Presentato ieri al Vittoriale lo «scherzo» in versi in cui il Vate inventa il motto più famoso del ’900
di Giordano Bruno Guerri
Trovare versi inediti di Gabriele d’Annunzio è una festa, prima che un’emozione. Una festa che si è celebrata ieri al Vittoriale degli Italiani, insieme al ritrovamento di altri importanti documenti e all’inaugurazione di un’opera d’arte, di cui diremo. Lo «scherzo poetico» a rime baciate e intrecciate - che viene pubblicato qui per la prima volta – è un manoscritto autografo in 28 fogli, dalla misura singolare: 41,5x15,5 centimetri: lunghi fogli di carta ingiallita, vergati in inchiostro bruno con numerose correzioni.
Priva di titolo, quest’opera rischia di passare alla storia come un «poemetto giovanile», perché così è stato presentato nel catalogo della casa d’aste Bloomsbury. In realtà, «giovanile» è Primo vere, composto e pubblicato dal liceale Gabriele nel 1879, a 16 anni, e già di qualità tale da portarlo agli onori delle cronache letterarie dell’epoca.
Il componimento che potete leggere in queste pagine è databile fra il 1893 e il 1897, ovvero quando d’Annunzio aveva 30-34 anni: certo non aveva ancora scritto i suo capolavori poetici, a partire dall’Alcyone – di inizio Novecento - ma non era né un ragazzino né un giovane autore in attesa di fama. Il Piacere, il romanzo che lo portò alla celebrità, non solo italiana, è del 1889, L’Innocente del 1891. Quanto alla vita privata, nel 1893, a trent’anni, Gabriele aveva già avuto i suoi quattro figli: tre maschi dalla moglie Maria Hardouin d’Altemps di Gallese, e Renata (1893) dalla relazione adulterina con Maria Gravina Cruyllas di Ramacca Anguissola.
Priva di titolo, quest’opera rischia di passare alla storia come un «poemetto giovanile», perché così è stato presentato nel catalogo della casa d’aste Bloomsbury. In realtà, «giovanile» è Primo vere, composto e pubblicato dal liceale Gabriele nel 1879, a 16 anni, e già di qualità tale da portarlo agli onori delle cronache letterarie dell’epoca.
Il componimento che potete leggere in queste pagine è databile fra il 1893 e il 1897, ovvero quando d’Annunzio aveva 30-34 anni: certo non aveva ancora scritto i suo capolavori poetici, a partire dall’Alcyone – di inizio Novecento - ma non era né un ragazzino né un giovane autore in attesa di fama. Il Piacere, il romanzo che lo portò alla celebrità, non solo italiana, è del 1889, L’Innocente del 1891. Quanto alla vita privata, nel 1893, a trent’anni, Gabriele aveva già avuto i suoi quattro figli: tre maschi dalla moglie Maria Hardouin d’Altemps di Gallese, e Renata (1893) dalla relazione adulterina con Maria Gravina Cruyllas di Ramacca Anguissola.
Se ci spingiamo fino al 1897, la grande passione per e con Eleonora Duse era già iniziata da due anni, e d’Annunzio era stato eletto deputato alla Camera. In agosto gli era stata offerta la possibilità di candidarsi, nel collegio di Ortona a Mare, in seguito all’annullamento per vizi formali dell’elezione del liberale Filippo Masci, che aveva vinto con appena cinquanta voti di scarto. I conservatori convinsero d’Annunzio, senza sforzi, a rappresentarli nella sua terra contro il repubblicano Carlo Altobelli che, ironia della sorte, lo aveva difeso nella causa di adulterio intentata dal marito della Gravina. A dispetto di quanto il poeta aveva scritto sulla vita parlamentare come vera fogna della moralità nazionale, la prospettiva di entrare a Montecitorio balenò con scintillio irresistibile ai suoi occhi.
Si impegnò molto nella campagna elettorale, e questo spiega la sua presenza, particolarmente assidua quell’anno, in Abruzzo. Il luogo dove questo «scherzo poetico» venne composto forse è Francavilla, ma probabilmente venne declamato nel palazzo del barone Francesco Bonanni d’Ocre, a Fossa, in provincia dell’Aquila: un gioiello di bellezze artistiche e architettoniche purtroppo devastato dal terremoto del 2009.
