Il museo di Rivoli riapre con mostre e iniziative che vogliono superare il vecchio ed elitario concetto di avanguardia. E spunta una rassegna dedicata agli outsider come Emilio Villa e Amelia Rosselli
di Luca Beatrice
Quando aprì nel lontano 1984 fu una rivoluzione epocale nel sistema dell’arte. A quel tempo non esistevano in Italia i musei d’arte contemporanea e le ricerche più sperimentali venivano ospitate negli spazi delle gallerie civiche o in quelle private. Fu una grande intuizione quella di ristrutturare un edificio militare settecentesco per trasformarlo in primo museo solo ed esclusivamente per il secondo Novecento.
Pioniere assoluto e capostipite di una lunga serie, il Castello di Rivoli è stato cronologicamente il primo museo d’arte contemporanea in Italia. Nelle prime stagioni lo diresse il critico olandese Rudi Fuchs, con una certa verve peraltro favorita dall’effetto novità. Per diciotto lunghi anni fu il regno incontrastato di Ida Gianelli, già compagna e longa manus di Germano Celant, che ha avuto l’unico merito di posizionare il Castello nel ristretto giro internazionale, ma per contrasto lo ha allontanato dalla città e dai suoi abitanti, mirando a valorizzare strategicamente solo l’Arte povera e suoi derivati.
Quale può essere dunque il destino di uno spazio certamente bello, dotato di una collezione importante (seppur a tratti monocorde), il cui mantenimento «vuoto» assorbe risorse sproporzionate e quasi unicamente pubbliche? E, soprattutto, quanto durerà il «riposizionamento» della struttura che deve reinventarsi, aprirsi alla comunità, dialogare con più attori possibili, visto che prende soldi dai contribuenti? Sono interrogativi di non semplice soluzione sul tavolo di Michele Coppola, neoassessore alla cultura della Regione Piemonte.
È soprattutto questo il compito dei nuovi direttori Beatrice Merz e Andrea Bellini, che qualcuno ha già definito la strana coppia per la modalità bizzarra con cui sono stati accostati - lei figlia di due colossi dell’Arte povera, editrice, ex presidente della Fondazione intitolata al padre Mario, lui giovane dinamico con un occhio di riguardo al mercato - supportati nella missione rilancio dal presidente guru-mediatico Giovanni Minoli. Il primo passo va letto all’insegna del comportamento virtuoso, cercando all’interno della collezione opere inedite - un video di Emily Jacir, la potente installazione The Nature of The Beast di Goshka Macuga, le sculture in pietra di Giovanni Anselmo - poco viste, ad esempio il wall drawing di Hamish Fulton o riportate alla luce dopo tanto tempo, come la stanza decorata dal transavanguardista Nicola De Maria. Intelligente l’idea di dedicare a un artista specifico un focus che ne permetta l’approfondimento, così al terzo piano è allestita una vera e propria personale del concettuale americano Vito Acconci, con storici e rari film di fine anni ’60, all’epoca delle sue performance più estreme e conturbanti.
Fin qui non molto di nuovo. Né potrebbe essere diversamente, avendo un patrimonio ingente da valorizzare e poco da spendere. Ciò che sembra invece cambiato è l’approccio: bandito l’elitarismo di un tempo (peraltro a spese nostre) scandito da cene inutili e costose per presunti vip e finanziatori, il Castello si riapre martedì prossimo alla gente del Piemonte con un’inaugurazione che si rivolge a tutti, soprattutto ai giovani, birra gratis e un dj set fino a tarda sera. Lo scopo è quello di offrire un’immagine più accogliente rispetto al frigido museo di prima: Andrea Bellini si è posto l’obiettivo di raddoppiare in un anno il pubblico pagante. Staremo a vedere.
In tale ottica la mostra non è che uno dei possibili elementi, affiancati da una capillare offerta di eventi collaterali che coinvolgono letteratura, musica, cinema, teatro, per favorire l’ingresso di facce nuove nel segno del ricambio generazionale. Il primo appuntamento è annunciato già nel prossimo weekend con il debutto della rassegna Gli irregolari, concepita e curata da Gianluigi Ricuperati, dedicata a quelle personalità emarginate dalla cultura ufficiale eppure geniali, eterodosse, anarcoidi, non allineate. Stupisce che nel regno torinese dell’establishment, dimostrazione lampante della presa del potere da parte dei sessantottini travestiti da poveristi, trovino voce sperimentatori inesausti come Emilio Villa, messo da parte dalla critica marxista romana degli Argan e dei Calvesi, per non dire di Amelia Rosselli, studiosa di Sylvia Plath, isolata e silenziosa fino all’unico destino possibile del suicidio, proprio come Mishima. Una poetica, quella degli irregolari, tradizionalmente appannaggio della cultura di destra, di chi non accetta la logica del branco travestita da pensiero comune. Cose che alla sinistra non sono mai appartenute eppure possono tornare utili in un periodo di crisi delle idee, ma su cui non rinunciamo a rivendicare il nostro diritto di primogenitura.
