Proprio oggi, 18 maggio, alle 13.30 Sanguineti muore a Genova
Lo scrittore ligure esamina i meccanismi del Comico al centro di una rassegna
di Edoardo Sanguineti
Quel riflesso primordiale addomesticato dalla società Ma nel mercato planetario far ridere è arma di potere
L’uomo è l’animale che ride. So benissimo che molti etologi alla Lorenz, e una quantità di «-ologi» senza fine, sono pronti a smentirmi con infiniti argomenti. Ma devo confessare che, personalmente, inclino a schierarmi con quel saggio autore della vita del grande Gargantua, padre di Pantagruel (libro pieno di pantagruelismo, diceva), il quale, rivolgendosi ai propri lettori, ricordava che è meglio scrivere di riso che di lacrime, perché ridere è ciò che è proprio dell’uomo. Nel testo, Rabelais proclama, meglio e più precisamente, che appunto «mieux est de ris que des larmes escrire, pour ce que rire est le propre de l’homme».
Mi piace dire, e lo dico ad ogni occasione propizia, e anche quando propizia non è, che l’uomo nasce animale, e con molta pena e travaglio, suo e di chi lo umanizza, o si sforza di farlo, si fa umano, trasferendosi dalla sua naturale animalità alle sfere della società e della storia. Quest’operazione, per un groddeckiano come sono, dà risultati modestissimi. Ma l’orizzonte della cultura, che si giuoca per intiero tra Eros e Thanatos, non ha contenuti diversi. Chiunque abbia la pazienza di osservare un neonato, un bambino, un infante qualunque, sa perfettamente che un riflesso banale quale è il sorriso viene addomesticato, o vogliamo dire umanizzato, battezzandolo come sorriso. Che sia un effetto di mera soddisfazione digestiva, un segnale radicato più o meno in comportamenti gastrici, mi appare ipotesi ragionevole, e statisticamente diffusa. Chi ha voglia e pazienza, può impegnarsi anche nell’interpretazione di quel «risu cognoscere matrem », cui si esorta il «parvus puer» di Virgilio.
Ora, dicano tutti i filologi quello che vogliono, per me, ostinato, l’espressione è intenzionalmente ambivalente. Il «puer» si fa la sua smorfia, e la madre (o chi non vuole fabbricarsi un «enfant sauvage» con poca spesa) ride a quel riso, innalzando a un livello superiore tutto quello che è apprestato, da infiniti preamboli importantissimi, nella lunga preistoria uterina. Un mio recente nipotino trienne, anagrafato come Luca, mi ha concesso di ripassare quanto avevo appreso da quattro paternità, e anche da svariate osservazioni meno coinvolgenti e per così dire, disinteressate.
Allora, quell’equivoco civile che si produce tra un ridere infantiloide e un ridere maternoide, è poi la base per cui il plasmabilmente umanoide in divenire è spronato a mimare, da buon mimoide qual è, il dilettoso ridere nostrano (o, per essere più scrupolosi, quello della tribù alla quale appartiene).
Chi ha sfogliato anche soltanto un po’ certe pagine del grandissimo Mauss, intorno alle tecniche del corpo, che invito a mandare a mente e a divulgare con ardore, sa che ogni gruppo umano ha un suo modo specifico, nel ridere, e oggetti di riso che sono assolutamente caratterizzanti. Nell’età della globalizzazione compiuta, rimescolandosi i codici comunicativi internazionalmente, si può speculare, a fini economici (connessi ai valori pubblicitari, come è noto): il riso si omogeneizza nel mercato planetario e diventa contagiosamente poco meno che terrestre, con quegli effetti di risate indotte, talora dal pubblico a ciò ostentatamente ormai invitato sul piccolo schermo, e altre volte, che è cosa più forte, incorporato nel sonoro televisivo, impudicissimamente. L’utente solitario, così, è trascinato sopra una piazza spettacolare, e trova sodali immaginari mirabilmente predisposti.
Detto in altra maniera, i dialetti del ridere muoiono di morte artificiale, come quelli verbali, salvo che per alcuni reazionari nostalgici, che intendono serbarsi idioti, nell’accezione grecizzante del vocabolo, e di qui pronti a transitare in comunità in cui il vocabolo diventa indizio di patologia mentale, come avviene nell’uso e nelle locuzioni correnti. Ma si può giungere, volendo, alle più sottili sfumature localistiche, da cui, infine, si deduca un motto del tipo: dimmi, tu che mi ascolti, se mi ascolti, come ridi, e di che, e ti dirò chi sei.
E ho fiducia nel consenso unanime degli analisti, se non di altre e più vaste complicità. La umanizzazione della bestia che abita in noi, a farla breve, è che, un po’ alla volta, l’infante che ride perché infetto degli adulti a siffatto costume, apprende dagli adulti, con tutti gli altri codici comunicativi, quello del ridere con garbo e proprietà, per quel che l’ambiente socio-politico- ideologico gli prospetta e gli censura. Chi riesce a farti ridere, quello già ti possiede, in certa misura, perché, infine, ti seduce.
