di Alessandro Gnocchi
Nel giorno in cui i sindacati (a parte la Fiom, pronta allo sciopero) firmano con la Fiat un accordo che cambia il mondo del lavoro, aprendo prospettive inedite, forse capaci di indicare una via d’uscita dalla crisi economica, c’è chi invita i ragazzi a emigrare. L’Italia è senza futuro, andate in pace (all’estero). Anche il Corriere della Sera, con un editoriale in prima pagina di Giovanni Belardelli, si unisce al coro, sia pure con maggiore equilibrio rispetto ad altri.
Le voci allarmate, comunque, risuonano più alte quando il discorso cade su scuola e università. L’esortazione ai giovani ricercatori affinché si trasferiscano all’estero, con la variante della compassione paternalistica per chi è ancora tra noi, sta diventando un genere giornalistico. Un po’ retorico e un po’ strumentale. Il sottinteso, infatti, è quasi sempre lo stesso: la destra se ne sbatte della cultura e vuole fare tabula rasa, privando i volenterosi del sostegno indispensabile a realizzare i propri sogni.
Per carità, non è che gli oratori abbiano tutti i torti. L’università, dalle nostre parti, è ingessata. Chi vuole fare carriera negli atenei si deve rassegnare a una umiliante trafila che prevede la partecipazione a concorsi dal risultato troppo spesso scontato. Il merito, senza adeguata protezione di un professore che abbia la forza di tutelarlo, non è sufficiente. Talvolta neppure necessario. Quanto ai fondi destinati alla ricerca, sono scarsi, è vero. Ma anche e soprattutto in virtù dell’inefficienza manageriale delle istituzioni accademiche, della moltiplicazione di corsi fantasma, della sostanziale chiusura verso i privati, della mancata valutazione dei risultati conseguiti o mancati. Non sarà che i cervelli fuggono a causa di queste decennali carenze strutturali?
Chi contesta nelle piazze, e si sente «condannato» all’espatrio, sogna che lo Stato possa pagare tutto a tutti. Opzione irrealistica visto il numero (alto) di laureandi, le tasse d’iscrizione (basse), la mancanza di soldi. La riforma Gelmini intende intervenire su questi dati di fatto, che gli scalatori di monumenti stranamente non prendono mai in considerazione. Anzi, a proposito di merito, gli studenti manifestano col sostegno degli stessi baroni che un giorno, forse, li bocceranno in favore di un allievo magari meno capace ma inserito nella cordata giusta. Sarà quest’ultimo a godere delle poche risorse mentre il suo «sponsor» in ermellino crescerà di prestigio andando a ingessare ulteriormente il sistema.
Vista la situazione, è impensabile poter competere con altri Paesi in alcuni settori (penso a esempio a tutte le discipline che hanno ricadute tecnologiche). Negli Stati Uniti, però, la bontà di un docente si misura anche dalla capacità di attirare fondi privati. E l’erogazione di fondi pubblici è vincolata alla bravura nello stabilire sinergie con industrie e fondazioni. Impossibile da noi: si scatenerebbe subito un interminabile dibattito sulla indipendenza della ricerca e sulla deriva aziendalistica del sapere. Prima di andare all’estero, convinti di essere perseguitati da un governo infame, bisognerebbe avere l’umiltà di imparare a non dire «no» a qualsiasi tentativo di riforma.
Tra l’altro, la continuamente evocata qualità superiore degli atenei stranieri in qualche caso è da dimostrare. Se parliamo di materie umanistiche, le nostre facoltà, pur seriamente provate dal tre più due che penalizza i corsi specialistici, hanno nulla da invidiare a quelle estere. Dai Paesi anglosassoni arrivano tonnellate di riviste contenenti saggi specialistici sulla storia o sulla letteratura italiana. Con le dovute eccezioni sono quasi sempre inutili: da noi sarebbero spunti per mediocri tesi di laurea. A quanto pare, i risultati non sono migliori quando gli studiosi d’oltreoceano si concentrano sugli scrittori di casa loro. Harold Bloom, docente a Yale, considerato il maggior critico vivente, descrive così l’andazzo degli atenei a stelle e strisce: «Gli studi letterari, filologici sono stati sostituiti dalle incredibili assurdità dei “cultural studies” (che interpretano ogni testo alla luce di categorie sociologiche come razzismo, etnicità e femminismo, ndr). Beh, non hanno niente a che vedere né con la cultura né con lo studio. Esprimono solo l’arroganza dei semi-colti. E questo accade perfino in università dai robusti anticorpi come Yale».