Fossa è relativamente lontana sia dalla circoscrizione di Ortona sia da Francavilla. Ma il palazzo del barone Bonanni era prediletto per gli incontri di artisti abruzzesi, fra cui Francesco Paolo Michetti, intimo di d’Annunzio. Ecco l’incipit: «A Francavilla / siamo venuti / per darvi un saggio / in tre minuti / (ci vuol coraggio) / della favilla / inestinguibile / immarcescibile / che in core ci arde». Il componimento è palesemente scritto per un’occasione conviviale, piena di amici e parenti: sono citati, per esempio, la sorella Anna con il marito Filippo, insieme a una sfilza di nomi che faranno la gioia degli studiosi abruzzesi e dei legami del poeta con la sua terra d’origine.
Soprattutto, però, «Il testo è di un interesse assoluto, perché contiene in nuce stilemi poetici, temi e topoi del d'Annunzio più maturo», come ha scritto Annamaria Andreoli per il catalogo d’asta Bloomsbury. Agli appassionati di storia interesserà che compaia per la prima volta l’«eja alalà», grido di guerra e di esultanza degli antichi soldati greci che d’Annunzio trovò più consono all’anima latina del barbaro «hip hip hurrah!». Nel poemetto viene usato in un modo giocoso: In alto i cuori! / Eja, alalà; / Passa – o Signori! – / la Nobiltà. Poi ne farà un uso molto più impegnativo.
D’Annunzio lo aveva scoperto in Eschilo e in Pindaro, e finora si riteneva lo avesse usato per la prima volta nella tragedia La Nave (1907) e nella Fedra (1908). Lo usò ancora, urlandolo, nell’agosto del 1917, quando guidò tre raid notturni sulle basi austriache di Pola, e lo riscrisse nella Canzone del Quarnaro, del 1918. Poi il grido sarebbe stato adottato - come altre invenzioni di d’Annunzio, che se ne sdegnava – dagli squadristi fascisti: i quali ne fecero il grido della «violenza inutile» e del «castigo ingiusto», come dichiarò il poeta nel 1921. Del resto né i fascisti, né tanto meno Mussolini, avrebbero mai usato la formula scelta da Gabriele per un suo discorso dal balcone, durante l’impresa di Fiume: «Viva l’Amore! Alalà!»
«Viva l’Amore! Alalà!», grido anch’io, pensando all’abbraccio d’amore di cui ha goduto il Vittoriale degli Italiani nella manifestazione di ieri. Oltre al Poemetto – donato dall’ambasciatore Antonio Spada in rappresentanza dell’Associazione Amici dei Musei di Brescia, abbiamo festeggiato il ritrovamento di oltre seicento documenti d’archivio: le lettere di Alessandra di Rudinì e di Giuseppina Mancini, dal 1903 al 1927. Nel 1963 li aveva sottratti al Vittoriale nientemeno che il suo presidente di allora (non voglio neppure farne il nome), e erano considerati perduti, tanto più che non ne esistevano trascrizioni o copie.
Gabriele d’Annunzio aveva dedicato buona parte del suo tempo, a Gardone Riviera, a recuperare e catalogare la sua corrispondenza, e non potevo tollerare quel vuoto nel nostro Archivio. Nei panni di Sherlock Holmes – seppur con mille sigarette smozzicate dall’emozione al posto della pipa - ho cominciato a indagare tra i numerosi collezionisti di d’Annunzio, e la sorte mi ha aiutato facendomi incontrare il generoso e appassionato Giovanni Maria Staffieri, che mi ha consentito di recuperare i preziosi documenti e di riportarli a Casa: senza alcuna spesa, né per lo Stato né per il Vittoriale. Adesso sono in via di trascrizione e di catalogazione, prima di venire messi a disposizione degli studiosi.
