La Cgil, la realtà, l'interesse di chi lavora
di Francesco Riccardi
Spesso i gesti danno la misura di un atteggiamento assai più delle parole. E i fischi tributati dalla platea dei delegati al ministro Sacconi, al presidente della Confindustria e ai segretari di Cisl e Uil hanno rivelato il sostanziale fallimento del congresso della Cgil, prima ancora che la discussione prendesse avvio.
La confederazione che a Rimini era attesa alla svolta – con l’uscita dall’isolamento nel quale si è autocostretta non firmando l’intesa sul nuovo modello contrattuale e proclamando scioperi generali in solitaria – evidentemente non si è presentata all’appuntamento. Un’'assenza' confermata dai silenzi del segretario generale Guglielmo Epifani, che non ha saputo – o voluto – difendere e gettare ponti verso quelli che dovrebbero essere gli interlocutori privilegiati dell’azione sindacale: le altre confederazioni anzitutto, gli industriali invitati per la prima volta e il governo con il quale occorre, volenti o nolenti, misurarsi. Nella visione della Cgil queste parti continuano ad assomigliare più a 'nemici' coi quali confliggere, e comunque da contrastare, che a soggetti di pari dignità coi quali negoziare, confrontarsi e impegnarsi in un progetto comune per il Paese. La conferma di un modello antagonista, più di rappresentanza politica che non sindacale (non a caso l’ovazione è stata tributata solo a Vendola, con buona pace persino di Bersani) destinato evidentemente a durare fino a quando a governare sarà il centrodestra.
La stessa relazione del segretario generale tradisce questa impostazione, con tutti i suoi limiti. Perché Guglielmo Epifani ha certamente ragione nell’indicare l’occupazione come «la priorità delle priorità», che dovrebbe «costituire il fondamento e l’obiettivo delle politiche industriali, di quelle fiscali e sociali». Ma non è poi né conseguente né coerente nel ragionamento: qual è l’impegno della Cgil per raggiungere questo obiettivo? In cosa la confederazione è pronta a coinvolgersi? Non nella contrattazione, perché pur dicendo che intende «costruire un modello condiviso», in realtà chiede a tutti gli altri soggetti firmatari di modificare quanto concordato, senza neppure accennare a un’autocritica. Non nella riforma del diritto e del mercato del lavoro, definita «deleteria» e da combattere «anche scioperando». Non, infine, nella costruzione di nuove relazioni industriali più partecipative, considerate compromessi pericolosi.
La ricetta proposta dal leader della Cgil resta così quella affatto inedita di un innalzamento della spesa pubblica, con «lo sblocco del turn over nella Pubblica amministrazione, che permetterebbe l’assunzione di 400mila persone» e l’allentamento del patto di stabilità interna degli enti locali per dar vita a mini-progetti infrastrutturali; oltre a incentivi di politica industriale e fondi per ricerca & sviluppo.
Il tutto accompagnato della contemporanea riforma del fisco per ridurre il prelievo su dipendenti, pensionati e imprese, nonché il potenziamento degli ammortizzatori sociali e l’introduzione di un reddito minimo per chi è privo di risorse. Questi ultimi tre obiettivi possono essere pure condivisibili (a seconda di come poi concretamente declinati), ma è evidente che il combinato disposto degli interventi richiesti comporterebbe una spesa nell’ordine di qualche centinaio di miliardi di euro. Un piano che nella situazione attuale non si sa se giudicare solo irrealistico o perfino irresponsabile, guardando a quanto sta accadendo al di là dell’Adriatico.
La Cgil, che è un sindacato di grande tradizione e slancio sociale, nella sua storia ha saputo cogliere con responsabilità e intelligenza le esigenze profonde dei momenti difficili. Come per la svolta dell’Eur nel febbraio 1978 o la stagione della concertazione nel 1992-93, quando si salvò l’Italia dal baratro e si gettarono le basi per agganciarla all’euro. L’impressione è che invece questo congresso sia mancato all’appuntamento con la realtà. Un’occasione persa per la Cgil, che rischia però di essere pagata dai lavoratori e dal Paese tutto.
