07 novembre 2009

Scuola in cerca di autorevolezza

di Luca Gallesi
In tutti le nazioni moderne, i cittadini sono tenuti a pagare di tasca propria il soddisfacimento di due bisogni davvero essenziali come il cibo e la casa. È invece – o dovrebbe essere – a carico dello Stato la spesa per quello che sembrerebbe un bisogno meno primario, quello di istruzione, che viene offerta liberamente a ogni cittadino, dalle elementari all’università, a conferma della sua estrema importanza per la società. Da una quarantina d’anni, però, l’intero mondo della scuola è stato messo in discussione: prima dagli studenti, che contestavano i vecchi programmi; poi dai docenti, che lamentavano la costante precarietà e la scarsissima considerazione sociale; e ora anche dallo Stato, che considera eccessivi i costi per un servizio che, evidentemente, non è più ritenuto essenziale. Nella confusa ridda di rivendicazioni sociali, economiche e didattiche si è perso, infatti, il senso ultimo della scuola, che non è quello di fornire nozioni agli studenti, stipendi agli insegnanti o risparmi di spesa allo Stato, bensì è quello di dare ai giovani gli strumenti culturali, etici e morali necessari alla loro crescita. W.B. Yeats, che di scuola si occupò nelle sue vesti di senatore della Repubblica d’Irlanda, amava ricordare che «l’educazione non è come riempire un secchio, ma come accendere un fuoco», fuoco che non potrà mai innescarsi senza fiammiferi e combustibile; ossia, se non ci sono insegnanti con idee chiare da comunicare e passioni forti da trasmettere. Un pamphlet da poco edito da Rizzoli, Le nove regole della scuola di Bernhard Bueb – già autore per il medesimo editore di un provocatorio 'Elogio della disciplina' – indica chiaramente gli obiettivi della scuola e, quindi, i compiti degli insegnanti. Parola chiave: autorevolezza, che non va confusa con l’autoritarismo, che sarebbe immediatamente rifiutato dai ragazzi.
'Autorevolezza' significa che i ragazzi riconoscono all’insegnante il ruolo di guida e lo accettano di buon grado perché sanno – più o meno consapevolmente – di avere bisogno proprio di 'guide', che innanzitutto riescano a scacciare la noia intellettuale e la fatica fisica di passare cinque o sei ore al giorno seduti scomodamente in aule poco accoglienti ad ascoltare argomenti difficili. Bueb, che è stato per molti decenni prima insegnante e poi preside, conosce perfettamente i meccanismi che si instaurano tra studenti e professori, e sa benissimo che la prima e più importante molla da caricare in uno studente è la fiducia in chi gli sta di fronte. Solo se l’insegnante sa ricoprire il ruolo di guida, sincera, appassionata e leale, riesce a far scattare i meccanismi dell’apprendimento e ad avviare gli studenti verso il superamento della fatica attraverso l’impegno, che è un altro degli ostacoli generalmente ignorati nelle discussioni sulla scuola.
Ricordava recentemente Matteo Lancini, psicologo esperto di scuola e docente alla Bicocca di Milano, in un’intervista rilasciata a 'l’Espresso', che i ragazzi, oggi, non sono più capaci di soffrire: vorrebbero applicarsi e riuscire, ma non ci riescono, perché nessuno glielo ha insegnato. «L’apprendimento – conclude Lancini – non transita più in maniera automatica dalla cattedra al banco, ma dipende totalmente dalla relazione che si instaura tra professore e allievo». E finché si parlerà solo di programmi, costi e voti, il mondo della scuola non potrà che peggiorare inesorabilmente.
«Avvenire» del 7 novembre 2009

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