Fu lo scozzese James Dennistoun a diffondere nel mondo anglosassone il mito della «rifioritura» dopo i «secoli bui». Con un saggio che ora esce in italiano
s. i. a.
Secondo un’ingenua aporia del pensiero progressista, la storiografia è una scienza razionale governata da immutabili assiomi. Ne deriva l’immagine di un processo storico come sistema di cause-effetti, ove ogni dispositivo causale trae origine da un altro, a partire però da un necessario inizio evidentemente non spiegato. Allo storico spetterebbe quindi solo il compito di registrare gli accadimenti attraverso la lente dei fattori socio-economici. La realtà sembra però rappresentare l’esatto contrario: gli eventi non discendono dalla società e dall’economia, ma le sospingono con discontinuità. Così anche le tradizioni e i miti, inconsapevolmente innescati, appaiono come il risultato di un’«invenzione» che le condizioni al contorno hanno consentito poi di reiterare.
È il caso del «mito» del Rinascimento italiano, edificato nel XIX secolo grazie alle opere di alcuni intellettuali imbevuti di positivismo ed estetismo romantico. In Francia Jules Michelet propone l’immagine di un Rinascimento fondato su eroici ideali di libertà e dominio dell’uomo sul mondo. Ancora più celebre è l’immagine offerta in ambiente germanico da Jacob Burckhardt con La civiltà del Rinascimento in Italia (1860) basata sui concetti di «individualismo» e «modernità». Questo mito prospera ancor oggi, favorendo l’interpretazione del medioevo come «periodo buio» e prestando il fianco a letture marxiste che vedono nel Rinascimento una tappa importante nella storia della lotta di classe o, in casi diametralmente opposti, a sogni estetizzanti di «porpora e oro».
Questo mito ha però origine nel mondo anglosassone, affascinato dall’Italia fin dai tempi di Shakespeare e favorito dalla conoscenza diretta che nel Settecento, grazie al grand tour, si era avuta dei paesaggi e delle architetture della Penisola. Si può dire esista anche una data precisa, il 1825, quando passa le Alpi un giovane scozzese: sir James Dennistoun (1803-1855). Si innamora dell’Italia, trascorrendoci dodici anni, viaggiando, raccogliendo opere d’arte, studiando manoscritti e libri antichi in palazzi, canoniche e archivi. Tornato in Inghilterra, condensa in un’unica mastodontica opera (tre volumi, per quasi duemila pagine) tutta la sua conoscenza della cultura e della storia di quel Rinascimento che tanto lo aveva affascinato: le Memoirs of the Dukes of Urbino 1440-1630 (1851). Attraverso la narrazione delle vicende dei Montefeltro e dei Della Rovere, Dennistoun riepiloga, in un’accumulazione senza fine, tutta la parabola del Rinascimento, soffermandosi non solo sulle vicende storiche, ma aprendo ampie digressioni letterarie, artistiche ed economiche.
Ancora oggi guardato in patria come grande esperto d’arte, Dennistoun individua in una città, Urbino, il centro simbolico del mito. È la Urbino di Federico di Montefeltro e di suo figlio Guidobaldo, di Raffaello e di Francesco Maria II della Rovere. Ma è soprattutto la Urbino del Cortegiano di Baldassarre Castiglione, un testo fondante la cultura europea, ad affascinare Dennistoun. Nelle sue pagine Il cortegiano trasfigura l’immagine della corte urbinate portandola a esempio di un mondo ormai perduto di élitaria bellezza e sofisticata cultura. Dalla seconda metà dell’Ottocento, con l’imborghesimento del grand tour, turbe di sudditi di Sua maestà britannica invadono l’Italia. Imbevuti di preraffaellitismo, si aggirano fra Toscana, Marche, Umbria e Lazio usando il testo di Dennistoun alla stregua di un Baedeker, alla ricerca delle vestigia del grande mito rinascimentale.
Eppure (tranne un tentativo a fine Ottocento, subito arenato) le Memorie non erano mai state tradotte in italiano. Forse a causa dell’imponente mole, più probabilmente per la difficoltà di correggere le numerose inesattezze che costellano il testo di Dennistoun. A oltre un secolo e mezzo di distanza la lacuna è stata colmata: Le memorie del duchi di Urbino (edito da QuattroVenti di Urbino, in tre volumi, pagg. 1.576, euro 60) vedono finalmente la luce in Italia. L’edizione, curata da Giorgio Nonni, ha emendato sviste ed errori, ha completato citazioni parziali o difettose rintracciando e riscontrando i documenti e i testi citati da Dennistoun. Un lavoro certosino durato quattro anni (e culminato nella doppia lettura dei 23mila versi della Cronaca rimata di Giovanni Santi) che ha portato il testo del mito ad avere ora anche un valore scientifico. Come nota Nonni, «le Memorie sono un’opera dai molteplici piani ermeneutici: libro di storia, guida di viaggio, manuale d’arte, narrazione autobiografica; un testo variegato, colto e seducente».
Dennistoun «prigioniero del fascino di Urbino - come scrive Franco Cardini nella prefazione - del sogno della perfezione, della vita come opera d’arte» non vedrà il frutto del suo lavoro. Circondato, nella sua residenza scozzese, dalle centinaia di opere d’arte acquistate in Italia (disperse poi dagli eredi durante una memorabile tornata d’aste) muore nel 1855. Nello stesso anno Jules Michelet pubblica Rinascimento e Riforma. Quella che per Dennistoun era ancora storia stava diventando mito.
