di Sergio Luzzatto
Quando entriamo in una libreria Feltrinelli, non ci facciamo nemmeno più caso. Gettiamo uno sguardo distratto a quelle fotografie che pure spuntano dappertutto, più ostentate che discrete, più classiche che impertinenti: l'eroe eponimo, Giangiacomo, ritratto a fianco dell'una o dell'altra icona della rivoluzione mondiale, Fidel Castro in testa. Oggi, il paradosso di quel percorso biografico – il rampollo d'una prestigiosa dinastia industriale, l'imprenditore miliardario, l'editore geniale, divenuto rivoluzionario di professione e caduto da bombarolo – si perde fra gli scaffali delle sue librerie trasformate in sfavillanti ipermercati della cultura, cloni italiani delle maggiori catene straniere, luoghi simbolo del mercato capitalistico globale.
Così, può ben capitarci di dimenticare che cosa le librerie Feltrinelli abbiano rappresentato nell'Italia di quaranta anni fa. E che cosa Giangiacomo Feltrinelli sia stato negli anni immediatamente precedenti la sua fine, la morte presso un traliccio elettrico di Segrate nel marzo del 1972.
In generale, può capitarci di dimenticare quanto stretto sia stato il legame fra due vicende storiche sostanzialmente distinte, irriducibili l'una all'altra, eppure profondamente interconnesse, inseparabili l'una dall'altra: la vicenda dei "movimenti" dell'estrema sinistra, nell'Italia dal Sessantotto al Settantasette, e la vicenda delle organizzazioni terroristiche "rosse".
In altre parole, rischiamo oggi (9 maggio: anniversario del delitto Moro) di dimenticare come la storia del terrorismo italiano vada fatta – piuttosto che attraverso chissà quali modelli sociologici, o inseguendo chissà quali dietrologie misteriche – con gli strumenti inossidabili della buona storiografia. Fresco di stampa, un libro pubblicato da Donzelli vale da promemoria al riguardo. È una raccolta di saggi scritti fra il 1980 e il 1984 da un professore di storia contemporanea dell'Università di Padova, Angelo Ventura. Per una storia del terrorismo italiano recita, modestamente, il titolo. Si tratta in realtà di un libro ricchissimo di spunti, non foss'altro per la singolare condizione del suo autore: storico di mestiere, ma anche testimone del clima politicamente acceso (per usare un eufemismo) che si respirava a Padova durante gli anni di piombo. E vittima di quel clima, se è vero che nel settembre 1979 Ventura subì lui stesso, per opera di un commando del Fronte comunista combattente, un attentato terroristico: il professore ne uscì ferito anziché ucciso soltanto perché era armato, rispose immediatamente al fuoco, mise in fuga i sicari di chi aveva giurato di "farlo fuori".
Va detto che i saggi di Ventura hanno qualcosa di irrimediabilmente datato. Scritti a caldo, risentono – più che del coinvolgimento emotivo dello storico-vittima – di un'interpretazione "giudiziaria" del terrorismo rosso che non ha retto alla prova dei tribunali: il «teorema Calogero», così definito dal nome del magistrato che il 7 aprile 1979 imputò Toni Negri e altri leader nazionali di Autonomia operaia quali capi delle organizzazioni terroristiche di sinistra che insanguinavano l'Italia.
Il giudice Calogero ipotizzò allora (e lo storico Ventura sottoscrisse) uno scenario secondo cui Negri aveva ereditato direttamente da Renato Curcio, nel '74, il comando politico del partito armato, se non addirittura la direzione strategica delle Brigate rosse; mentre Autonomia operaia sarebbe stata la facciata legale dell'entità di cui le Br erano il braccio clandestino. Ipotesi azzardata, o comunque smentita dalle sentenze nelle aule di giustizia.
