I punti di vista di Alda Merini e di Roberto Saviano su poesia e narrativa
di Paolo Di Stefano
Che cos'hanno in comune Alda Merini e Roberto Saviano? Niente se si pensa alle loro opere. Molto se si pensa alla rappresentazione, opposta e speculare, della letteratura che volenti o nolenti restituiscono al pubblico. Una rappresentazione ingenua, priva di sfumature e molto popolare. Per Alda Merini la poesia è vita e viceversa, la poesia è follia. A chi le chiedeva come si scrive, rispondeva: «Si va vicino a Dio e gli si dice: feconda la mia mente, mettiti nel mio cuore e portami via dagli altri, rapiscimi». È un'idea di rapimento estatico che asseconda l'immagine diffusa e pseudoromantica del poeta ispirato dall'alto e costantemente in trance: il che esclude mediazioni intellettuali, di stile e di forma. Con tutto il rispetto per Alda Merini, niente di più sbagliato: i grandi poeti, non solo Leopardi, hanno insistito sulle «sudate carte». Valéry diceva che il primo verso viene da Dio, il resto è fatica, duro lavoro. Per la Merini, i versi dovevano venir fuori di getto, come un fiotto di sangue da una ferita sempre aperta. Questa idea semplificata di poesia, che si lega intimamente a una vita maledetta (spesso messa a nudo in tv), ha favorito la popolarità di una poetessa che nei suoi testi migliori non è per nulla semplice. Una popolarità su cui lei per prima ironizzava e che alla fine è arrivata a produrre (manco si trattasse di Mike Bongiorno) un funerale di Stato: la Merini stessa ne avrebbe sorriso ruvidamente alla sua maniera e avrebbe suggerito ai suoi estimatori ufficiali di optare per una cerimonia più casalinga, magari nei pressi dei Navigli. Ma la commozione è commozione, o meglio la demagogia è demagogia, e non serve chiedersi perché poeti ben maggiori non abbiano meritato tanto: Caproni, Bertolucci, Luzi, Raboni. Perché accostare Merini e Saviano? Perché anche Saviano finisce per assecondare un cliché diffuso quanto superficiale dello scrittore in aperto agonismo con il mondo: anche per lui la letteratura non basta a se stessa. Quando non di follia e maledizione (Merini), le è necessario un surplus di eroismo. Avete presente lo spot che annuncia la serata tv di domani con Fabio Fazio? Saviano cita, come una sorta di ultimatum, un pensiero dello scrittore nigeriano Ken Saro-Wiwa, impiccato a Lagos per la sua lotta alle compagnie petrolifere. Dice che la letteratura «deve essere al servizio della società immergendosi nella realtà, intervenendo» e che il vero scrittore «deve avere un ruolo attivo», a differenza di quello (falso?) che aspetta «il tempo in cui si realizzino le sue fantasie». Mentre la Merini puntava tutto sull'ispirazione dall'alto, Saviano sembra scommettere sull'ispirazione dal basso, condannando gli altri veri scrittori alla sua stessa condanna: realtà e impegno. Come se bastasse un travaso acritico dal piano civile a quello estetico per fare vera letteratura. E come se l'etica non si trovasse altrove che nella realtà. Ambedue, Merini e Saviano, propongono il loro tragico destino come principio universale e capolavoro in sé. Lo scrittore, per essere tale, deve immolarsi alla vita o alla società. Ma secondo questa prospettiva (molto telegenica anche se uscita da un dolore indiscutibile) non sarebbero letteratura i capolavori della letteratura: da Omero a Proust a Kafka a Pessoa a Svevo a Montale ...
«Corriere della Sera» del 10 novembre 2009
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