Ha vinto la laicité de combat, ma intanto a Cambridge le studentesse islamiche possono laurearsi con indosso il burqa
di Giulio Meotti
Mentre gli alti magistrati della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, accogliendo il ricorso presentato da una cittadina italiana, stabilivano che la presenza dei crocefissi nelle aule scolastiche costituisce una violazione alla “libertà di religione degli alunni” e dei genitori, all’università inglese di Cambridge avveniva una rivoluzione epocale. Le studentesse musulmane potranno indossare il burqa talebano durante le cerimonie di laurea, quando per un millennio gli studenti erano obbligati a portare abiti scuri e camicia bianca. Tutto questo mentre in Egitto il ministro dell’Istruzione Yustri el Gamal ha deciso di riesumare una direttiva ministeriale per vietare nelle scuole pubbliche il velo. Già nel 2005 un giudice dell’Alta Corte britannica aveva stabilito il diritto di una bambina islamica di andare a scuola con la “jilbab”, la lunga mantella che scende dalla testa ai piedi e di gran moda nei regimi islamici fondamentalisti.
E’ alla luce del conflitto identitario in Europa che va letta la sentenza di Strasburgo. Il presidente della Corte che ha legiferato sul crocefisso in Italia è quel Jean-Paul Costa che nel 2003 testimoniò di fronte alla Commissione Stasi sul bando dei simboli religiosi in Francia. Costa disse che la Corte non si sarebbe opposta alla legge sulla laicità. Strasburgo è anche la città alsaziana da dove è partita la rivolta delle donne musulmane contro la legge che bandisce il velo a scuola. Fu proprio a Strasburgo che 17 allieve entrarono in aula con il capo coperto, violando la discussa legge francese. Una norma con cui si voleva scampare il pericolo di una repubblica frammentata, “communautaire” e divisa per ghetti, dove la comunità etnica o religiosa diventa rifugio.
La legge francese sui simboli religiosi incarna uno dei due modelli europei sulla libertà religiosa nello spazio pubblico. Accanto all’assimilazionismo francese e alla sua laicité de combat, c’è il famoso comunitarismo anglosassone, che alcuni chiamano indifferentismo, scivolato verso eccessi parossistici come a Cambridge. In paesi come Svizzera e Germania vige un regime di “neutralità secolare” e il bando del chador si applica soltanto agli insegnanti. In Danimarca, dove il luteranesimo è religione di stato, i simboli religiosi hanno domicilio nello spazio pubblico. E da febbraio anche gli imam possono chiamare alla preghiera a scuola. Il multiculturalismo olandese, incarnazione dell’idea dei “pilastri” uscita dalle guerre di religione, si è schiantato contro l’islamizzazione.
A Rotterdam, in una scuola pubblica a maggioranza musulmana, c’è una “stanza del silenzio” dove gli allievi musulmani possono isolarsi per pregare cinque volte al giorno, con un poster della Mecca, il Corano e un bagno rituale prima della preghiera. Nessun simbolo religioso nelle scuole pubbliche spagnole è quanto prevederà la nuova legge sulla libertà religiosa che il governo del premier socialista José Luis Zapatero prepara per l’autunno. Da Strasburgo a Madrid, è la laicità francese a dominare in Europa. Una ideologia che anche a distanza di tanti anni sta incrementando il proprio impatto sulla società. Il governo Sarkozy sta discutendo la possibilità di bandire il burqa. Il ministro per l’Immigrazione, l’ex socialista Eric Besson, dice no al burqa nei luoghi pubblici. Avrebbe ripercussioni eclatanti nel mondo islamico. Quando fu varata la legge sui simboli a scuola, piazze e strade del mondo arabo scandirono all’unisono: “Laicité = Terrorisme”. E in Iraq terroristi islamici minacciarono di giustiziare due giornalisti se la legge non fosse stata abrogata.
La sentenza di Strasburgo sancisce il primato di una laicità non inclusiva, che non punta a far convivere le diverse appartenenze religiose (o antireligiose) all’interno di una società in cui lo stato ha una funzione regolatrice. In Francia la laicità non è un carattere dello stato, cui i suoi ordinamenti si debbono conformare, ma una specie di ideologia di stato. Fra le singolari proposte della Commissione Stasi-Debray, raccolta dallo stesso presidente della Repubblica, c’è anche la redazione di un “codice del laicismo” che i funzionari pubblici dovrebbero sottoscrivere al momento della loro entrata in servizio. In nessun altro paese democratico o europeo ci si era mai posti l’obiettivo dell’adesione dei cittadini alla laicità. Era una delle caratteristiche dei regimi comunisti quando propagandavano l’ateismo di stato. Eppure la legge sulla laicità non ha certo risolto i conflitti intestini nella società francese. Prima della legge, nelle periferie parigine nessuno poteva mettersi la kippà in testa senza rischiare di incorrere in un’aggressione. La legge non ha impedito che l’antisemitismo islamico crescesse a Parigi.