Al netto di questa interpretazione inesatta, i saggi di Angelo Ventura colpiscono per la capacità del professore universitario di farsi – a ridosso degli eventi, anzi dentro, quando il terrorismo rosso ancora non apparteneva al passato – una sorta di "storico del presente". Ci sono, negli studi pubblicati da Ventura trent'anni fa e raccolti ora da Donzelli, sollecitazioni di metodo e abbozzi di analisi di cui si potrà fare tesoro nel momento in cui si vorrà ricostruire compiutamente la storia del terrorismo italiano. A cominciare dall'idea che tale storia richieda (parole del 1984) «una lettura globale», dove le imprese del terrorismo rosso vengano studiate contestualmente alle imprese del terrorismo nero, alle trame eversive dei poteri occulti, ai rapporti con la criminalità organizzata, ai collegamenti internazionali sia dei terroristi sia dei servizi segreti.
C'è poi l'aureo principio per cui la storia del partito armato, in quanto storia "normale" di un movimento politico, va ricostruita anzitutto studiando, "banalmente", gli individui che lo hanno promosso, le idee che essi hanno elaborato, i gruppi che li hanno sostenuti sul campo.
Angelo Ventura studia i rivoluzionari italiani del Sessantotto e dintorni alla maniera in cui un maestro degli studi novecenteschi di storia, Franco Venturi, era andato studiando i rivoluzionari del Sette o dell'Ottocento, i giacobini francesi, i populisti russi: cioè a prescindere da ogni sociologismo, guardando agli uomini in carne e ossa, ai loro materiali di lavoro e di lotta, alle loro azioni o realizzazioni concrete. Insomma praticando una storia (diceva Venturi, in polemica con tante bardature di metodo o di pseudo-metodo) «senza additivi»: nomi, luoghi, date...
Bisognerà pur scrivere, un giorno, una biografia non giornalistica né familiare di Giangiacomo Feltrinelli, e si potrà utilmente prendere le mosse da quella che Ventura abbozzò già nel 1984: non la caricatura del miliardario divorato dai sensi di colpa o dell'antifascista ossessionato dalla paura di un golpe, ma il ritratto dell'imprenditore internazionale davanti al quale si aprivano tutte le porte, del mecenate di un'embrionale struttura rivoluzionaria europea, dell'editore di libri-vangelo sulle modalità della guerriglia, del padrone di una rete di librerie fiancheggiatrici del partito armato. Così pure, bisognerà scrivere un giorno una storia non giornalistica né autobiografica di Potere operaio, l'organizzazione extraparlamentare di sinistra che traghettò migliaia di giovani italiani dai miti e dai riti del Sessantotto verso i lidi della prospettiva insurrezionale o della scelta terroristica. E torneranno utili le pagine di Ventura, dove le res gestae dei vari Toni Negri o Franco Piperno vengono puntigliosamente restituite all'hic et nunc di una vicenda fin troppo determinata: intrecci personali, direttive politiche, raduni clandestini, prospettive militari.Il libro di Ventura vale inoltre da repertorio antologico degli "scritti di piombo" che tanti cattivi maestri vergarono e stamparono in quegli anni. Per esempio, il documento del 1974 in cui Negri mise a punto la formula, poi recepita dalle Brigate rosse, di «Stato imperialista delle multinazionali». O l'articolo di Potere operaio (maggio-giugno 1972) dove si invitava i proletari a colpire «il corpo fisico del potere» non soltanto ai vertici, al livello dei «generali», ma al livello dei «sergenti», «i sottufficiali dell'apparato di dominio capitalistico»: ingegneri, poliziotti, giudici, professori «imputabili perché esistono, perché il loro mero esistere è il presupposto della violenza organizzata del dominio».
Sì, i «servitori dello Stato» avevano la colpa di esistere. Fu questo – ricostruisce Ventura – l'approdo ideologico di una sparuta avanguardia marxista-leninista, ma anche di una più diffusa cultura anti-istituzionale e nichilistica che fin dall'inizio degli anni Sessanta aveva deplorato le politiche riformatrici del primo centro-sinistra, irriso le garanzie giuridiche e lo Stato di diritto, flirtato con il radicalismo di destra trastullandosi con i volumi di Nietzsche e di Carl Schmitt. Oggi, a distanza di molti decenni, certi intellettuali "operaisti" dell'epoca (gli Alberto Asor Rosa, i Massimo Cacciari) faranno bene a non guardare dentro il libro di Ventura: ritroverebbero i se stessi di allora, e non avrebbero ragione di andarne fieri.
