di Mario Iannaccone
Sta producendo clamore «La misteriosa morte di René Descartes» di Theodor Ebert, dove si avanza l’ipotesi che la morte del filosofo, nel 1650, sia stata provocata da avvelenamento da arsenico per mezzo di un’ostia offerta dal prete François Vioguè. Ebert attinge da «Il delitto Cartesio» (Sellerio, 1999) del medico Eike Pies, rispetto al quale precisa meglio arma, movente e mandante, che sarebbe stato papa Innocenzo X; e basa l’ipotesi sulla lettera del medico del filosofo (già citata da Pies) dove si legge che egli soffrì negli ultimi giorni d’un «singhiozzo ostinato, un’espettorazione di colore nero e respirazione irregolare». Il motivo del vile assassinio sarebbe stato il timore che il filosofo e precettore di Cristina di Svezia, «a causa del suo insegnamento illuminato, potesse mettere in pericolo l’incipiente conversione» della regina (bisognerebbe comprendere le implicazioni dell’aggettivo «illuminato», che getta ombre sull’obiettività di Ebert). Vioguè e Innocenzo X si sarebbero sentiti giustificati dall’autorità del gesuita Juan Mariana, il quale «avrebbe considerato l’arsenico un mezzo lecito per eliminare gli infedeli».
Ci sono molti punti che non quadrano in questa ricostruzione.
Primo: nel gennaio 1650 Cristina già non era più luterana e si circondava di cattolici. La sua conversione era sì una vittoria per Roma ma non tale da giustificare un assassinio; ella aveva chiarito che avrebbe lasciato il trono al cugino Gustavo Adolfo. Secondo: tutta la tradizione storiografica giudica Cartesio cattolico sincero, pertanto non si comprende perché la sua influenza avrebbe dovuto minacciare la conversione della regina. Terzo: certo, nella politica del tempo si usavano i veleni ma ipotizzare, senza prove, che Vioguè abbia intriso d’arsenico un’ostia perché già lo avevano fatto i Borgia non è argomento serio.
Soprattutto quando si cita, a corroborare la tesi, «il notevole grado di fanatismo di alcuni ecclesiastici»: col metro di oggi tutta la società del XVII secolo era composta da fanatici.
Quarto: i sintomi esposti da Ebert sono tipici della polmonite che fu diagnosticata al filosofo.
Gli amici che lo assistettero osservarono un sintomo non riconducibile all’avvelenamento: la febbre alta. Da ricordare che egli era da poco entrato in contatto con un malato di polmonite, l’ambasciatore Nopeleen, e l’amico Chaunut era appena guarito da una febbre alta. Quinto: Juan Mariana, che avrebbe giustificato l’uccisione «dell’infedele» con l’arsenico, era conosciuto per il suo «De rege et regis institutione», che però non parla di «infedeli» bensì di «tiranni». Mariana scriveva che sì, è lecito che il popolo chiami il re a rendere conto del suo comportamento quando provoca sofferenze nel popolo; bisogna tuttavia preservare la vita degli innocenti perché il tirannicida mette a rischio la sua anima. Dunque, nessuna giustificazione di omicidi a freddo. Da ricordare, poi, che il presunto avvelenatore confessò Cartesio sul letto di morte amministrandogli l’estrema unzione. In conclusione, e in attesa d’altre ricognizioni, il castello di suggestioni di Ebert non convince. Pare che sia stato affascinato soprattutto dall’immagine simbolica dell’ostia avvelenata e dalla romanzesca, terribile, duplicità del «personaggio» Vioguè. Da far impallidire i gesuiti di Dumas.
Ci sono molti punti che non quadrano in questa ricostruzione.
Primo: nel gennaio 1650 Cristina già non era più luterana e si circondava di cattolici. La sua conversione era sì una vittoria per Roma ma non tale da giustificare un assassinio; ella aveva chiarito che avrebbe lasciato il trono al cugino Gustavo Adolfo. Secondo: tutta la tradizione storiografica giudica Cartesio cattolico sincero, pertanto non si comprende perché la sua influenza avrebbe dovuto minacciare la conversione della regina. Terzo: certo, nella politica del tempo si usavano i veleni ma ipotizzare, senza prove, che Vioguè abbia intriso d’arsenico un’ostia perché già lo avevano fatto i Borgia non è argomento serio.
Soprattutto quando si cita, a corroborare la tesi, «il notevole grado di fanatismo di alcuni ecclesiastici»: col metro di oggi tutta la società del XVII secolo era composta da fanatici.
Quarto: i sintomi esposti da Ebert sono tipici della polmonite che fu diagnosticata al filosofo.
Gli amici che lo assistettero osservarono un sintomo non riconducibile all’avvelenamento: la febbre alta. Da ricordare che egli era da poco entrato in contatto con un malato di polmonite, l’ambasciatore Nopeleen, e l’amico Chaunut era appena guarito da una febbre alta. Quinto: Juan Mariana, che avrebbe giustificato l’uccisione «dell’infedele» con l’arsenico, era conosciuto per il suo «De rege et regis institutione», che però non parla di «infedeli» bensì di «tiranni». Mariana scriveva che sì, è lecito che il popolo chiami il re a rendere conto del suo comportamento quando provoca sofferenze nel popolo; bisogna tuttavia preservare la vita degli innocenti perché il tirannicida mette a rischio la sua anima. Dunque, nessuna giustificazione di omicidi a freddo. Da ricordare, poi, che il presunto avvelenatore confessò Cartesio sul letto di morte amministrandogli l’estrema unzione. In conclusione, e in attesa d’altre ricognizioni, il castello di suggestioni di Ebert non convince. Pare che sia stato affascinato soprattutto dall’immagine simbolica dell’ostia avvelenata e dalla romanzesca, terribile, duplicità del «personaggio» Vioguè. Da far impallidire i gesuiti di Dumas.
«Avvenire» del 12 novembre 2009
Nessun commento:
Posta un commento