Cosa c’è dietro il genio e la pazzia del pittore più conosciuto, visto e costoso della storia dell’arte? Lo svela la nuova biografia di Giordano Bruno Guerri
di Giordano Bruno Guerri
Da più di un secolo psicanalisti e psichiatri si esercitano su quello che per loro è un magnifico caso clinico. Si sono addirittura divisi in due scuole: i francesi dicono che van Gogh era epilettico e i tedeschi che era schizofrenico. Poi ci sono centinaia di altri, più o meno studiosi, spesso semplicemente fantasiosi, che hanno avanzato una quantità incredibile di ipotesi sofisticate. Ne elenco alcune: crisi maniacale acuta con delirio diffuso, stati crepuscolari episodici, psicosi epilettoide, demenza, psicopatia, psicosi degenerativa, reazione schizomorfa di Kahn, tumor cerebri, predisposizione schizoide e epilettoide attivata dalla luce, schizofrenia fasica, dementia praecox, meningoencephalitis luetica, psicosi da esaurimento, psicosi allucinatorie fasiche, schizofrenia paranoide, nevrastenia, colpo di sole cronico o influenza del giallo, epilessia psicomotoria, dromomania, eccitazione maniacale, desiderio di castrazione, omosessualità inconscia di tipo masochista e passivo, intossicazione da essenza di trementina.
Infine, persino febbre gialla, a giustificare tutto quel giallo nei dipinti. Soltanto nel 1922 Karl Jaspers, nel saggio Strindberg e van Gogh, intuisce che Vincent soffriva soprattutto di una sensibilità esasperata. Non per niente Jaspers era un filosofo esistenzialista. Era anche uno psichiatra, e infatti tentò un compromesso per cui la schizofrenia ha aiutato il genio a rivelarsi. Ma io credo che il genio preesista alla schizofrenia, e che sia talmente più forte da far diventare la malattia marginale.
A proposito di pazzia e di genio, proprio mentre van Gogh era legato a un letto di ferro perché si era appena tagliato mezzo orecchio, a poche centinaia di chilometri, Friedrich Nietzsche abbracciava un cavallo e veniva dichiarato pazzo. Entrambi erano soli, come spesso accade alle creature più sensibili, in balia della gente «sana». Se si fossero incontrati è probabile che non sarebbero riusciti a dirsi niente. Le letture di Vincent non erano molto sofisticate e certamente non leggeva Nietzsche. Amava invece i libri di Balzac, Maupassant, Hugo, Daudet, Loti, Dickens, i Goncourt, Zola. Tutti grandi scrittori di moda fra i borghesi dell’epoca. Invece van Gogh non si accostò mai, per esempio, a Rimbaud, a Mallarmé, a Verlaine, per citare soltanto i francesi a portata di mano; o a Dostoevskij, tradotto in francese e di cui conosceva l’esistenza per avere letto delle recensioni. Per di più disprezzò Baudelaire, definendolo un «fesso» e lo capì talmente poco da paragonarlo a de Musset. Van Gogh non riuscì a capire grandezze e disperazioni simili alla sua perché non si trattava di pittori. Non si interessa neppure di politica, guerra, economia, non riesce mai a incantare una donna o un uomo, né a guadagnare un soldo.
Van Gogh disquisì sempre sulla vita vera e la falsa vita; dove la vita vera sarebbe quella di famiglia con moglie, figli, lavoro, e la falsa vita quella dell’artista che vive della propria arte per la propria arte. Ma come si può scegliere la vita che si crede sia «falsa»? Come si può credere che una vita di creazione sia peggiore di una vita di procreazione? La verità è che van Gogh mentiva, quando scriveva a Theo che la vita di famiglia era la vera vita. Scriveva così per farsi compatire, ma non avrebbe mai cambiato le sue giornate disperate, o i suoi capolavori, per quella vita vera. O forse, più semplicemente, non sarebbe mai stato capace di essere diverso da com’era.
Il suo vero guaio fu di non riuscire a unire le due metà della mela, perché una metà - quella dell’arte - era troppo grande, per lui, e perché l’importanza della sua scoperta artistica era tale da annullare, in un uomo debole e fragile, la possibilità di una vita normale.
