in dubbio l’integrale Divino-Umanità di Cristo. Dunque, se non a proposito della teologia di Nestorio, nei limiti in cui essa fu effettivamente fraintesa (sempre che lo fu veramente), Cirillo aveva certamente ragione, dal punto di vista dogmatico, sulle conseguenze che da tale teologia traevano i nestoriani del tempo.
Ma per tornare alla nostra questione principale, è forse anche vero che, nella vicenda relativa alla povera Ipazia, Cirillo nascose dietro motivazioni religiose quelli che erano i dissidi politici che lo opponevano al prefetto imperiale Oreste, intenzionato, quest’ultimo, a punire un cristiano che si era vendicato delle violenze anticristiane degli ebrei di Alessandria a loro volta causate dall’eccessiva foga predicatoria di un altro cristiano.
In realtà, in tutta la vicenda si andava profilando il conflitto, che sarà poi anche medioevale, tra la tendenza «teocratica», quella di Cirillo, e la tendenza «cesaropapista», quella di Oreste. Pare che Ipazia, forse inseguendo il sogno della «perfetta repubblica platonica», fosse diventata la consigliera di Oreste e che per questo fu ritenuta colpevole da alcuni monaci fanatici, che le attribuivano anche l’intenzione di riportare l’impero al paganesimo, della rottura tra il Patriarca ed il Prefetto.
Al clima di sospetto che si creò intorno alla filosofa alessandrina, probabilmente, contribuì anche Cirillo che, pur grande cristianizzatore della filosofia platonica, nelle sue omelie osteggiava con veemenza la corrente magico-teurgica del neoplatonismo, corrente però estranea al «magistero» filosofico di Ipazia.
Ciò che, dunque, dal punto di vista storico può, con qualche relativa certezza, attribuirsi a Cirillo è solo una preterintenzionale ed incauta veemenza polemica, che se si vuole può anche chiamarsi «responsabilità morale» (comunque sia lui che Oreste, dopo il linciaggio di Ipazia, tornarono, colti di sorpresa dalla piega che gli avvenimenti avevano preso, a toni più pacati nella loro contesa).
Non può, tuttavia, attribuirsi a Cirillo, come ha tentato di fare lo storico settecentesco, protestante ed illuminista, Edward Gibbon, la responsabilità giuridica di essere il mandante del linciaggio e quindi quella di essere un assassino.
Il film, stando alla recensione di cui sopra, sembra attenersi alla tesi della involontaria responsabilità morale, non senza però sottendere anche l’altra ipotesi. Ora, al di là di ogni discussione circa la veridicità storica del film (che sembra avere le sue pecche anche sotto questo profilo se è vero che Ipazia, quando fu assassinata, era vecchia, mentre nel film, interpretata dalla splendida Rachel Weisz, al momento del linciaggio appare giovane e bella, a rimarcare la misoginia cattolica) e circa le questioni teologiche e filosofiche, appare chiaro che l’intenzione del regista, Amenàbar, non è affatto quella di portare a conoscenza del pubblico, nei suoi giusti contorni storici, una storia, purtroppo, vera ma quella di mettere sul banco degli imputati, con un odioso criterio di responsabilità oggettiva e collettiva, la Chiesa ed i cristiani tutti.
Anzi, il Cristianesimo stesso che, per dirla con l’egittologo Jas Assmann e il «neopagano» Alain De Benoist, come tutte le fedi monoteistiche (compresi dunque anche ebraismo ed islam) sarebbe, per definizione, intollerante per via della sua pretesa di possedere l’unica Verità.
Chi ha letto l’entusiastica recensione al film apparsa su Il Messaggero del 13 aprile scorso, a firma di Giulio Giorello (1), si è reso conto del vizio «illuminista» e dunque anacronistico che rende il film, comunque lo si giudichi, solo un ulteriore attacco al Cattolicesimo. Un attacco che va ad aggiungersi a molti altri in atto, da ultimo la artatamente gonfiata, oltre la pur tragica ma minoritaria realtà del fenomeno, questione pedofilia.
Senza ammiccare al trionfalismo apologetico da «leggenda aurea», apologetica questa «cattiva», solitamente di marca cons e neocons, servirebbe un altro tipo di apologetica, che sappia affrontare, senza giustificarne i singoli ed autentici responsabili, fatti come quelli di Ipazia ma, al tempo stesso, pretendendo, chiaramente e con decisione, dai detrattori di non barare nel tentativo di far passare il messaggio, viziato sia storicamente che filosoficamente, «Cristianesimo = intolleranza».
Dovremmo forse noi cattolici per primi adoperarci in questo impegno storico e confrontarci con i casi dolorosi come quello di Ipazia, per non lasciare che altri lo facciano al posto nostro senza, però, la necessaria onestà intellettuale.
Lo scrivente rimane comunque convinto che l’episodio di Ipazia non sarebbe stato riesumato se non ci fosse stato di mezzo un patriarca che la Chiesa ha fatto santo e proclamato dottore. Nulla poi può toglierci la convinzione che nel regista, Amenàbar, abbia, poi, giocato molto la sua avversione di omosessuale verso la Chiesa.
Detto questo, lo scrivente resta in attesa, senza farsi tuttavia troppe illusioni sull’onestà intellettuale degli Amenàbar e dei Giorello, che qualcuno faccia un film anche sul massacro, che precede di qualche decennio quello di Ipazia, delle vergini cristiane di Eliopoli, in Siria, i cui resti furono gettati ai porci dopo essere state denudate, violentate ed uccise, insieme ad un diacono, da una folla, eccitata dal predicatore di turno, questa volta «pagano», durante il tentativo di restaurazione di Giuliano l’Apostata (2).
Perché alla fine, anche se cacciata dalla porta, ritorna sempre, dalla finestra, l’ineliminabile Verità del Vangelo: «Chi è senza peccato, scagli la prima pietra»!
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NOTE
NOTE
1) Al professor Giorello qualcuno dovrebbe ricordare, a proposito di rispetto e tolleranza, che mentre il suo beniamino Giordano Bruno li considerava non umani ma animali fu la Chiesa,con la bolla papale «Veritas Ipsa» nel XVI secolo,a proclamare, urbi et orbi, che gli indios americani erano esseri dotati di ragione, dunque capaci di Dio, ossia, per natura, uomini a tutti gli effetti e che come tali dovevano essere trattati e rispettati nei loro diritti.
2) Confronta Angelo Paredi «Sant’Ambrogio - l’uomo, il politico, il vescovo», Rizzoli, Milano, 1985, pagina 51. L’autore, a fronte di chi rammenta soltanto le violenze con cui le frange più fanatiche, e spesso in odore di eresia, tra i cristiani depredavano, contro la volontà stessa di parte dei vescovi e dell’autorità imperiale, templi e sinagoghe, ricorda anche come, durante il governo di Giuliano, che per altro era uomo di grande cultura e che da giovane aveva persino ammirato l’immensa opera di carità che portavano avanti i cristiani, tanto che tentò di emularla inventando una sorta di «chiesa pagana» con tanto di gerarchia episcopale, giudei e pagani, convinti che era giunto il momento della rivincita e della vendetta, si abbandonavano a violente distruzioni delle basiliche cristiane. Spesso distruggendo quel che la stessa Chiesa aveva ereditato dal mondo antico, trattandosi in molti casi di templi pagani passati ai cristiani e da essi consacrati al culto di Cristo.
Fonte: http://www.effedieffe.com del 16 aprile 2010
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