Così, può ben capitarci di dimenticare che cosa le librerie Feltrinelli abbiano rappresentato nell'Italia di quaranta anni fa. E che cosa Giangiacomo Feltrinelli sia stato negli anni immediatamente precedenti la sua fine, la morte presso un traliccio elettrico di Segrate nel marzo del 1972.
In generale, può capitarci di dimenticare quanto stretto sia stato il legame fra due vicende storiche sostanzialmente distinte, irriducibili l'una all'altra, eppure profondamente interconnesse, inseparabili l'una dall'altra: la vicenda dei "movimenti" dell'estrema sinistra, nell'Italia dal Sessantotto al Settantasette, e la vicenda delle organizzazioni terroristiche "rosse".
In altre parole, rischiamo oggi (9 maggio: anniversario del delitto Moro) di dimenticare come la storia del terrorismo italiano vada fatta – piuttosto che attraverso chissà quali modelli sociologici, o inseguendo chissà quali dietrologie misteriche – con gli strumenti inossidabili della buona storiografia. Fresco di stampa, un libro pubblicato da Donzelli vale da promemoria al riguardo. È una raccolta di saggi scritti fra il 1980 e il 1984 da un professore di storia contemporanea dell'Università di Padova, Angelo Ventura. Per una storia del terrorismo italiano recita, modestamente, il titolo. Si tratta in realtà di un libro ricchissimo di spunti, non foss'altro per la singolare condizione del suo autore: storico di mestiere, ma anche testimone del clima politicamente acceso (per usare un eufemismo) che si respirava a Padova durante gli anni di piombo. E vittima di quel clima, se è vero che nel settembre 1979 Ventura subì lui stesso, per opera di un commando del Fronte comunista combattente, un attentato terroristico: il professore ne uscì ferito anziché ucciso soltanto perché era armato, rispose immediatamente al fuoco, mise in fuga i sicari di chi aveva giurato di "farlo fuori".
Va detto che i saggi di Ventura hanno qualcosa di irrimediabilmente datato. Scritti a caldo, risentono – più che del coinvolgimento emotivo dello storico-vittima – di un'interpretazione "giudiziaria" del terrorismo rosso che non ha retto alla prova dei tribunali: il «teorema Calogero», così definito dal nome del magistrato che il 7 aprile 1979 imputò Toni Negri e altri leader nazionali di Autonomia operaia quali capi delle organizzazioni terroristiche di sinistra che insanguinavano l'Italia.
Il giudice Calogero ipotizzò allora (e lo storico Ventura sottoscrisse) uno scenario secondo cui Negri aveva ereditato direttamente da Renato Curcio, nel '74, il comando politico del partito armato, se non addirittura la direzione strategica delle Brigate rosse; mentre Autonomia operaia sarebbe stata la facciata legale dell'entità di cui le Br erano il braccio clandestino. Ipotesi azzardata, o comunque smentita dalle sentenze nelle aule di giustizia.
Al netto di questa interpretazione inesatta, i saggi di Angelo Ventura colpiscono per la capacità del professore universitario di farsi – a ridosso degli eventi, anzi dentro, quando il terrorismo rosso ancora non apparteneva al passato – una sorta di "storico del presente". Ci sono, negli studi pubblicati da Ventura trent'anni fa e raccolti ora da Donzelli, sollecitazioni di metodo e abbozzi di analisi di cui si potrà fare tesoro nel momento in cui si vorrà ricostruire compiutamente la storia del terrorismo italiano. A cominciare dall'idea che tale storia richieda (parole del 1984) «una lettura globale», dove le imprese del terrorismo rosso vengano studiate contestualmente alle imprese del terrorismo nero, alle trame eversive dei poteri occulti, ai rapporti con la criminalità organizzata, ai collegamenti internazionali sia dei terroristi sia dei servizi segreti.