La scoperta di van Gogh, secondo la mia personale interpretazione, fu la scoperta della nausea dell’esistenza, a partire dalla natura. Vincent van Gogh, senza rendersene conto, ha in comune con Kierkegaard, Dostoevskij e Nietzsche l’esistenzialismo e il nichilismo che avrebbero avuto tanta parte nella cultura del Novecento. Nella Nausea, Jean-Paul Sartre scrive, quasi mezzo secolo dopo la morte di Vincent: «Quella radice. Tutto in rapporto a essa era assurdo. Assurda. In rapporto ai sassi, ai cespugli, all’erba gialla, al fango secco, all’albero, al cielo. Assurda, irriducibile. Niente, nemmeno un delirio profondo e segreto della natura poteva spiegarla. Davanti a quella grossa zampa rugosa, né l’ignoranza né il sapere avevano importanza. Il mondo delle spiegazioni e delle ragioni non è quello dell’esistenza. Quella radice esisteva, e in un modo che io non potevo spiegarla». Van Gogh, 56 anni prima aveva scritto: «Se si disegna un salice come se fosse un essere vivente, e in definitiva lo è veramente, tutto il resto segue con facilità. Basta concentrare l’attenzione su quell’unico albero finché non si è riusciti a infondergli la vita. Volevo esprimere qualcosa della lotta della vita sia in quella pallida e sottile figura di donna come pure nelle radici nere, contorte e nodose. O meglio: visto che ho cercato di riprodurre fedelmente la natura come io la vedevo, senza farci su della filosofia, in tutti e due i casi, involontariamente, si vede qualcosa di quella lotta. Sia nella figura che nel paesaggio vorrei esprimere non una malinconia, ma il dolore vero».
Per Sartre, lucidamente, e per van Gogh inconsciamente, era la scoperta della nausea: il disgusto di sé e di tutte le altre creature dell’universo, che vivono facendosi l’abietta confidenza della propria esistenza, senza rendersi conto di essere di troppo, gratuite. Sartre continua: «Quando vi capita di rendervene conto vi si rivolta lo stomaco, e tutto comincia a fluttuare». I quadri di van Gogh fluttuano. Sartre non pensava a Vincent, quando scrisse quelle parole, ma ha spiegato la sua pittura in una sola frase: «Ero io, la radice; o meglio: ero io, io intero, la coscienza della sua esistenza. La nausea non m’ha lasciato e non credo che mi lascerà. Ma non la subisco più, non è più una malattia né un accesso passeggero. La nausea sono io stesso».
Nei primi tempi van Gogh non capì la propria scoperta, anche se aveva sostenuto che lo scopo dell’artista è «penetrare profondamente la natura». La sua era ancora un’idea romantica. «All’inizio la natura resiste sempre all’artista», notò, «ma chi l’affronta seriamente non permette a questa resistenza di scoraggiarlo». Non si era ancora reso conto che sono proprio le cose a tentare di rivelarsi, di afferrarti, e che però incontrano quasi sempre menti d’uomo incapaci di vedere come sono realmente, finché non ne trovano una così sensibile da penetrarle fino in fondo. Dopo qualche anno Vincent comincerà a capire: «Non mi sento più impotente di fronte alla natura come un tempo». In realtà sta affrontando contro di lei una lotta che gli costerà la vita. Van Gogh non fu il cantore della bellezza della natura. Invece scoprì - e raffigurò nelle sue opere - che la natura ha un’anima, e che quest’anima può essere invidiosa, meschina, cattiva, noiosa, come tutte le anime.
Senz’altro è un’anima brutale, perché prima di tutto esiste e vuole esistere. Vive per vivere. I germogli dei mandorli di Vincent sono come l’esplosione di una malattia cutanea. I suoi girasoli non riescono a nascondere lo squallore del loro meccanismo pedissequo. Vediamo nei quadri di van Gogh stelle malintenzionate e misteriose, cipressi gobbi e infelici. I campi violenti di Vincent sono il volto di una terra fine a se stessa e ai propri cicli, le sue spighe di grano sono volgari, in quell’ipertrofia mammaria di frutti. Non sono belli, gli iris di van Gogh, con le foglie che somigliano a un serpente, a una spada; gli steli arroganti, la bocca viola che grida la rabbia di un fiore che voleva essere velenoso. E poi la pelle lebbrosa degli ulivi piagati, le facce animalesche del dottor Gachet, dello zuavo, dell’Italienne, della sua Maya desnuda.
