12 giugno 2010

Tra dogmatismo e fallibilismo

Quando la scienza si arrocca su un certo paradigma, magari per difendere posizioni di potere acquisite, escludendo come pazzo o eretico chi lo contesta, si comporta in modo dogmatico
di Umberto Eco
Sul "Corriere della sera" di domenica scorsa Angelo Panebianco scriveva sui possibili dogmatismi della scienza. Sono fondamentalmente d'accordo con lui e vorrei solo mettere in evidenza un altro aspetto della questione.
Dice in sintesi Panebianco che la scienza è per definizione antidogmatica, perché sa di procedere per tentativi ed errori e perché (aggiungerei con Peirce, che ha ispirato Popper) il suo principio implicito è quello del "fallibilismo", per cui sta sempre all'erta nel correggere i propri sbagli. Essa diventa dogmatica nelle sue fatali semplificazioni giornalistiche, che trasformano in scoperta miracolistica e verità assodata quelle che erano solo caute ipotesi di ricerca. Ma rischia anche di diventare dogmatica quando accetta un criterio inevitabile, e cioè che la cultura di un'epoca sia dominata da un "paradigma", come non solo quelli darwiniano o einsteiniano, ma anche quello copernicano, a cui ogni scienziato si attiene proprio per espungere le follie di chi si muove al di fuori di esso, compresi i matti che ancora sostengono che il sole gira intorno alla terra. Come la mettiamo col fatto che l'innovazione avviene proprio quando qualcuno riesce a mettere in questione il paradigma dominante? Quando la scienza si arrocca su un certo paradigma, magari per difendere posizioni di potere acquisite, escludendo come pazzo o eretico chi lo contesta, non si comporta in modo dogmatico?
La questione è drammatica. I paradigmi vanno sempre difesi o sempre contestati? Ora una cultura (intesa come sistema di saperi, opinioni, credenze, costumi, eredità storica condivisi da un gruppo umano particolare) non è solo un accumulo di dati, è anche il risultato del loro filtraggio. La cultura è anche capacità di buttar via ciò che non è utile o necessario. La storia della cultura e della civiltà è fatta di tonnellate di informazioni che sono state seppellite. Vale per una cultura quello che vale per la nostra vita individuale.
Borges ha scritto la novella "Funes el memorioso" dove racconta di un personaggio che ricorda tutto, ogni foglia che ha visto su ogni albero, ogni parola che ha udito nel corso della sua vita, ogni refolo di vento che ha avvertito, ogni sapore che ha assaporato, ogni frase che ha letto. Eppure (anzi, proprio per questo) Funes è un completo idiota, un uomo bloccato dalla sua incapacità di selezionare e di buttare via. Il nostro inconscio funziona perché butta via. Poi, se c'è qualche inghippo, si va dallo psicoanalista per recuperare quel poco che serviva e che per sbaglio abbiamo buttato via. Ma tutto il resto per fortuna è stato eliminato e la nostra anima è esattamente il prodotto della continuità di questa memoria selezionata. Se avessimo l'anima di Funes saremmo persone senz'anima.
Così fa una cultura e l'insieme dei suoi paradigmi è il risultato dell'Enciclopedia condivisa, fatta non solo di ciò che si è conservato ma anche, per così dire, del tabù su ciò che si è eliminato. In base a questa enciclopedia comune poi si discute. Ma perché ci possa essere discussione comprensibile da tutti occorre partire dai paradigmi esistenti, se non altro per dimostrare che essi non tengono più. Senza la negazione del paradigma tolemaico, che rimaneva di sfondo, il discorso di Copernico sarebbe rimasto incomprensibile.
Ora Internet è come Funes. Come totalità di contenuti disponibili in modo disordinato, non filtrato e non organizzato, esso permette a ciascuno di costruirsi una propria enciclopedia, ovvero il proprio libero sistema di credenze, nozioni e valori, in cui possono essere compresenti, come accade nella testa di molti esseri umani, sia l'idea che l'acqua sia H2O sia quella che il sole giri intorno alla terra. In teoria, quindi, si potrebbe arrivare all'esistenza di sei miliardi di enciclopedie differenti e la società umana si ridurrebbe al dialogo frantumato di sei miliardi di persone ciascuna delle quali parla una lingua diversa, che solo chi sta parlando capisce.
L'ipotesi è per fortuna solo teorica, ma lo è proprio perché la comunità scientifica vigila affinché circolino linguaggi comuni, sapendo che per rovesciare un paradigma è necessario che ci sia un paradigma da rovesciare. Difendere i paradigmi provoca certamente il rischio del dogmatismo ma è su questa contraddizione che si basa lo sviluppo del sapere. Per evitare conclusioni affrettate concordo con ciò che diceva lo scienziato citato in fine da Panebianco: "Non so, è un fenomeno complesso, devo studiarlo".
«L'Espresso» del 10 giugno 2010

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