C'è poi l'aureo principio per cui la storia del partito armato, in quanto storia "normale" di un movimento politico, va ricostruita anzitutto studiando, "banalmente", gli individui che lo hanno promosso, le idee che essi hanno elaborato, i gruppi che li hanno sostenuti sul campo.
Angelo Ventura studia i rivoluzionari italiani del Sessantotto e dintorni alla maniera in cui un maestro degli studi novecenteschi di storia, Franco Venturi, era andato studiando i rivoluzionari del Sette o dell'Ottocento, i giacobini francesi, i populisti russi: cioè a prescindere da ogni sociologismo, guardando agli uomini in carne e ossa, ai loro materiali di lavoro e di lotta, alle loro azioni o realizzazioni concrete. Insomma praticando una storia (diceva Venturi, in polemica con tante bardature di metodo o di pseudo-metodo) «senza additivi»: nomi, luoghi, date...
Bisognerà pur scrivere, un giorno, una biografia non giornalistica né familiare di Giangiacomo Feltrinelli, e si potrà utilmente prendere le mosse da quella che Ventura abbozzò già nel 1984: non la caricatura del miliardario divorato dai sensi di colpa o dell'antifascista ossessionato dalla paura di un golpe, ma il ritratto dell'imprenditore internazionale davanti al quale si aprivano tutte le porte, del mecenate di un'embrionale struttura rivoluzionaria europea, dell'editore di libri-vangelo sulle modalità della guerriglia, del padrone di una rete di librerie fiancheggiatrici del partito armato. Così pure, bisognerà scrivere un giorno una storia non giornalistica né autobiografica di Potere operaio, l'organizzazione extraparlamentare di sinistra che traghettò migliaia di giovani italiani dai miti e dai riti del Sessantotto verso i lidi della prospettiva insurrezionale o della scelta terroristica. E torneranno utili le pagine di Ventura, dove le res gestae dei vari Toni Negri o Franco Piperno vengono puntigliosamente restituite all'hic et nunc di una vicenda fin troppo determinata: intrecci personali, direttive politiche, raduni clandestini, prospettive militari.Il libro di Ventura vale inoltre da repertorio antologico degli "scritti di piombo" che tanti cattivi maestri vergarono e stamparono in quegli anni. Per esempio, il documento del 1974 in cui Negri mise a punto la formula, poi recepita dalle Brigate rosse, di «Stato imperialista delle multinazionali». O l'articolo di Potere operaio (maggio-giugno 1972) dove si invitava i proletari a colpire «il corpo fisico del potere» non soltanto ai vertici, al livello dei «generali», ma al livello dei «sergenti», «i sottufficiali dell'apparato di dominio capitalistico»: ingegneri, poliziotti, giudici, professori «imputabili perché esistono, perché il loro mero esistere è il presupposto della violenza organizzata del dominio».
Sì, i «servitori dello Stato» avevano la colpa di esistere. Fu questo – ricostruisce Ventura – l'approdo ideologico di una sparuta avanguardia marxista-leninista, ma anche di una più diffusa cultura anti-istituzionale e nichilistica che fin dall'inizio degli anni Sessanta aveva deplorato le politiche riformatrici del primo centro-sinistra, irriso le garanzie giuridiche e lo Stato di diritto, flirtato con il radicalismo di destra trastullandosi con i volumi di Nietzsche e di Carl Schmitt. Oggi, a distanza di molti decenni, certi intellettuali "operaisti" dell'epoca (gli Alberto Asor Rosa, i Massimo Cacciari) faranno bene a non guardare dentro il libro di Ventura: ritroverebbero i se stessi di allora, e non avrebbero ragione di andarne fieri.
«Il Sole 24 Ore» del 9 maggio 2010
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