29 giugno 2010

Come si può insegnare ai “nativi digitali” ossia ai ragazzi cresciuti all'ombra delle nuove tecnologie? Prova a rispondere un convegno a Torino

A scuola nel Cyberspazio
di Bruno Ventavoli
Il convegno «University and Cyberspace», che si svolge nell’Aula Magna del Politecnico di Torino (Corso Duca degli Abruzzi, 24), è organizzata dai due centri per Internet e la società, il Berkam di Harvard e il Nexa del Politecnico di Torino, diretto da Juan Carlos de Martin e Marco Ricolfi. I lavori saranno conclusi domani dal dibattito con Stephan Vincent-Lancrin (OECD), Francesco Profumo (Rettore del Politecnico di Torino), Mario Calabresi (direttore de «La Stampa»), Herbert Burkert (Università di San Gallo), Jafar Javan (UN Staff College), Charles Nesson (Berkman Center for Internet & Society), Chiara Basile (Politecnico di Torino), Sirin Tekinay (Ozyegin University, Istanbul). L’intero convegno si può seguire in diretta video e leggere con aggiornamenti in tempo reale su www.lastampa.it/cyberuniversita

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Studiano la poesia di Petrarca, intanto chattano, ascoltano un file musicale, rispondono al messaggino, guardano il filmato strano su Youtube. Leonardo da Vinci è passato alla storia per riuscire a fare un paio di cose contemporaneamente nell’era in cui c’era solo calamaio e pergamena, i nostri figli, con le nuove tecnologie ne fanno tre, cinque, dieci alla volta, con la stessa naturalezza con cui una volta noi piccoli calciavamo la palla. Sono la generazione dei «nativi digitali», croce e delizia del genitore che s’arrabatta come può nella limitazione del computer, perché non trova appigli nemmeno nell’indulgente Montessori. Ma il problema non è semplice questione di pedagogia domestica. Riguarda il futuro del mondo, dei comportamenti sociali, dei sistemi economici. I «nativi digitali» sono 2 miliardi - la data simbolica spartiacque è per quelli partoriti dopo il 1980 -, crescono, occupano ruoli importanti nella società, considerano gli strumenti della tecnologia come appendici del corpo e del pensiero, e cambiano il pianeta con i loro sogni e bisogni. Ma che rapporto c’è tra l’infinita potenzialità dell’Internet gratuito e l’insegnamento del sapere? Il problema, cruciale, è affrontato da un convegno internazionale, iniziato ieri a Torino, dal titolo stimolante «Università e cyberspazio», per capire che fare nelle accademie e non essere colti di sorpresa come accaduto all’industria musicale, ferita dalla pirateria, o ai giornali, che cercano di reagire all’emorragia di lettori cartacei.
I nativi digitali, lo dicono gli studiosi, hanno un cervello particolare. Imparano più facilmente a usare l’Iphone che a trovare il capezzolo della mamma per succhiarne il latte. Le loro connessioni neuronali sono diverse da chi è nato negli anni 60 e ha faticato a passare dai francobolli alla mail. Hanno trascorso almeno 20mila ore on line, più o meno come Mozart al pianoforte. Come trasformare quel loro sapere in genialità? Sono studenti, sono già, o saranno, professori. Così come hanno ciaccolato su Facebook della festa scolastica, potranno creare insieme, nel cyberspazio, un nuovo chip o una caffettiera informatizzata. L’università ne deve tenere conto, se non vuole condannarsi a stanco, inattuale, diplomificio, modificandosi nei metodi di insegnamento e persino nella sua struttura fisico-architettonica per intercettare i cambiamenti. John Palfrey, del Berkman Center for Internet e Society di Harvard, autore di studi su questa generazione, porta ad esempio lo studio di Oliver Wendell Holmes, celebre giurista americano. «Aveva una stanza tappezzata di libri, culla accogliente per la meditazione. Lì nascevano idee che hanno cambiato la società. Nell’era digitale è lecito pensare che le idee nascano in stanze vuote wi-fi, in computer che consentono l’accesso virtuale a tutte le biblioteche del mondo, persino nella radura di un bosco con un portatile. L’università come luogo chiuso, cittadella del sapere, con mura, campus, dormitori, dal medioevo ad oggi, cambierà, altrimenti rischia di dissolversi nella nuova società digitale».
