Celebriamo la «costruzione» dello Stato. La Nazione c’era già
di Francesco D'Agostino
Alcuni poliotici e qualche intellettuale avvertono con fastidio l’approssimarsi del centocinquantesimo anniversario dell’unità d’Italia e vorrebbero addirittura cogliere l’occasione per deplorare un evento storico che peraltro con ogni probabilità ritengono anch’essi irreversibile. Per altri politici, invece, e per molti intellettuali, si tratta di una ricorrenza di grande valore, celebrare la quale sarebbe, così almeno la pensa Giulio Andreotti, «un dovere e non un’opzione facoltativa».
La penso anch’ io così: quando parliamo dell’Unità, parliamo di un evento storico di grande rilevanza, che ha segnato in modo irreversibile la vita del nostro Paese e che merita di restare nella memoria collettiva di tutti, oltre che di continuare ad essere, come tale, oggetto di approfondimenti critici (è a questo, e non ad altro, che in definitiva servono le celebrazioni). Con un’avvertenza, però: ciò che andremo a festeggiare, il prossimo anno, è l’unità "politica" d’Italia e nulla di più.
Nel 1861 non è nata l’«Italia»; più semplicemente è stato istituito sul territorio italiano uno «Stato unitario». L’Italia, da un punto di vista culturale, artistico, linguistico e soprattutto religioso, era già unita da secoli e secoli. Letta come evento "politico", l’ Unità ha costituito un autentico traguardo storico, che merita tutte le celebrazioni.
Questo non giustifica però la pretesa di qualificare la proclamazione del Regno d’Italia (e gli ulteriori eventi del 1866 e del 1870, senza voler arrivare al 1918, come pur sarebbe ragionevole fare) come un evento di rilevanza "nazionale": si è trattato, invece, di un evento "politicamente" di grande rilievo. La nazione italiana non ha avuto alcun bisogno di aspettare il trionfo dei movimenti risorgimentali per riconoscersi ed essere riconosciuta come tale da tutte le altre nazioni.
Tutte le difficoltà nascono dal fatto che ancora oggi la nozione di Stato viene purtroppo confusa con quella di Nazione. Confusione che troviamo perfino nella nostra Costituzione, quando parla di territorio «nazionale» (art. 16) oppure quando (art. 87) afferma che il presidente della Repubblica rappresenta l’unità "nazionale". È evidente che tra Stato e Nazione esiste uno strettissimo rapporto, che non giustifica però l’assimilazione dei due concetti.
Lo Stato fa riferimento al «potere» (e alle modalità del suo esercizio), la Nazione invece all’«identità» di un popolo (e alle sue forme espressive). La nazione italiana comprende anche il Canton Ticino, che afferisce politicamente allo Svizzera (che – come il Regno Unito – è uno Stato "multinazionale" e non una "nazione"), mentre la cittadinanza italiana (il massimo tra i diritti "politici") può ben essere legittimamente condivisa da chi non sia italiano per cultura, origine etnica o tradizione religiosa.
Il tentativo di assimilare Stato e nazione (come è avvenuto in Francia, da Luigi XIV alla Rivoluzione) ha sempre comportato l’ effetto perverso della "politicizzazione" dell’identità di un popolo, inducendo a valutarne la rilevanza in termini quantitativi e militari (la "potenza") piuttosto che qualitativi, cioè in definitiva storici e "spirituali". Non è un caso che la storia del Risorgimento sia scandita da "guerre di indipendenza" e che le opere letterarie e musicali del tempo, di carattere patriottico, contengano un’esplicita esaltazione della guerra (così come l’Inno di Mameli, anch’esso erroneamente definito inno nazionale).
Se è doveroso (e lo è realmente!) celebrare l’Unità d’Italia, bisogna farlo con meditata consapevolezza. È indubbio che l’Italia attraverso l’Unità abbia consolidato indirizzato lo sviluppo della sua economia, abbia ottenuto maggiore attenzione nel concerto politico d’Europa, abbia garantito che alcune delle sue regioni più povere ottenessero significativi benefici, abbia soprattutto favorito movimenti demografici al proprio interno, indispensabili per la modernizzazione del Paese.