Ogni seduttore sa bene che, per conquistare l’oggetto vivente del desiderio, si tratta, dosando bene le scelte, le situazioni, le dosi, di muoverlo al riso o al pianto. Chi si guarda dal politico che, come iena temibile, va barzellettando, si avvia, per questo stesso fatto, sulla lunga strada della libertà. Dai leoni non è difficilissimo guardarsi, per noi, poveri uomini, ma dalle volpi amene occorre prendere prontamente le distanze, con quell’onestà decorosa che giova al buon cittadino.
Mi piace dire, e lo dico ad ogni occasione propizia, e anche quando propizia non è, che l’uomo nasce animale, e con molta pena e travaglio, suo e di chi lo umanizza, o si sforza di farlo, si fa umano, trasferendosi dalla sua naturale animalità alle sfere della società e della storia. Quest’operazione, per un groddeckiano come sono, dà risultati modestissimi. Ma l’orizzonte della cultura, che si giuoca per intiero tra Eros e Thanatos, non ha contenuti diversi. Chiunque abbia la pazienza di osservare un neonato, un bambino, un infante qualunque, sa perfettamente che un riflesso banale quale è il sorriso viene addomesticato, o vogliamo dire umanizzato, battezzandolo come sorriso. Che sia un effetto di mera soddisfazione digestiva, un segnale radicato più o meno in comportamenti gastrici, mi appare ipotesi ragionevole, e statisticamente diffusa. Chi ha voglia e pazienza, può impegnarsi anche nell’interpretazione di quel «risu cognoscere matrem », cui si esorta il «parvus puer» di Virgilio.
Ora, dicano tutti i filologi quello che vogliono, per me, ostinato, l’espressione è intenzionalmente ambivalente. Il «puer» si fa la sua smorfia, e la madre (o chi non vuole fabbricarsi un «enfant sauvage» con poca spesa) ride a quel riso, innalzando a un livello superiore tutto quello che è apprestato, da infiniti preamboli importantissimi, nella lunga preistoria uterina. Un mio recente nipotino trienne, anagrafato come Luca, mi ha concesso di ripassare quanto avevo appreso da quattro paternità, e anche da svariate osservazioni meno coinvolgenti e per così dire, disinteressate.
Allora, quell’equivoco civile che si produce tra un ridere infantiloide e un ridere maternoide, è poi la base per cui il plasmabilmente umanoide in divenire è spronato a mimare, da buon mimoide qual è, il dilettoso ridere nostrano (o, per essere più scrupolosi, quello della tribù alla quale appartiene).
Chi ha sfogliato anche soltanto un po’ certe pagine del grandissimo Mauss, intorno alle tecniche del corpo, che invito a mandare a mente e a divulgare con ardore, sa che ogni gruppo umano ha un suo modo specifico, nel ridere, e oggetti di riso che sono assolutamente caratterizzanti. Nell’età della globalizzazione compiuta, rimescolandosi i codici comunicativi internazionalmente, si può speculare, a fini economici (connessi ai valori pubblicitari, come è noto): il riso si omogeneizza nel mercato planetario e diventa contagiosamente poco meno che terrestre, con quegli effetti di risate indotte, talora dal pubblico a ciò ostentatamente ormai invitato sul piccolo schermo, e altre volte, che è cosa più forte, incorporato nel sonoro televisivo, impudicissimamente. L’utente solitario, così, è trascinato sopra una piazza spettacolare, e trova sodali immaginari mirabilmente predisposti.
Detto in altra maniera, i dialetti del ridere muoiono di morte artificiale, come quelli verbali, salvo che per alcuni reazionari nostalgici, che intendono serbarsi idioti, nell’accezione grecizzante del vocabolo, e di qui pronti a transitare in comunità in cui il vocabolo diventa indizio di patologia mentale, come avviene nell’uso e nelle locuzioni correnti. Ma si può giungere, volendo, alle più sottili sfumature localistiche, da cui, infine, si deduca un motto del tipo: dimmi, tu che mi ascolti, se mi ascolti, come ridi, e di che, e ti dirò chi sei.
E ho fiducia nel consenso unanime degli analisti, se non di altre e più vaste complicità. La umanizzazione della bestia che abita in noi, a farla breve, è che, un po’ alla volta, l’infante che ride perché infetto degli adulti a siffatto costume, apprende dagli adulti, con tutti gli altri codici comunicativi, quello del ridere con garbo e proprietà, per quel che l’ambiente socio-politico- ideologico gli prospetta e gli censura. Chi riesce a farti ridere, quello già ti possiede, in certa misura, perché, infine, ti seduce.
Ogni seduttore sa bene che, per conquistare l’oggetto vivente del desiderio, si tratta, dosando bene le scelte, le situazioni, le dosi, di muoverlo al riso o al pianto. Chi si guarda dal politico che, come iena temibile, va barzellettando, si avvia, per questo stesso fatto, sulla lunga strada della libertà. Dai leoni non è difficilissimo guardarsi, per noi, poveri uomini, ma dalle volpi amene occorre prendere prontamente le distanze, con quell’onestà decorosa che giova al buon cittadino.
«Corriere della Sera» del 18 maggio 2010
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