di Massimo Gramellini
Nel sovrano disinteresse del popolo sovrano e della maggioranza più che assoluta dei suoi rappresentanti, comincia stamattina la sarabanda delle celebrazioni per i 150 anni dell’Italia Unita. Comincia a Reggio Emilia, con l’omaggio al Tricolore da parte del Presidente della Repubblica: uno dei pochi a crederci davvero, e non solo per dovere d’ufficio. Dopo il rito della bandiera (che di anni ne ha oltre duecento) arriveranno le ricorrenze vere. Le prime elezioni nazionali del 27 gennaio 1861, riservate a una minoranza di maschi abbienti, alfabetizzati e mangiapreti (la Chiesa aveva proibito le urne ai cattolici): il più votato risultò Cavour con 620 voti. L’assedio di Gaeta con cui il 13 febbraio si archiviò a suon di bombe la resistenza dei Borboni, appena in tempo per non sciupare la seduta delle Camere riunite nel cortile torinese di Palazzo Carignano, quando il Capo dello Stato, che allora era il Re, rivolse ai parlamentari la prima di una lunga e mai terminata serie di prediche inutili: «Signori deputati! Signori senatori! L’Italia confida nella virtù e nella sapienza vostra!». Fino a quel 17 marzo, una domenica, in cui i pochi italiani che sapevano leggere appresero dalla Gazzetta Ufficiale che il Parlamento aveva proclamato il Regno d’Italia con il voto contrario di due soli senatori, dei quali taceremo i nomi per non togliere a Bossi il piacere di scoprirli e di andare a deporre sulle loro tombe una decalcomania del Sole delle Alpi. Qualche malizioso potrebbe chiedere di protrarre il gioco delle ricorrenze al 18 aprile 1861, 150° anniversario della prima rissa parlamentare, e mica fra cicchitti e bocchini: fra Garibaldi e Cavour, che sarebbe poi morto quattro mesi dopo, lasciando l’Italia più o meno dove sta adesso: nei pasticci.
Ci attende un anno di inni, parate, discorsi e baruffe sulla Patria, ma nessuno può dire se alla fine del 2011 gli italiani si innamoreranno di lei o se ne saranno definitivamente nauseati. Probabilmente continueranno a trattarla come ora, con amore comparativo: parlandone bene solo quando sono all’estero. L’italiano non considera l’Italia la sua Patria, così come - sia chiaro - non considererebbe Patria la Padania, la Borbonia o qualsiasi altra comunità più vasta della sua famiglia, del suo quartiere o, forse, della sua città che gli chiedesse di emettere fattura fiscale. Per un italiano ciò che appartiene a tutti, per il semplice fatto di non appartenere soltanto a lui, non appartiene a nessuno. Ci sono voluti quattordici secoli, dalla fine dell’Impero Romano all’Unità, per cucirci addosso questo atteggiamento mentale. Ne mancano quindi ancora dodici e mezzo per rimetterci in pari.
Ma non è onesto affermare che rispetto al Centenario del 1961 lo spirito di Patria si sia affievolito. Il divario fra settentrionali e meridionali era molto più aspro cinquant’anni fa, e si manifestava nelle forme di una diffidenza razzista che non di rado trascendeva nell’ostilità. La differenza è che allora non c’erano, né a Nord né a Sud, partiti di massa disposti a cavalcarla. Ciò che l’emigrazione, i matrimoni e la tv hanno unito in questi decenni è stato in parte disfatto dalla politica, che ha sistematicamente eroso i simboli dell’unità nazionale, dalla Costituzione ai miti fondativi (esagerati ma autentici, come tutti i miti) del Risorgimento e della Resistenza. Come nel mondo capovolto di Alice, la Patria ha cessato di essere una parola di destra e si è spostata verso il centro, se non proprio a sinistra. Ma chiunque, a destra e a sinistra, intenda oggi fondare un partito, sostituisce le ideologie con le microappartenenze territoriali e vede quindi nella Patria tutta intera un inciampo. Sono i politici, non i cittadini, ad aver rimosso la ricorrenza del 2011. Infatti, nel dibattito «elezioni a marzo sì-elezioni a marzo no» che li appassiona da mesi, nessuno dei leader ha neanche minimamente pensato che sovrapporre i veleni di una campagna elettorale alle celebrazioni del Centocinquantenario sarebbe come invitare una banda di bulli muniti di pennello e vernice alla festa di compleanno della scuola. Nordisti e sudisti che insultano l’Italia sulle piazze d’Italia, mentre il Capo dello Stato scopre targhe commemorative e omaggia bandiere risorgimentali: fra le tante schizofrenie di questo beneamato Paese, che almeno questa ci venga risparmiata.
Ci attende un anno di inni, parate, discorsi e baruffe sulla Patria, ma nessuno può dire se alla fine del 2011 gli italiani si innamoreranno di lei o se ne saranno definitivamente nauseati. Probabilmente continueranno a trattarla come ora, con amore comparativo: parlandone bene solo quando sono all’estero. L’italiano non considera l’Italia la sua Patria, così come - sia chiaro - non considererebbe Patria la Padania, la Borbonia o qualsiasi altra comunità più vasta della sua famiglia, del suo quartiere o, forse, della sua città che gli chiedesse di emettere fattura fiscale. Per un italiano ciò che appartiene a tutti, per il semplice fatto di non appartenere soltanto a lui, non appartiene a nessuno. Ci sono voluti quattordici secoli, dalla fine dell’Impero Romano all’Unità, per cucirci addosso questo atteggiamento mentale. Ne mancano quindi ancora dodici e mezzo per rimetterci in pari.
Ma non è onesto affermare che rispetto al Centenario del 1961 lo spirito di Patria si sia affievolito. Il divario fra settentrionali e meridionali era molto più aspro cinquant’anni fa, e si manifestava nelle forme di una diffidenza razzista che non di rado trascendeva nell’ostilità. La differenza è che allora non c’erano, né a Nord né a Sud, partiti di massa disposti a cavalcarla. Ciò che l’emigrazione, i matrimoni e la tv hanno unito in questi decenni è stato in parte disfatto dalla politica, che ha sistematicamente eroso i simboli dell’unità nazionale, dalla Costituzione ai miti fondativi (esagerati ma autentici, come tutti i miti) del Risorgimento e della Resistenza. Come nel mondo capovolto di Alice, la Patria ha cessato di essere una parola di destra e si è spostata verso il centro, se non proprio a sinistra. Ma chiunque, a destra e a sinistra, intenda oggi fondare un partito, sostituisce le ideologie con le microappartenenze territoriali e vede quindi nella Patria tutta intera un inciampo. Sono i politici, non i cittadini, ad aver rimosso la ricorrenza del 2011. Infatti, nel dibattito «elezioni a marzo sì-elezioni a marzo no» che li appassiona da mesi, nessuno dei leader ha neanche minimamente pensato che sovrapporre i veleni di una campagna elettorale alle celebrazioni del Centocinquantenario sarebbe come invitare una banda di bulli muniti di pennello e vernice alla festa di compleanno della scuola. Nordisti e sudisti che insultano l’Italia sulle piazze d’Italia, mentre il Capo dello Stato scopre targhe commemorative e omaggia bandiere risorgimentali: fra le tante schizofrenie di questo beneamato Paese, che almeno questa ci venga risparmiata.
«La Stampa» del 7 gennaio 2011
Nessun commento:
Posta un commento