Charles Nesson ha tenuto un corso ad Harvard su Second Life. Era un avatar e insegnava a studenti avatar nel mondo virtuale. Google maps si dimostra ottimo strumento didattico. Wikipedia, pur con le sue pecche, ha dimostrato che cosa può essere una comunità globale di persone che si uniscono per creare e condividere conoscenze. Le potenzialità sono immense, se applicate a nuovi modelli di studio e insegnamento. Con cautele, ovviamente, ma senza preclusioni. «I miei studenti portano il lap top in aula - dice Urs Gasser di Harvard - e dalla cattedra la prospettiva è completamente nuova. Prima mi guardavano negli occhi, ora sono chini sui piccoli schermi. E magari persi nel loro mondo, come quando a tavola il figlioletto china gli occhi per mandare sms invece di parlare o ascoltare la conversazione». Certo, la fidanzata che invia un bacio da messenger è un ottimo pretesto per distrarsi. Ma l’allievo neghittoso potevano distrarsi anche prima, con una rondine sul ramo fuori dalla finestra. E non tutti i lap top vengono per nuocere. «Gli studenti interagiscono meglio con il professore - dice Juan Carlos de Martin - alle mie lezioni collaborano, correggono, aggiungono informazioni in tempo reale, usando la rete».
Internet frantuma, quindi, anche le gerarchie del sapere. La prima cosa che un docente faceva con lo studente che chiedeva la tesi, era fornire la bibliografia. Ora i ragazzi portano contro-bibliografie pizzicate sulla rete. Talvolta sono abbagli, idee fuori tema. Spesso, invece, il dialogo diventa costruttivo. Sempre più simile a un sapere peer to peer. Non il prof «ex cathedra» che distilla gocce di erudizione. Ma un Socrate maieuta, che insegnava con il dialogo, passeggiando in agorà. Molto friendly. Anche se un pizzico di cicuta può nascondersi nell’infinita sovrabbondanza di informazioni. Aneddoto di Marco De Rossi, che giovanissimo ha creato un’università on line (www.oilproject.org) dove si è insegnanti e allievi contemporaneamente, e non c’è più bisogno di volare in California per ascoltare un luminare: «Un amico ha scritto un articolo su “Alice nel Paese delle meraviglie”. Impeccabile, documentato. Concludeva però “è il più bel romanzo della letteratura italiana”. La sciocchezza è evidente. Tuttavia meno rischiosa di ciò che si pensi. Perché l’errore viene immediatamente corretto nei blog, nei commenti. Il sapere on line non è più vulnerabile di quello cartaceo. Anzi, al contrario è sottoposto a una verifica più veloce e puntuale dalla comunità».
Un tempo, l’informazione era sacra, illuminava dall’alto. «L’ha detto la tv, i giornali», tagliavano la testa al toro della verità le nostre nonne. I nativi digitali questo non l’accettano più. Guardano pochissimo la tv, i giornali li sfogliano on line, e non accettano nulla per scontato. Ma - sorpresa - non rifiutano il vecchio libro. Nelle università americane avevano proposto di offrire testi solo digitali: hanno declinato, perché il libro si può portare in «beach, bath, bed». Commentano, discutono, smascherano menzogne e bufale. Non a caso i regimi dittatoriali, che amano le veline, limitano fortemente l’accesso alla rete. E l’immensa condivisione dell’informazione gratuita fa nascere nuova creatività, come la palla di neve che diventa valanga. Saperi marginali, ma importanti, che faticano a trovare spazio nelle facoltà assetate di fondi, amputate nelle cattedre, rinascono nel cyberspazio. Un docente con soli sette allievi, oltre alla malinconia, rischia di perdere il posto. Unito ad altri venti come lui sparsi nel mondo, può continuare a fare ricerca.
Le università sono nate come «Universitas Magistrorum et Scholarium». Un patto per disputare sugli universali o sulle leggi della natura. E soprattutto per elaborare un sapere critico che ha fatto evolvere il mondo. Internet è uno strumento grandioso, un cybercontinente da esplorare, colonizzare, regolamentare. Ma c’è uno spazio là dentro che va oltre il copyright, la sicurezza, le norme. Indipendente dalla politica e dal profitto. E che l’università può colmare per tornare alla forza culturale delle origini.
«La Stampa» del 29 giugno 2010

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