Per questo van Gogh non era stato capito né amato: perché aveva visto qualcosa che nessuno era stato ancora capace di mostrare, tanto meno nel suo secolo ancora intriso di classicismo e di romanticismo: la natura viva, che può essere raccapricciante e cattiva, era un’idea troppo spiacevole per essere compresa. Essendo anche lui immerso nei valori dell’epoca, amava e subiva allo stesso tempo la sua arte, così diversa da quella che lo aveva nutrito negli anni della formazione. Vincent ha orrore di sé come di ogni forma di vita, e per questo si ucciderà. Scrive pochi mesi prima di spararsi: «Dopo tutta una vita virile di ricerche, di lotta a corpo a corpo con la natura, voglio morire». Si uccide quando finalmente capisce - e lo dimostra nell’ultimo autoritratto - che anche lui è come una radice.
Infine, persino febbre gialla, a giustificare tutto quel giallo nei dipinti. Soltanto nel 1922 Karl Jaspers, nel saggio Strindberg e van Gogh, intuisce che Vincent soffriva soprattutto di una sensibilità esasperata. Non per niente Jaspers era un filosofo esistenzialista. Era anche uno psichiatra, e infatti tentò un compromesso per cui la schizofrenia ha aiutato il genio a rivelarsi. Ma io credo che il genio preesista alla schizofrenia, e che sia talmente più forte da far diventare la malattia marginale.
A proposito di pazzia e di genio, proprio mentre van Gogh era legato a un letto di ferro perché si era appena tagliato mezzo orecchio, a poche centinaia di chilometri, Friedrich Nietzsche abbracciava un cavallo e veniva dichiarato pazzo. Entrambi erano soli, come spesso accade alle creature più sensibili, in balia della gente «sana». Se si fossero incontrati è probabile che non sarebbero riusciti a dirsi niente. Le letture di Vincent non erano molto sofisticate e certamente non leggeva Nietzsche. Amava invece i libri di Balzac, Maupassant, Hugo, Daudet, Loti, Dickens, i Goncourt, Zola. Tutti grandi scrittori di moda fra i borghesi dell’epoca. Invece van Gogh non si accostò mai, per esempio, a Rimbaud, a Mallarmé, a Verlaine, per citare soltanto i francesi a portata di mano; o a Dostoevskij, tradotto in francese e di cui conosceva l’esistenza per avere letto delle recensioni. Per di più disprezzò Baudelaire, definendolo un «fesso» e lo capì talmente poco da paragonarlo a de Musset. Van Gogh non riuscì a capire grandezze e disperazioni simili alla sua perché non si trattava di pittori. Non si interessa neppure di politica, guerra, economia, non riesce mai a incantare una donna o un uomo, né a guadagnare un soldo.
Van Gogh disquisì sempre sulla vita vera e la falsa vita; dove la vita vera sarebbe quella di famiglia con moglie, figli, lavoro, e la falsa vita quella dell’artista che vive della propria arte per la propria arte. Ma come si può scegliere la vita che si crede sia «falsa»? Come si può credere che una vita di creazione sia peggiore di una vita di procreazione? La verità è che van Gogh mentiva, quando scriveva a Theo che la vita di famiglia era la vera vita. Scriveva così per farsi compatire, ma non avrebbe mai cambiato le sue giornate disperate, o i suoi capolavori, per quella vita vera. O forse, più semplicemente, non sarebbe mai stato capace di essere diverso da com’era.
Il suo vero guaio fu di non riuscire a unire le due metà della mela, perché una metà - quella dell’arte - era troppo grande, per lui, e perché l’importanza della sua scoperta artistica era tale da annullare, in un uomo debole e fragile, la possibilità di una vita normale.
La scoperta di van Gogh, secondo la mia personale interpretazione, fu la scoperta della nausea dell’esistenza, a partire dalla natura. Vincent van Gogh, senza rendersene conto, ha in comune con Kierkegaard, Dostoevskij e Nietzsche l’esistenzialismo e il nichilismo che avrebbero avuto tanta parte nella cultura del Novecento. Nella Nausea, Jean-Paul Sartre scrive, quasi mezzo secolo dopo la morte di Vincent: «Quella radice. Tutto in rapporto a essa era assurdo. Assurda. In rapporto ai sassi, ai cespugli, all’erba gialla, al fango secco, all’albero, al cielo. Assurda, irriducibile. Niente, nemmeno un delirio profondo e segreto della natura poteva spiegarla. Davanti a quella grossa zampa rugosa, né l’ignoranza né il sapere avevano importanza. Il mondo delle spiegazioni e delle ragioni non è quello dell’esistenza. Quella radice esisteva, e in un modo che io non potevo spiegarla». Van Gogh, 56 anni prima aveva scritto: «Se si disegna un salice come se fosse un essere vivente, e in definitiva lo è veramente, tutto il resto segue con facilità. Basta concentrare l’attenzione su quell’unico albero finché non si è riusciti a infondergli la vita. Volevo esprimere qualcosa della lotta della vita sia in quella pallida e sottile figura di donna come pure nelle radici nere, contorte e nodose. O meglio: visto che ho cercato di riprodurre fedelmente la natura come io la vedevo, senza farci su della filosofia, in tutti e due i casi, involontariamente, si vede qualcosa di quella lotta. Sia nella figura che nel paesaggio vorrei esprimere non una malinconia, ma il dolore vero».
