07 novembre 2009

I geni costringono a delinquere? No, il riduzionismo è già superato

Fa discutere un verdetto a Trieste: primo utilizzo di «predisposizione» biologica
Geni «difettosi», uno sconto di pena
di Andrea Lavazza
È già finita sui quotidiani stranieri e sul sito Internet di Nature, forse la rivista scientifica più impor­tante del mondo. È anche oggetto di un’interrogazione parlamentare da par­te della Lega Nord. Si tratta della prima sentenza nell’Europa continentale in cui una asserita predispo­sizione genetica è stata riconosciuta come par­te delle attenuanti per una condanna per omi­cidio, emessa dalla Cor­te d’Assise d’appello di Trieste lo scorso 18 set­tembre.
Il caso è quello del 40enne algerino Abdel­malek Bayout che, nel 2007 a Udine, accoltel­lò un boliviano, scam­biandolo per un altro immigrato che po­co prima lo aveva canzonato per la sua presunta omosessualità e con il quale e­ra nata una colluttazione. In primo gra­do gli venne riconosciuta la seminfer­mità mentale, con conseguente ridu­zione della pena. Nel ricorso della dife­sa si chiedeva la completa non imputa­bilità o, in subordine, la concessione del massimo di sconto previsto dal Codice. Il presidente del collegio, Pier Valerio Reinotti, ha quindi incaricato di una nuova perizia due noti neuroscienziati, Giuseppe Sartori, del­l’Università di Padova, e Pietro Pietrini, dell’Uni­versità di Pisa, perché si valutasse la capacità di intendere e di volere.
Dal test genetico, inclu­so negli esami condotti, è emerso che nel Dna dell’imputato sono pre­senti «polimorfismi (va­rianti di un gene, ndr) che, in base a numerosi studi internazionali, so­no stati riscontrati conferire un signifi­cativo aumento del rischio di sviluppo di comportamento aggressivo, impulsi­vo ». In particolare, scrivono i due stu­diosi, «essere portatori dell’allele a bas­sa attività per il gene MAOA (MAOA-L) potrebbe rendere il soggetto maggior­mente incline a manifestare aggressività se provocato o escluso socialmente». La 'vulnerabilità genetica' ha un peso an­cora maggiore nel caso in cui «l’indivi­duo sia cresciuto in un contesto fami­liare non positivo e sia stato, specie nel­le prime decadi di vita, esposto a fatto­ri ambientali sfavorevoli, psicologica­mente traumatici o negativi».
La Corte d’Assise d’appello, conside­rando la storia di gravi deliri psicotici di Bayout – per anni in cura a Udine, ma da tempo non più sotto farmaci –, confer­mati complessivamente della perizia, e per «l’importanza del deficit riscontra­to con le nuovissime risultanze frutto dell’indagine genetica», ha quindi ope­rato la riduzione di reclusione nella mi­sura massima di un terzo. La pena per Bayout, in questo modo, da 22 anni e 6 mesi iniziali, per le attenuanti generi­che, la diminuita imputabilità e il rito al­ternativo prescelto, è scesa a 8 anni e 2 mesi. E un capitolo nuovo della scienza nei tribunali è stato aperto.
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Dopo la sentenza della Corte d'Assise d'appello di Trieste
di Giuseppe O. Longo
La riduzione di un ulteriore anno di pena recente­mente accordata dalla Corte d’Assise d’Appello di Trieste a un algerino colpevole di omicidio sulla base della seminfermità mentale, provata con un’innovativa analisi genetica che avrebbe indicato una sua predisposizione a comportamenti aggressivi, si presta ad alcune considerazioni. Fino a qualche tempo fa era convinzione diffusa che vi fosse una corrispondenza biunivoca tra i geni e certi tratti somatici e caratteriali: si parlava dunque del gene degli occhi azzurri, della gelosia, dell’intelligenza, dell’omosessualità o, appunto, della violenza. Il determinismo genetico, per cui non solo il nostro aspetto, la nostra indole e il nostro comportamento dipenderebbero dal corredo genetico, ma anche il nostro destino sarebbe scritto nei geni, aveva preso il posto di certe asserzioni magiche e astrologiche secondo le quali il nostro destino sarebbe scritto nelle stelle e la nostra personalità dipenderebbe dal segno zodiacale. Poi, come accade, le cose si sono dimostrate un tantino più complicate: da una parte una caratteristica fisica o psichica dipende da parecchi geni, dall’altra un gene influisce su molte caratteristiche.
Inoltre si è capito che se il patrimonio genetico costituisce una sorta di progetto iniziale dell’individuo, non meno importante per il suo sviluppo fisico e psichico sono le esperienze, gli incidenti, le interazioni e le occasioni che si presentano nel corso della vita.
Stabilire quanto spetti alla natura (geni) e quanto alla cultura (esperienza) nel plasmare una persona è impossibile (ed è questione spesso affidata all’ideologia), ma certo è che la posizione dei riduzionisti, i quali vorrebbero leggere tutto il nostro fato nel genoma, è divenuta insostenibile.
Ma ammettiamo per un momento di accettare la loro tesi: se le azioni dell’omicida dipendono dalle sue predisposizioni, la sua responsabilità è ridotta, addirittura annullata. Non avendo libertà di scelta, a lui si dovrebbero applicare le norme valide nei casi in cui si ravvisi incapacità di intendere e di volere. Bisognerebbe dunque mandarlo assolto: condannarlo sarebbe come condannare un animale che agisce in base ai cosiddetti istinti, o addirittura una macchina, incapace di scostarsi da un comportamento deterministico e inflessibile. Allo stesso tempo, tuttavia, proprio la sua incapacità di scostarsi da una condotta fissata rende pericoloso il violento 'per natura', quindi la società può e deve cautelarsi, come si cautela di fronte a una bestia sanguinaria o a una macchina impazzita, mettendolo in condizione di non nuocere. Non con il carcere, forse, ma con altre misure restrittive (non molto diverse dal carcere). Se viceversa non si accetta il determinismo genetico e si inclina per una predisposizione generica, o probabilistica, per cui rimane comunque un margine essenziale di libero arbitrio a condurre alle azioni criminose, allora la responsabilità resta e resta l’imputabilità. Il sistema giudiziario si è basato e si basa sul presupposto della libertà di scelta dell’imputato nella maggioranza dei casi e sulla possibilità del suo recupero mediante una serie di strumenti di riabilitazione, i quali fanno leva sulla componente esperienziale ed educativa: la cultura, insomma, in opposizione alla natura (come suggeriscono certe parole: riformatorio o casa di correzione).
Tuttavia, se nel comportamento criminale c’è una componente genetica, questa sembrerebbe refrattaria alla rieducazione e ciò potrebbe spiegare, in parte, il fatto increscioso che di fatto il carcere o il riformatorio siano per molti detenuti luoghi di pena e di educazione alla delinquenza più che di riabilitazione.
«Avvenire» del 7 novembre 2009

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