L’Inghilterra ha scelto una strada diversa, apparentemente più rispettosa della libertà di religione, ma il suo secolarismo senza unghie non ha partorito nulla di buono. E’ l’Inghilterra delle ottanta corti della sharia, che operano a porte chiuse, senza garantire accesso a osservatori esterni e indipendenti, che sovvertono lo stato di diritto gloria della giurisprudenza britannica. Londra, con i suoi ghetti identitari, non può dare lezioni all’arrogante laicità francese. Se a Parigi l’artificio legalista sta frenando in qualche modo la cavalcata islamista, a Londra il miraggio della libertà religiosa avalutativa ha fatto sì che la sharia sta sovvertendo democrazia e creando le basi per un apartheid legale. Per questo, a ridosso della sentenza di Strasburgo, si pensa già a una terza via. Ma finora si sono registrati soltanto insuccessi.
E’ alla luce del conflitto identitario in Europa che va letta la sentenza di Strasburgo. Il presidente della Corte che ha legiferato sul crocefisso in Italia è quel Jean-Paul Costa che nel 2003 testimoniò di fronte alla Commissione Stasi sul bando dei simboli religiosi in Francia. Costa disse che la Corte non si sarebbe opposta alla legge sulla laicità. Strasburgo è anche la città alsaziana da dove è partita la rivolta delle donne musulmane contro la legge che bandisce il velo a scuola. Fu proprio a Strasburgo che 17 allieve entrarono in aula con il capo coperto, violando la discussa legge francese. Una norma con cui si voleva scampare il pericolo di una repubblica frammentata, “communautaire” e divisa per ghetti, dove la comunità etnica o religiosa diventa rifugio.
La legge francese sui simboli religiosi incarna uno dei due modelli europei sulla libertà religiosa nello spazio pubblico. Accanto all’assimilazionismo francese e alla sua laicité de combat, c’è il famoso comunitarismo anglosassone, che alcuni chiamano indifferentismo, scivolato verso eccessi parossistici come a Cambridge. In paesi come Svizzera e Germania vige un regime di “neutralità secolare” e il bando del chador si applica soltanto agli insegnanti. In Danimarca, dove il luteranesimo è religione di stato, i simboli religiosi hanno domicilio nello spazio pubblico. E da febbraio anche gli imam possono chiamare alla preghiera a scuola. Il multiculturalismo olandese, incarnazione dell’idea dei “pilastri” uscita dalle guerre di religione, si è schiantato contro l’islamizzazione.
A Rotterdam, in una scuola pubblica a maggioranza musulmana, c’è una “stanza del silenzio” dove gli allievi musulmani possono isolarsi per pregare cinque volte al giorno, con un poster della Mecca, il Corano e un bagno rituale prima della preghiera. Nessun simbolo religioso nelle scuole pubbliche spagnole è quanto prevederà la nuova legge sulla libertà religiosa che il governo del premier socialista José Luis Zapatero prepara per l’autunno. Da Strasburgo a Madrid, è la laicità francese a dominare in Europa. Una ideologia che anche a distanza di tanti anni sta incrementando il proprio impatto sulla società. Il governo Sarkozy sta discutendo la possibilità di bandire il burqa. Il ministro per l’Immigrazione, l’ex socialista Eric Besson, dice no al burqa nei luoghi pubblici. Avrebbe ripercussioni eclatanti nel mondo islamico. Quando fu varata la legge sui simboli a scuola, piazze e strade del mondo arabo scandirono all’unisono: “Laicité = Terrorisme”. E in Iraq terroristi islamici minacciarono di giustiziare due giornalisti se la legge non fosse stata abrogata.
La sentenza di Strasburgo sancisce il primato di una laicità non inclusiva, che non punta a far convivere le diverse appartenenze religiose (o antireligiose) all’interno di una società in cui lo stato ha una funzione regolatrice. In Francia la laicità non è un carattere dello stato, cui i suoi ordinamenti si debbono conformare, ma una specie di ideologia di stato. Fra le singolari proposte della Commissione Stasi-Debray, raccolta dallo stesso presidente della Repubblica, c’è anche la redazione di un “codice del laicismo” che i funzionari pubblici dovrebbero sottoscrivere al momento della loro entrata in servizio. In nessun altro paese democratico o europeo ci si era mai posti l’obiettivo dell’adesione dei cittadini alla laicità. Era una delle caratteristiche dei regimi comunisti quando propagandavano l’ateismo di stato. Eppure la legge sulla laicità non ha certo risolto i conflitti intestini nella società francese. Prima della legge, nelle periferie parigine nessuno poteva mettersi la kippà in testa senza rischiare di incorrere in un’aggressione. La legge non ha impedito che l’antisemitismo islamico crescesse a Parigi.
L’Inghilterra ha scelto una strada diversa, apparentemente più rispettosa della libertà di religione, ma il suo secolarismo senza unghie non ha partorito nulla di buono. E’ l’Inghilterra delle ottanta corti della sharia, che operano a porte chiuse, senza garantire accesso a osservatori esterni e indipendenti, che sovvertono lo stato di diritto gloria della giurisprudenza britannica. Londra, con i suoi ghetti identitari, non può dare lezioni all’arrogante laicità francese. Se a Parigi l’artificio legalista sta frenando in qualche modo la cavalcata islamista, a Londra il miraggio della libertà religiosa avalutativa ha fatto sì che la sharia sta sovvertendo democrazia e creando le basi per un apartheid legale. Per questo, a ridosso della sentenza di Strasburgo, si pensa già a una terza via. Ma finora si sono registrati soltanto insuccessi.
«Il Foglio» del 5 novembre 2009
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