*Presidente del Vittoriale degli Italiani
Si impegnò molto nella campagna elettorale, e questo spiega la sua presenza, particolarmente assidua quell’anno, in Abruzzo. Il luogo dove questo «scherzo poetico» venne composto forse è Francavilla, ma probabilmente venne declamato nel palazzo del barone Francesco Bonanni d’Ocre, a Fossa, in provincia dell’Aquila: un gioiello di bellezze artistiche e architettoniche purtroppo devastato dal terremoto del 2009.
Fossa è relativamente lontana sia dalla circoscrizione di Ortona sia da Francavilla. Ma il palazzo del barone Bonanni era prediletto per gli incontri di artisti abruzzesi, fra cui Francesco Paolo Michetti, intimo di d’Annunzio. Ecco l’incipit: «A Francavilla / siamo venuti / per darvi un saggio / in tre minuti / (ci vuol coraggio) / della favilla / inestinguibile / immarcescibile / che in core ci arde». Il componimento è palesemente scritto per un’occasione conviviale, piena di amici e parenti: sono citati, per esempio, la sorella Anna con il marito Filippo, insieme a una sfilza di nomi che faranno la gioia degli studiosi abruzzesi e dei legami del poeta con la sua terra d’origine.
Soprattutto, però, «Il testo è di un interesse assoluto, perché contiene in nuce stilemi poetici, temi e topoi del d'Annunzio più maturo», come ha scritto Annamaria Andreoli per il catalogo d’asta Bloomsbury. Agli appassionati di storia interesserà che compaia per la prima volta l’«eja alalà», grido di guerra e di esultanza degli antichi soldati greci che d’Annunzio trovò più consono all’anima latina del barbaro «hip hip hurrah!». Nel poemetto viene usato in un modo giocoso: In alto i cuori! / Eja, alalà; / Passa – o Signori! – / la Nobiltà. Poi ne farà un uso molto più impegnativo.
D’Annunzio lo aveva scoperto in Eschilo e in Pindaro, e finora si riteneva lo avesse usato per la prima volta nella tragedia La Nave (1907) e nella Fedra (1908). Lo usò ancora, urlandolo, nell’agosto del 1917, quando guidò tre raid notturni sulle basi austriache di Pola, e lo riscrisse nella Canzone del Quarnaro, del 1918. Poi il grido sarebbe stato adottato - come altre invenzioni di d’Annunzio, che se ne sdegnava – dagli squadristi fascisti: i quali ne fecero il grido della «violenza inutile» e del «castigo ingiusto», come dichiarò il poeta nel 1921. Del resto né i fascisti, né tanto meno Mussolini, avrebbero mai usato la formula scelta da Gabriele per un suo discorso dal balcone, durante l’impresa di Fiume: «Viva l’Amore! Alalà!»
«Viva l’Amore! Alalà!», grido anch’io, pensando all’abbraccio d’amore di cui ha goduto il Vittoriale degli Italiani nella manifestazione di ieri. Oltre al Poemetto – donato dall’ambasciatore Antonio Spada in rappresentanza dell’Associazione Amici dei Musei di Brescia, abbiamo festeggiato il ritrovamento di oltre seicento documenti d’archivio: le lettere di Alessandra di Rudinì e di Giuseppina Mancini, dal 1903 al 1927. Nel 1963 li aveva sottratti al Vittoriale nientemeno che il suo presidente di allora (non voglio neppure farne il nome), e erano considerati perduti, tanto più che non ne esistevano trascrizioni o copie.
Gabriele d’Annunzio aveva dedicato buona parte del suo tempo, a Gardone Riviera, a recuperare e catalogare la sua corrispondenza, e non potevo tollerare quel vuoto nel nostro Archivio. Nei panni di Sherlock Holmes – seppur con mille sigarette smozzicate dall’emozione al posto della pipa - ho cominciato a indagare tra i numerosi collezionisti di d’Annunzio, e la sorte mi ha aiutato facendomi incontrare il generoso e appassionato Giovanni Maria Staffieri, che mi ha consentito di recuperare i preziosi documenti e di riportarli a Casa: senza alcuna spesa, né per lo Stato né per il Vittoriale. Adesso sono in via di trascrizione e di catalogazione, prima di venire messi a disposizione degli studiosi.
*Presidente del Vittoriale degli Italiani
«Il Giornale» del 9 maggio 2010
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