Non dimentichiamoci però che ciò è potuto accadere perché, già molto, molto prima di costituirsi in Stato unitario, l’Italia si era già costituita, attraverso la sua lingua, i suoi costumi, la sua arte, la sua religione in nazione e tra le più antiche d’Europa. Diamo alle celebrazioni del centocinquantesimo anniversario dell’Unità il loro corretto carattere di celebrazioni storico-politiche e difendiamo l’unità e l’identità nazionale con altre e più efficaci modalità.
La penso anch’ io così: quando parliamo dell’Unità, parliamo di un evento storico di grande rilevanza, che ha segnato in modo irreversibile la vita del nostro Paese e che merita di restare nella memoria collettiva di tutti, oltre che di continuare ad essere, come tale, oggetto di approfondimenti critici (è a questo, e non ad altro, che in definitiva servono le celebrazioni). Con un’avvertenza, però: ciò che andremo a festeggiare, il prossimo anno, è l’unità "politica" d’Italia e nulla di più.
Nel 1861 non è nata l’«Italia»; più semplicemente è stato istituito sul territorio italiano uno «Stato unitario». L’Italia, da un punto di vista culturale, artistico, linguistico e soprattutto religioso, era già unita da secoli e secoli. Letta come evento "politico", l’ Unità ha costituito un autentico traguardo storico, che merita tutte le celebrazioni.
Questo non giustifica però la pretesa di qualificare la proclamazione del Regno d’Italia (e gli ulteriori eventi del 1866 e del 1870, senza voler arrivare al 1918, come pur sarebbe ragionevole fare) come un evento di rilevanza "nazionale": si è trattato, invece, di un evento "politicamente" di grande rilievo. La nazione italiana non ha avuto alcun bisogno di aspettare il trionfo dei movimenti risorgimentali per riconoscersi ed essere riconosciuta come tale da tutte le altre nazioni.
Tutte le difficoltà nascono dal fatto che ancora oggi la nozione di Stato viene purtroppo confusa con quella di Nazione. Confusione che troviamo perfino nella nostra Costituzione, quando parla di territorio «nazionale» (art. 16) oppure quando (art. 87) afferma che il presidente della Repubblica rappresenta l’unità "nazionale". È evidente che tra Stato e Nazione esiste uno strettissimo rapporto, che non giustifica però l’assimilazione dei due concetti.
Lo Stato fa riferimento al «potere» (e alle modalità del suo esercizio), la Nazione invece all’«identità» di un popolo (e alle sue forme espressive). La nazione italiana comprende anche il Canton Ticino, che afferisce politicamente allo Svizzera (che – come il Regno Unito – è uno Stato "multinazionale" e non una "nazione"), mentre la cittadinanza italiana (il massimo tra i diritti "politici") può ben essere legittimamente condivisa da chi non sia italiano per cultura, origine etnica o tradizione religiosa.
Il tentativo di assimilare Stato e nazione (come è avvenuto in Francia, da Luigi XIV alla Rivoluzione) ha sempre comportato l’ effetto perverso della "politicizzazione" dell’identità di un popolo, inducendo a valutarne la rilevanza in termini quantitativi e militari (la "potenza") piuttosto che qualitativi, cioè in definitiva storici e "spirituali". Non è un caso che la storia del Risorgimento sia scandita da "guerre di indipendenza" e che le opere letterarie e musicali del tempo, di carattere patriottico, contengano un’esplicita esaltazione della guerra (così come l’Inno di Mameli, anch’esso erroneamente definito inno nazionale).
Se è doveroso (e lo è realmente!) celebrare l’Unità d’Italia, bisogna farlo con meditata consapevolezza. È indubbio che l’Italia attraverso l’Unità abbia consolidato indirizzato lo sviluppo della sua economia, abbia ottenuto maggiore attenzione nel concerto politico d’Europa, abbia garantito che alcune delle sue regioni più povere ottenessero significativi benefici, abbia soprattutto favorito movimenti demografici al proprio interno, indispensabili per la modernizzazione del Paese.
Non dimentichiamoci però che ciò è potuto accadere perché, già molto, molto prima di costituirsi in Stato unitario, l’Italia si era già costituita, attraverso la sua lingua, i suoi costumi, la sua arte, la sua religione in nazione e tra le più antiche d’Europa. Diamo alle celebrazioni del centocinquantesimo anniversario dell’Unità il loro corretto carattere di celebrazioni storico-politiche e difendiamo l’unità e l’identità nazionale con altre e più efficaci modalità.
«Avvenire» del 5 maggio 2010
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