Pioniere assoluto e capostipite di una lunga serie, il Castello di Rivoli è stato cronologicamente il primo museo d’arte contemporanea in Italia. Nelle prime stagioni lo diresse il critico olandese Rudi Fuchs, con una certa verve peraltro favorita dall’effetto novità. Per diciotto lunghi anni fu il regno incontrastato di Ida Gianelli, già compagna e longa manus di Germano Celant, che ha avuto l’unico merito di posizionare il Castello nel ristretto giro internazionale, ma per contrasto lo ha allontanato dalla città e dai suoi abitanti, mirando a valorizzare strategicamente solo l’Arte povera e suoi derivati.
Quale può essere dunque il destino di uno spazio certamente bello, dotato di una collezione importante (seppur a tratti monocorde), il cui mantenimento «vuoto» assorbe risorse sproporzionate e quasi unicamente pubbliche? E, soprattutto, quanto durerà il «riposizionamento» della struttura che deve reinventarsi, aprirsi alla comunità, dialogare con più attori possibili, visto che prende soldi dai contribuenti? Sono interrogativi di non semplice soluzione sul tavolo di Michele Coppola, neoassessore alla cultura della Regione Piemonte.
È soprattutto questo il compito dei nuovi direttori Beatrice Merz e Andrea Bellini, che qualcuno ha già definito la strana coppia per la modalità bizzarra con cui sono stati accostati - lei figlia di due colossi dell’Arte povera, editrice, ex presidente della Fondazione intitolata al padre Mario, lui giovane dinamico con un occhio di riguardo al mercato - supportati nella missione rilancio dal presidente guru-mediatico Giovanni Minoli. Il primo passo va letto all’insegna del comportamento virtuoso, cercando all’interno della collezione opere inedite - un video di Emily Jacir, la potente installazione The Nature of The Beast di Goshka Macuga, le sculture in pietra di Giovanni Anselmo - poco viste, ad esempio il wall drawing di Hamish Fulton o riportate alla luce dopo tanto tempo, come la stanza decorata dal transavanguardista Nicola De Maria. Intelligente l’idea di dedicare a un artista specifico un focus che ne permetta l’approfondimento, così al terzo piano è allestita una vera e propria personale del concettuale americano Vito Acconci, con storici e rari film di fine anni ’60, all’epoca delle sue performance più estreme e conturbanti.
Fin qui non molto di nuovo. Né potrebbe essere diversamente, avendo un patrimonio ingente da valorizzare e poco da spendere. Ciò che sembra invece cambiato è l’approccio: bandito l’elitarismo di un tempo (peraltro a spese nostre) scandito da cene inutili e costose per presunti vip e finanziatori, il Castello si riapre martedì prossimo alla gente del Piemonte con un’inaugurazione che si rivolge a tutti, soprattutto ai giovani, birra gratis e un dj set fino a tarda sera. Lo scopo è quello di offrire un’immagine più accogliente rispetto al frigido museo di prima: Andrea Bellini si è posto l’obiettivo di raddoppiare in un anno il pubblico pagante. Staremo a vedere.
In tale ottica la mostra non è che uno dei possibili elementi, affiancati da una capillare offerta di eventi collaterali che coinvolgono letteratura, musica, cinema, teatro, per favorire l’ingresso di facce nuove nel segno del ricambio generazionale. Il primo appuntamento è annunciato già nel prossimo weekend con il debutto della rassegna Gli irregolari, concepita e curata da Gianluigi Ricuperati, dedicata a quelle personalità emarginate dalla cultura ufficiale eppure geniali, eterodosse, anarcoidi, non allineate. Stupisce che nel regno torinese dell’establishment, dimostrazione lampante della presa del potere da parte dei sessantottini travestiti da poveristi, trovino voce sperimentatori inesausti come Emilio Villa, messo da parte dalla critica marxista romana degli Argan e dei Calvesi, per non dire di Amelia Rosselli, studiosa di Sylvia Plath, isolata e silenziosa fino all’unico destino possibile del suicidio, proprio come Mishima. Una poetica, quella degli irregolari, tradizionalmente appannaggio della cultura di destra, di chi non accetta la logica del branco travestita da pensiero comune. Cose che alla sinistra non sono mai appartenute eppure possono tornare utili in un periodo di crisi delle idee, ma su cui non rinunciamo a rivendicare il nostro diritto di primogenitura.
«Il Giornale» del 6 giugno 2010
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