Il Don Chisciotte apocrifo scandalizzò la Spagna del ’600. E ora è al centro di un giallo con luci e ombre
di Stenio Solinas
Nella battaglia di Lepanto era stato un eroe, ed eroica era stata poi la sua prigionia in Algeri sotto il Turco: tentate evasioni a catena e catene ai piedi, sempre a difendere gli sfortunati compagni di fuga e ad assumere su di sé ogni colpa. Era un hidalgo, Cervantes, ma al suo ritorno in patria la patria gli si era rivelata amara. Impieghi mediocri, ambienti torbidi, pasticci economici, di nuovo la galera, e per debiti neppure suoi, ma di un banchiere che lo aveva lasciato nella merda... Era lì che aveva cominciato a scrivere il Don Chisciotte e anni dopo, ancora dentro una cella, l’ennesima, aveva festeggiato l’uscita del primo volume. C’era finito per le tresche sentimentali della figlia, amante di un uomo sposato e sospettata, ingiustamente, di essere complice nell’assassinio di un altro cavaliere. Le donne di casa Cervantes, esclusa la madre e la moglie, avevano spesso brillato per il loro sesso libero e insieme mercenario: una sorella sedotta e abbandonata, una zia che se la faceva con un arcidiacono...
Nella Spagna secentesca, gli scrittori erano questa cosa qui, angeli con la faccia sporca, costretti a mendicare favori, a scrivere dediche riverenti e ferventi al signore di turno, a fare la fame in assenza di un protettore. Era in buona compagnia, Cervantes: Lope de Vega era un prete erotomane, Quevedo una spia e un maniaco dei duelli, il più giovane Calderón de la Barca a nemmeno vent’anni aveva già infilzato un servo con la spada. Ma in fondo era la Spagna tutta a essere questa cosa qui, l’alto e il basso della sua nobiltà e del suo popolo, sprezzature aristocratiche, sussieghi, pompe, magnificenze, strade sporche, osterie fetide, miseria, pícari, gente di malavita. E soldati di ventura, naturalmente. Si andava sotto le armi per fuggire un’accusa d’omicidio, schivare una vendetta, un problema economico, inventarsi un mestiere. C’era tutta l’Europa a disposizione, perché nel bene e nel male la Spagna era l’Europa stessa, il risultato finale di un impero dove sino ad allora non aveva mai tramontato il sole e che ora cominciava a vederne l’eclisse, una lunga, fosca e torbida decadenza che ne avrebbe fatto il tragico, ridicolo fantasma della grandezza passata.
Ladri di inchiostro di Alfonso Mateo-Sagasta (Tropea, pagg. 560, euro 20) racconta proprio questo, l’estate del 1614 nella quale sta cambiando il vento dell’Impero, Madrid pullula di soldati che in attesa delle armi si crogiolano nell’ozio, il duca di Savoia minaccia il territorio spagnolo di Milano, nel sud Italia iniziano le manovre per la successione che di lì a pochi anni vedrà il potente conte di Olivares farsi garante del giovane Filippo IV. È l’estate in cui un certo Alonso Fernández de Avellaneda pubblica un romanzo spacciandolo per la seconda parte del Don Chisciotte cervantesco uscito dieci anni prima con grande successo e nel prologo infama lo scrittore: finto guerriero in battaglia, vero sodomita in carcere, è l’insinuazione. Ma chi è veramente de Avellaneda? Chi si nasconde dietro quel nome che si scopre falso? Un antico compagno di galera di Cervantes che lo ha sempre odiato, un giovane ambizioso che lo vuole derubare della sua gloria, un collega illustre, Alarcón, Lope de Vega, Tirso de Molina, che vuole regolare così qualche conto letterario? Su quello che è un fatto vero, Mateo-Sagasta costruisce il romanzo di una ricerca, una sorta di indagine poliziesca affidata a Isidoro Montemayor, un tirapiedi dell’editore Robles, l’uomo che da anni attende da Cervantes il seguito dell’opera. Anche il giovane Isidoro è già stato soldato, si ritiene un hidalgo, ma non ha i documenti che lo attestano, nutre velleità di scrittore e intanto si arrabatta come gazzettiere, vive ai margini fra ricchezza e povertà, e insomma è un concentrato dello spirito del proprio tempo.
Abile nel ricostruire il clima dell’epoca, con una buona padronanza della realtà culturale del tempo, Mateo-Sagasta lo è meno nella resa dei caratteri e lo stesso Montemayor, io narrante del romanzo, non riesce a imporsi al lettore. È un po’ il limite di molti romanzi storici oggi in circolazione e in gran voga, ricchi di dettagli e di informazioni, ma, come dire, senza cuore.
Nel suo Commento alla vita di Don Chisciotte, Miguel de Unamuno scriverà che nell’opera di Cervantes a parlare «è la volontà, non l’intelletto e “so io chi sono!” non ha altro significato che questo: “Io so chi voglio essere!”». Scritto all’inizio del ’900, quando la Spagna era ormai una «nazione invertebrata», il Commento faceva del «chisciottesco» «il nostro cristianesimo. La nostra patria non avrà agricoltura, né industria, né commercio, finché non lo avremo scoperto. Non avremo vista esteriore potente e splendida, forte e gloriosa, finché non avremo acceso nel cuore del nostro popolo il fuoco delle eterne inquietudini. Non si può essere ricchi vivendo di menzogne, e la menzogna è invece il pane quotidiano del nostro spirito».
