13 novembre 2009

Arte: e la Chiesa scelse il materialismo

Si può dire che l’arte occidentale discenda da un «miracolo»: la decisione anti-gnostica presa nel 787 dal concilio di Nicea contro l’iconoclastia
di Pierangelo Sequeri
La storia del pensiero cri­stiano appare interamen­te abitata da una straor­dinaria complessità di elabo­razioni teoriche e pratiche del­l’espressione, nei più diversi registri e domini del pensiero estetico-creativo. In larghissi­ma parte, questa storia coinci­de con la storia dell’Occiden­te. Dopo tutto, se l’Occidente ha una coscienza storica del significare, e ha sviluppato u­na coscienza evolutiva delle espressioni del pensiero e del­­l’arte, lo deve alla legittimazio­ne cristiana dell’impulso crea­tivo in cui l’umano si appro­pria delle modalità ermeneuti­che – e non puramente dog­matiche, o disciplinari, o ri­tuali – dell’esperienza del sa­cro. Sullo sfondo di questa lunga tradizione occidentale opera un gesto di vera e pro­pria rifondazione teologica dell’estetico, che appare ine­stirpabile dal destino del cri­stianesimo: come anche delle tradizioni artistiche che esso ha nutrito nella nostra cultura, comprese quelle che si sono separate dall’identità confes­sante della fede. Il gesto di cui parlo è la miracolosa decisione antignostica del cristianesimo, audacemente formulata sin dal principio della sua elabo­razione culturale. Una simile decisione può ben essere inte­sa come l’atto di fondazione di una teologia del sensibile. Dico decisione «miracolosa», per­ché l’improbabilità del gesto teorico non finirà mai di stu­pirci. La decisione antignosti­ca è pura invenzione contro­corrente nei confronti del pensiero filosofico e religioso più alto dell’epoca contestuale agli inizi cristiani. Il suo fonda­mento è, anzitutto, il più roc­cioso realismo della veritas he­braica circa la bontà della creazione, compreso il mondo materiale. Il suo vertice è il realismo della notitia evange­lica dell’incarnazione umana del Figlio, che non si scioglie neppure in Dio. E il suo appro­do la convinzione della risur­rezione dei morti, che miste­riosamente riscatta e trasfigu­ra in pura bellezza l’elemento sensibile, nel quale hanno preso «corpo» le più alte in­venzioni della mente e le mi­gliori affezioni dello spirito. E­mozioni indisgiungibili dalla vita eterna, che la vita dell’arte incide nell’anima per la sua destinazione. Decisione im­probabile, dicevo, per un cri­stianesimo assediato dalla no­bile tradizione delle più anti­che religioni del mondo, che avevano affinato le loro prati­che di rimozione del sensibile come via della redenzione e della luce dell’anima. Decisio­ne culturalmente imbarazzan­te, per un cristianesimo osser­vato dall’alto di una sapienza filosofica illuminata, che rac­coglieva nella vita della mente, e nella via di una theoria affat­to indifferente al logos del sen­sibile (oggi ereditata dall’idea­le della mathesis scientifica).
Ebbene, il cristianesimo, sollecitato dalla cultura dominante a nobilitarsi per la via di una trasformazione in religione dello pneuma incorruttibile, ostile nei confronti della irre­dimibile volgarità dell’aisthesis mondana, rifiutò semplice­mente l’alternativa. Nel lun­ghissimo metabolismo di que­sto sconvolgente passaggio (fosse più generosamente ri­percorso in questa chiave, nel­l’ambito delle stesse discipline ecclesiastiche) si potrebbero scorgere i segni, tutt’altro che timidi, del germe della singo­larità cristiana di un’estetica teologica virtualmente al lavo­ro. La storia dell’arte, indagata lungo questo solco, è infinita­mente più eloquente della convenzionale storia della teologia e della spiritualità, considerate separatamente e selettivamente, in base alle convenzioni di un codice sco­lastico (filosofico come teolo­gico) ormai palesemente ina­deguato a dar conto della realtà. Purché la storia dell’ar­te, a sua volta, incominci di nuovo a raccontarsi in tutta la sua larghezza, altezza, profon­dità: come storia di sensi e sensibilità delle passioni più intime e più alte, e non sem­plicemente come storia di in­venzioni stilistiche e di espe­dienti tecnici. Nel flusso di questo racconto, troverebbe facile collocazione anche la liquidazione di una memoria stereotipa che ha ridotto a spenta citazione – apologetica o subalterna – i sobri canoni ecclesiastici sull’argomento.
L’ispirazione antignostica è quella che fornisce infatti l’im­pulso decisivo alla risoluzione del Concilio Secondo di Nicea, del 787, che sancisce l’illegitti­mità del principio iconoclasta, pur riconoscendo la verità dei fraintendimenti che esso colpiva (idolatria, superstizione, manipolazione e mercanteg­giamento dell’icona sacra). La fedeltà alla logica dell’incarna­zione del Figlio è il fuoco dell’argomentazione risolutiva.
L’esito dell’ortodossia, come del resto l’intero contenzioso della polemica iconoclasta, non ha comunque nulla a che fare con il tema della qualità tecnica e stilistica dell’imma­gine artistica, nel senso in cui noi lo intendiamo ora, nella maturata libertà cristiano-oc­cidentale dell’espressione este­tica. È vero d’altra parte, come ormai la cultura della religione riconosce di nuovo chiara­mente, che il pronunciamento in favore della rappresentazio­ne sensibile del sacro, ha di­gnità di teologia. Il mondo non è una caduta del divino nelle regioni della corporeità spregevole, bensì il riflesso dell’amorevole condiscenden­za divina che lo mette a dispo­sizione di una creatura che porta la sua «im­magine e somi­glianza ». L’espres­sione artistica, nel regime antignosti­co della verità cri­stiana della crea­zione e dell’incar­nazione, lavora al livello della bellez­za – ineffabile, ir­raggiungibile, i­nimmaginabile – della creati­vità divina. Perché è proprio quella bellezza, e non meno che quella, il punto generatore di ogni azzardo dell’immagi­nazione creativa, che cerca il suo lampeggiare nel visibile.
«Avvenire» del 13 novembre 2009

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