Le voci allarmate, comunque, risuonano più alte quando il discorso cade su scuola e università. L’esortazione ai giovani ricercatori affinché si trasferiscano all’estero, con la variante della compassione paternalistica per chi è ancora tra noi, sta diventando un genere giornalistico. Un po’ retorico e un po’ strumentale. Il sottinteso, infatti, è quasi sempre lo stesso: la destra se ne sbatte della cultura e vuole fare tabula rasa, privando i volenterosi del sostegno indispensabile a realizzare i propri sogni.
Per carità, non è che gli oratori abbiano tutti i torti. L’università, dalle nostre parti, è ingessata. Chi vuole fare carriera negli atenei si deve rassegnare a una umiliante trafila che prevede la partecipazione a concorsi dal risultato troppo spesso scontato. Il merito, senza adeguata protezione di un professore che abbia la forza di tutelarlo, non è sufficiente. Talvolta neppure necessario. Quanto ai fondi destinati alla ricerca, sono scarsi, è vero. Ma anche e soprattutto in virtù dell’inefficienza manageriale delle istituzioni accademiche, della moltiplicazione di corsi fantasma, della sostanziale chiusura verso i privati, della mancata valutazione dei risultati conseguiti o mancati. Non sarà che i cervelli fuggono a causa di queste decennali carenze strutturali?
Chi contesta nelle piazze, e si sente «condannato» all’espatrio, sogna che lo Stato possa pagare tutto a tutti. Opzione irrealistica visto il numero (alto) di laureandi, le tasse d’iscrizione (basse), la mancanza di soldi. La riforma Gelmini intende intervenire su questi dati di fatto, che gli scalatori di monumenti stranamente non prendono mai in considerazione. Anzi, a proposito di merito, gli studenti manifestano col sostegno degli stessi baroni che un giorno, forse, li bocceranno in favore di un allievo magari meno capace ma inserito nella cordata giusta. Sarà quest’ultimo a godere delle poche risorse mentre il suo «sponsor» in ermellino crescerà di prestigio andando a ingessare ulteriormente il sistema.
Vista la situazione, è impensabile poter competere con altri Paesi in alcuni settori (penso a esempio a tutte le discipline che hanno ricadute tecnologiche). Negli Stati Uniti, però, la bontà di un docente si misura anche dalla capacità di attirare fondi privati. E l’erogazione di fondi pubblici è vincolata alla bravura nello stabilire sinergie con industrie e fondazioni. Impossibile da noi: si scatenerebbe subito un interminabile dibattito sulla indipendenza della ricerca e sulla deriva aziendalistica del sapere. Prima di andare all’estero, convinti di essere perseguitati da un governo infame, bisognerebbe avere l’umiltà di imparare a non dire «no» a qualsiasi tentativo di riforma.
Tra l’altro, la continuamente evocata qualità superiore degli atenei stranieri in qualche caso è da dimostrare. Se parliamo di materie umanistiche, le nostre facoltà, pur seriamente provate dal tre più due che penalizza i corsi specialistici, hanno nulla da invidiare a quelle estere. Dai Paesi anglosassoni arrivano tonnellate di riviste contenenti saggi specialistici sulla storia o sulla letteratura italiana. Con le dovute eccezioni sono quasi sempre inutili: da noi sarebbero spunti per mediocri tesi di laurea. A quanto pare, i risultati non sono migliori quando gli studiosi d’oltreoceano si concentrano sugli scrittori di casa loro. Harold Bloom, docente a Yale, considerato il maggior critico vivente, descrive così l’andazzo degli atenei a stelle e strisce: «Gli studi letterari, filologici sono stati sostituiti dalle incredibili assurdità dei “cultural studies” (che interpretano ogni testo alla luce di categorie sociologiche come razzismo, etnicità e femminismo, ndr). Beh, non hanno niente a che vedere né con la cultura né con lo studio. Esprimono solo l’arroganza dei semi-colti. E questo accade perfino in università dai robusti anticorpi come Yale».
«A» del gennaio 2011
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