Il volume sarà presentato a Urbino sabato 19 giugno, alle ore 10.30, nel Salone del Trono di Palazzo Ducale. Il curatore dell’opera, Giorgio Nonni, ne parlerà con Franco Cardini e Stefano Pivato (storico e rettore dell’università di Urbino).
È il caso del «mito» del Rinascimento italiano, edificato nel XIX secolo grazie alle opere di alcuni intellettuali imbevuti di positivismo ed estetismo romantico. In Francia Jules Michelet propone l’immagine di un Rinascimento fondato su eroici ideali di libertà e dominio dell’uomo sul mondo. Ancora più celebre è l’immagine offerta in ambiente germanico da Jacob Burckhardt con La civiltà del Rinascimento in Italia (1860) basata sui concetti di «individualismo» e «modernità». Questo mito prospera ancor oggi, favorendo l’interpretazione del medioevo come «periodo buio» e prestando il fianco a letture marxiste che vedono nel Rinascimento una tappa importante nella storia della lotta di classe o, in casi diametralmente opposti, a sogni estetizzanti di «porpora e oro».
Questo mito ha però origine nel mondo anglosassone, affascinato dall’Italia fin dai tempi di Shakespeare e favorito dalla conoscenza diretta che nel Settecento, grazie al grand tour, si era avuta dei paesaggi e delle architetture della Penisola. Si può dire esista anche una data precisa, il 1825, quando passa le Alpi un giovane scozzese: sir James Dennistoun (1803-1855). Si innamora dell’Italia, trascorrendoci dodici anni, viaggiando, raccogliendo opere d’arte, studiando manoscritti e libri antichi in palazzi, canoniche e archivi. Tornato in Inghilterra, condensa in un’unica mastodontica opera (tre volumi, per quasi duemila pagine) tutta la sua conoscenza della cultura e della storia di quel Rinascimento che tanto lo aveva affascinato: le Memoirs of the Dukes of Urbino 1440-1630 (1851). Attraverso la narrazione delle vicende dei Montefeltro e dei Della Rovere, Dennistoun riepiloga, in un’accumulazione senza fine, tutta la parabola del Rinascimento, soffermandosi non solo sulle vicende storiche, ma aprendo ampie digressioni letterarie, artistiche ed economiche.
Ancora oggi guardato in patria come grande esperto d’arte, Dennistoun individua in una città, Urbino, il centro simbolico del mito. È la Urbino di Federico di Montefeltro e di suo figlio Guidobaldo, di Raffaello e di Francesco Maria II della Rovere. Ma è soprattutto la Urbino del Cortegiano di Baldassarre Castiglione, un testo fondante la cultura europea, ad affascinare Dennistoun. Nelle sue pagine Il cortegiano trasfigura l’immagine della corte urbinate portandola a esempio di un mondo ormai perduto di élitaria bellezza e sofisticata cultura. Dalla seconda metà dell’Ottocento, con l’imborghesimento del grand tour, turbe di sudditi di Sua maestà britannica invadono l’Italia. Imbevuti di preraffaellitismo, si aggirano fra Toscana, Marche, Umbria e Lazio usando il testo di Dennistoun alla stregua di un Baedeker, alla ricerca delle vestigia del grande mito rinascimentale.
Eppure (tranne un tentativo a fine Ottocento, subito arenato) le Memorie non erano mai state tradotte in italiano. Forse a causa dell’imponente mole, più probabilmente per la difficoltà di correggere le numerose inesattezze che costellano il testo di Dennistoun. A oltre un secolo e mezzo di distanza la lacuna è stata colmata: Le memorie del duchi di Urbino (edito da QuattroVenti di Urbino, in tre volumi, pagg. 1.576, euro 60) vedono finalmente la luce in Italia. L’edizione, curata da Giorgio Nonni, ha emendato sviste ed errori, ha completato citazioni parziali o difettose rintracciando e riscontrando i documenti e i testi citati da Dennistoun. Un lavoro certosino durato quattro anni (e culminato nella doppia lettura dei 23mila versi della Cronaca rimata di Giovanni Santi) che ha portato il testo del mito ad avere ora anche un valore scientifico. Come nota Nonni, «le Memorie sono un’opera dai molteplici piani ermeneutici: libro di storia, guida di viaggio, manuale d’arte, narrazione autobiografica; un testo variegato, colto e seducente».
Dennistoun «prigioniero del fascino di Urbino - come scrive Franco Cardini nella prefazione - del sogno della perfezione, della vita come opera d’arte» non vedrà il frutto del suo lavoro. Circondato, nella sua residenza scozzese, dalle centinaia di opere d’arte acquistate in Italia (disperse poi dagli eredi durante una memorabile tornata d’aste) muore nel 1855. Nello stesso anno Jules Michelet pubblica Rinascimento e Riforma. Quella che per Dennistoun era ancora storia stava diventando mito.
Il volume sarà presentato a Urbino sabato 19 giugno, alle ore 10.30, nel Salone del Trono di Palazzo Ducale. Il curatore dell’opera, Giorgio Nonni, ne parlerà con Franco Cardini e Stefano Pivato (storico e rettore dell’università di Urbino).
«Il Giornale» del 7 giugno 2010
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