La confederazione che a Rimini era attesa alla svolta – con l’uscita dall’isolamento nel quale si è autocostretta non firmando l’intesa sul nuovo modello contrattuale e proclamando scioperi generali in solitaria – evidentemente non si è presentata all’appuntamento. Un’'assenza' confermata dai silenzi del segretario generale Guglielmo Epifani, che non ha saputo – o voluto – difendere e gettare ponti verso quelli che dovrebbero essere gli interlocutori privilegiati dell’azione sindacale: le altre confederazioni anzitutto, gli industriali invitati per la prima volta e il governo con il quale occorre, volenti o nolenti, misurarsi. Nella visione della Cgil queste parti continuano ad assomigliare più a 'nemici' coi quali confliggere, e comunque da contrastare, che a soggetti di pari dignità coi quali negoziare, confrontarsi e impegnarsi in un progetto comune per il Paese. La conferma di un modello antagonista, più di rappresentanza politica che non sindacale (non a caso l’ovazione è stata tributata solo a Vendola, con buona pace persino di Bersani) destinato evidentemente a durare fino a quando a governare sarà il centrodestra.
La stessa relazione del segretario generale tradisce questa impostazione, con tutti i suoi limiti. Perché Guglielmo Epifani ha certamente ragione nell’indicare l’occupazione come «la priorità delle priorità», che dovrebbe «costituire il fondamento e l’obiettivo delle politiche industriali, di quelle fiscali e sociali». Ma non è poi né conseguente né coerente nel ragionamento: qual è l’impegno della Cgil per raggiungere questo obiettivo? In cosa la confederazione è pronta a coinvolgersi? Non nella contrattazione, perché pur dicendo che intende «costruire un modello condiviso», in realtà chiede a tutti gli altri soggetti firmatari di modificare quanto concordato, senza neppure accennare a un’autocritica. Non nella riforma del diritto e del mercato del lavoro, definita «deleteria» e da combattere «anche scioperando». Non, infine, nella costruzione di nuove relazioni industriali più partecipative, considerate compromessi pericolosi.
La ricetta proposta dal leader della Cgil resta così quella affatto inedita di un innalzamento della spesa pubblica, con «lo sblocco del turn over nella Pubblica amministrazione, che permetterebbe l’assunzione di 400mila persone» e l’allentamento del patto di stabilità interna degli enti locali per dar vita a mini-progetti infrastrutturali; oltre a incentivi di politica industriale e fondi per ricerca & sviluppo.
Il tutto accompagnato della contemporanea riforma del fisco per ridurre il prelievo su dipendenti, pensionati e imprese, nonché il potenziamento degli ammortizzatori sociali e l’introduzione di un reddito minimo per chi è privo di risorse. Questi ultimi tre obiettivi possono essere pure condivisibili (a seconda di come poi concretamente declinati), ma è evidente che il combinato disposto degli interventi richiesti comporterebbe una spesa nell’ordine di qualche centinaio di miliardi di euro. Un piano che nella situazione attuale non si sa se giudicare solo irrealistico o perfino irresponsabile, guardando a quanto sta accadendo al di là dell’Adriatico.
La Cgil, che è un sindacato di grande tradizione e slancio sociale, nella sua storia ha saputo cogliere con responsabilità e intelligenza le esigenze profonde dei momenti difficili. Come per la svolta dell’Eur nel febbraio 1978 o la stagione della concertazione nel 1992-93, quando si salvò l’Italia dal baratro e si gettarono le basi per agganciarla all’euro. L’impressione è che invece questo congresso sia mancato all’appuntamento con la realtà. Un’occasione persa per la Cgil, che rischia però di essere pagata dai lavoratori e dal Paese tutto.
«Avvenire» del 6 maggio 2010
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