Per Sartre, lucidamente, e per van Gogh inconsciamente, era la scoperta della nausea: il disgusto di sé e di tutte le altre creature dell’universo, che vivono facendosi l’abietta confidenza della propria esistenza, senza rendersi conto di essere di troppo, gratuite. Sartre continua: «Quando vi capita di rendervene conto vi si rivolta lo stomaco, e tutto comincia a fluttuare». I quadri di van Gogh fluttuano. Sartre non pensava a Vincent, quando scrisse quelle parole, ma ha spiegato la sua pittura in una sola frase: «Ero io, la radice; o meglio: ero io, io intero, la coscienza della sua esistenza. La nausea non m’ha lasciato e non credo che mi lascerà. Ma non la subisco più, non è più una malattia né un accesso passeggero. La nausea sono io stesso».
Nei primi tempi van Gogh non capì la propria scoperta, anche se aveva sostenuto che lo scopo dell’artista è «penetrare profondamente la natura». La sua era ancora un’idea romantica. «All’inizio la natura resiste sempre all’artista», notò, «ma chi l’affronta seriamente non permette a questa resistenza di scoraggiarlo». Non si era ancora reso conto che sono proprio le cose a tentare di rivelarsi, di afferrarti, e che però incontrano quasi sempre menti d’uomo incapaci di vedere come sono realmente, finché non ne trovano una così sensibile da penetrarle fino in fondo. Dopo qualche anno Vincent comincerà a capire: «Non mi sento più impotente di fronte alla natura come un tempo». In realtà sta affrontando contro di lei una lotta che gli costerà la vita. Van Gogh non fu il cantore della bellezza della natura. Invece scoprì - e raffigurò nelle sue opere - che la natura ha un’anima, e che quest’anima può essere invidiosa, meschina, cattiva, noiosa, come tutte le anime.
Senz’altro è un’anima brutale, perché prima di tutto esiste e vuole esistere. Vive per vivere. I germogli dei mandorli di Vincent sono come l’esplosione di una malattia cutanea. I suoi girasoli non riescono a nascondere lo squallore del loro meccanismo pedissequo. Vediamo nei quadri di van Gogh stelle malintenzionate e misteriose, cipressi gobbi e infelici. I campi violenti di Vincent sono il volto di una terra fine a se stessa e ai propri cicli, le sue spighe di grano sono volgari, in quell’ipertrofia mammaria di frutti. Non sono belli, gli iris di van Gogh, con le foglie che somigliano a un serpente, a una spada; gli steli arroganti, la bocca viola che grida la rabbia di un fiore che voleva essere velenoso. E poi la pelle lebbrosa degli ulivi piagati, le facce animalesche del dottor Gachet, dello zuavo, dell’Italienne, della sua Maya desnuda.
Per questo van Gogh non era stato capito né amato: perché aveva visto qualcosa che nessuno era stato ancora capace di mostrare, tanto meno nel suo secolo ancora intriso di classicismo e di romanticismo: la natura viva, che può essere raccapricciante e cattiva, era un’idea troppo spiacevole per essere compresa. Essendo anche lui immerso nei valori dell’epoca, amava e subiva allo stesso tempo la sua arte, così diversa da quella che lo aveva nutrito negli anni della formazione. Vincent ha orrore di sé come di ogni forma di vita, e per questo si ucciderà. Scrive pochi mesi prima di spararsi: «Dopo tutta una vita virile di ricerche, di lotta a corpo a corpo con la natura, voglio morire». Si uccide quando finalmente capisce - e lo dimostra nell’ultimo autoritratto - che anche lui è come una radice.
«Il Giornale» del 3 novembre 2009
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