Lì dove una certa tradizione letteraria si era accontentata di vedere il lato comico, Unamuno rovescerà le carte per coglierne la grandezza tragica. «In un’opera burlesca si riassume e si compendia la filosofia spagnola, l’unica veramente e profondamente tale; con un’opera burlesca l’anima del tuo popolo, incarnata in un uomo, si sprofondò negli abissi del mistero della vita. E quell’opera burlesca è la storia più triste che mai sia stata scritta; la più triste e insieme la più consolatrice per quanti sanno gustare nelle lacrime del riso la redenzione dalla miserabile saviezza cui ci condanna la schiavitù della vita presente». Nella follia di Don Chisciotte c’era la verità dell’hidalgo Cervantes, sconfitto nel suo combattere contro i mulini a vento della vita, vittorioso nel suo voler tener fede alla grandezza.
Nella Spagna secentesca, gli scrittori erano questa cosa qui, angeli con la faccia sporca, costretti a mendicare favori, a scrivere dediche riverenti e ferventi al signore di turno, a fare la fame in assenza di un protettore. Era in buona compagnia, Cervantes: Lope de Vega era un prete erotomane, Quevedo una spia e un maniaco dei duelli, il più giovane Calderón de la Barca a nemmeno vent’anni aveva già infilzato un servo con la spada. Ma in fondo era la Spagna tutta a essere questa cosa qui, l’alto e il basso della sua nobiltà e del suo popolo, sprezzature aristocratiche, sussieghi, pompe, magnificenze, strade sporche, osterie fetide, miseria, pícari, gente di malavita. E soldati di ventura, naturalmente. Si andava sotto le armi per fuggire un’accusa d’omicidio, schivare una vendetta, un problema economico, inventarsi un mestiere. C’era tutta l’Europa a disposizione, perché nel bene e nel male la Spagna era l’Europa stessa, il risultato finale di un impero dove sino ad allora non aveva mai tramontato il sole e che ora cominciava a vederne l’eclisse, una lunga, fosca e torbida decadenza che ne avrebbe fatto il tragico, ridicolo fantasma della grandezza passata.
Ladri di inchiostro di Alfonso Mateo-Sagasta (Tropea, pagg. 560, euro 20) racconta proprio questo, l’estate del 1614 nella quale sta cambiando il vento dell’Impero, Madrid pullula di soldati che in attesa delle armi si crogiolano nell’ozio, il duca di Savoia minaccia il territorio spagnolo di Milano, nel sud Italia iniziano le manovre per la successione che di lì a pochi anni vedrà il potente conte di Olivares farsi garante del giovane Filippo IV. È l’estate in cui un certo Alonso Fernández de Avellaneda pubblica un romanzo spacciandolo per la seconda parte del Don Chisciotte cervantesco uscito dieci anni prima con grande successo e nel prologo infama lo scrittore: finto guerriero in battaglia, vero sodomita in carcere, è l’insinuazione. Ma chi è veramente de Avellaneda? Chi si nasconde dietro quel nome che si scopre falso? Un antico compagno di galera di Cervantes che lo ha sempre odiato, un giovane ambizioso che lo vuole derubare della sua gloria, un collega illustre, Alarcón, Lope de Vega, Tirso de Molina, che vuole regolare così qualche conto letterario? Su quello che è un fatto vero, Mateo-Sagasta costruisce il romanzo di una ricerca, una sorta di indagine poliziesca affidata a Isidoro Montemayor, un tirapiedi dell’editore Robles, l’uomo che da anni attende da Cervantes il seguito dell’opera. Anche il giovane Isidoro è già stato soldato, si ritiene un hidalgo, ma non ha i documenti che lo attestano, nutre velleità di scrittore e intanto si arrabatta come gazzettiere, vive ai margini fra ricchezza e povertà, e insomma è un concentrato dello spirito del proprio tempo.
Abile nel ricostruire il clima dell’epoca, con una buona padronanza della realtà culturale del tempo, Mateo-Sagasta lo è meno nella resa dei caratteri e lo stesso Montemayor, io narrante del romanzo, non riesce a imporsi al lettore. È un po’ il limite di molti romanzi storici oggi in circolazione e in gran voga, ricchi di dettagli e di informazioni, ma, come dire, senza cuore.
Nel suo Commento alla vita di Don Chisciotte, Miguel de Unamuno scriverà che nell’opera di Cervantes a parlare «è la volontà, non l’intelletto e “so io chi sono!” non ha altro significato che questo: “Io so chi voglio essere!”». Scritto all’inizio del ’900, quando la Spagna era ormai una «nazione invertebrata», il Commento faceva del «chisciottesco» «il nostro cristianesimo. La nostra patria non avrà agricoltura, né industria, né commercio, finché non lo avremo scoperto. Non avremo vista esteriore potente e splendida, forte e gloriosa, finché non avremo acceso nel cuore del nostro popolo il fuoco delle eterne inquietudini. Non si può essere ricchi vivendo di menzogne, e la menzogna è invece il pane quotidiano del nostro spirito».
Lì dove una certa tradizione letteraria si era accontentata di vedere il lato comico, Unamuno rovescerà le carte per coglierne la grandezza tragica. «In un’opera burlesca si riassume e si compendia la filosofia spagnola, l’unica veramente e profondamente tale; con un’opera burlesca l’anima del tuo popolo, incarnata in un uomo, si sprofondò negli abissi del mistero della vita. E quell’opera burlesca è la storia più triste che mai sia stata scritta; la più triste e insieme la più consolatrice per quanti sanno gustare nelle lacrime del riso la redenzione dalla miserabile saviezza cui ci condanna la schiavitù della vita presente». Nella follia di Don Chisciotte c’era la verità dell’hidalgo Cervantes, sconfitto nel suo combattere contro i mulini a vento della vita, vittorioso nel suo voler tener fede alla grandezza.
«Il Giornale» del 7 giugno 2010
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