Caso Battisti, immagine Italia
di Ernesto Galli della Loggia
Un Paese che vuole contare è innanzi tutto un Paese di cui gli altri conoscono la storia
Per motivi fin troppo ovvii il caso Battisti mette in questione l'immagine dell'Italia, ci obbliga a considerare come il mondo ci vede. Certo, Brasile e Francia non sono il mondo. Sono pur sempre, tuttavia, due grandi Paesi rappresentativi di interi universi culturali. Due Paesi che contano. Ebbene, «Il Brasile - ha scritto a ragione Peppino Caldarola sul Riformista - ha trattato il nostro Paese come un alleato minore cui assestare uno schiaffo con la certezza di non subire conseguenze». Dalla Francia, invece, una fitta schiera di autorevoli intellettuali, oltre a trovare tutte le scuse possibili e impossibili (in verità esclusivamente quest'ultime, direi) per il pluriomicida Battisti, non ha mancato di impartirci la lezione del caso sul terrorismo, sugli «anni di piombo», sulla giustizia, sulle nostre supposte manchevolezze in tutti questi ambiti e in molti altri ancora.
Nel primo caso la diplomazia risponderà come deve. In quanto opinione pubblica, invece, sarebbe sbagliato se la nostra reazione si limitasse a quella degli offesi, se fosse la reazione adontata e dai toni vagamente sciovinisti echeggiati per esempio in certe dichiarazioni governative. Meglio faremmo a renderci conto che quanto accaduto nei giorni scorsi rispecchia piuttosto un dato permanente. E cioè che presso la stragrande maggioranza dei pubblici stranieri l'Italia così com'è è una realtà largamente ignorata. È ignorata la sua storia unitaria, e in modo particolarissimo quella degli ultimi quindici anni. È perlopiù sconosciuto il modo di funzionare dei suoi organi costituzionali (i loro poteri, le loro prerogative) e specialmente della giustizia. Egualmente pressoché sconosciuti sono il tono effettivo della nostra vita pubblica e politica, la variegata qualità delle nostre relazioni sociali, dei nostri costumi e comportamenti collettivi, direi anche la qualità del nostro dibattito intellettuale. Anche per gli stranieri colti, troppo spesso l'immagine attuale dell'Italia è schiacciata sotto il peso di tre stereotipi: Berlusconi (vissuto come un mistero orripilante, premessa di ogni male), l'onnipotenza della mafia e della camorra, il pervadente oscurantismo del Cattolicesimo. Per il resto: approssimazione, inefficienza, arbitrio. Insomma, il solito folklore mediterraneo.
Ma se le cose stanno così la colpa è soprattutto nostra. Per esempio del nostro ministero degli Esteri, che per una pitoccheria suicida lascia da anni nel più completo abbandono la rete dei nostri istituti culturali all'estero (di un numero ridicolmente elevato e quindi anche per questo con scarsissime risorse, scoordinati, privi di un indirizzo unitario); che cura in modo assolutamente inadeguato i corrispondenti della stampa estera in Italia non fornendo loro occasioni significative per conoscere più approfonditamente il Paese; che non si preoccupa di finanziare in misura significativa la traduzione di opere italiane, di mantenere stabili rapporti con i numerosi dipartimenti di studi italiani nelle università straniere, di avere una politica favorevole e larga di occasioni per tutti coloro (e sono ancora molti) che all'estero si occupano in modo serio d'Italia e di cose italiane.
Un'altra parte non indifferente di responsabilità ce l'hanno poi gli ambienti intellettuali di casa nostra. Troppi nostri scrittori, artisti, uomini di cultura, sembrano farsi quasi un punto d'onore nel compiacere senza fiatare le opinioni più raffazzonate e sommarie che capita loro di ascoltare da amici o colleghi stranieri quando si parla dell'Italia. E il loro più o meno tacito assentire ha peso, conta. In essi mostrarsi ostili al governo di destra in carica, così raccogliendo il quasi certo consenso dell'interlocutore, ha in genere la meglio su qualsiasi sforzo volto per esempio a chiarire le ragioni di fondo, i motivi complessi, che spesso spiegano per non piccola parte tanti aspetti negativi della nostra situazione. Per quanto almeno mi è capitato di vedere, quella cosa che si chiama «carità di patria» - e che per l'appunto dovrebbe indurre, non certo a nascondere la propria opinione, ma almeno ad accompagnarla con discorsi più alti e con un certo distacco - non è merce molto diffusa tra gli italiani colti quando si trovano fuori casa. Si aggiunga poi il nostro invincibile provincialismo culturale, il quale tende troppe volte a farci apparire bello ciò che non è italiano. E che per esempio qualche tempo fa ha spinto anche una casa editrice come Laterza ma non è certo la sola! a tradurre un libro come quello di Christopher Duggan, La forza del destino, un libro che offre una versione della storia italiana negli ultimi 150 anni che dire caricaturale è dire poco. Noi stessi contribuendo in tal modo ad accreditare un punto di vista circa il nostro passato che non aiuta certo a capire nulla del nostro presente. È così - è anche, e anzi soprattutto, così - che quando poi capita che l'Italia debba misurare il peso e la qualità della propria immagine nell'arena internazionale, essa si ritrova con il bel risultato che le ha riservato il caso Battisti. Un Paese che vuole contare ed essere preso sul serio dagli altri è innanzi tutto un Paese di cui gli altri conoscono a sufficienza la storia e la realtà attuale, un Paese che, se è l'Italia, non deve, o non dovrebbe, essere scambiato per la Macedonia o per la Colombia con buona pace di entrambe.
Nel primo caso la diplomazia risponderà come deve. In quanto opinione pubblica, invece, sarebbe sbagliato se la nostra reazione si limitasse a quella degli offesi, se fosse la reazione adontata e dai toni vagamente sciovinisti echeggiati per esempio in certe dichiarazioni governative. Meglio faremmo a renderci conto che quanto accaduto nei giorni scorsi rispecchia piuttosto un dato permanente. E cioè che presso la stragrande maggioranza dei pubblici stranieri l'Italia così com'è è una realtà largamente ignorata. È ignorata la sua storia unitaria, e in modo particolarissimo quella degli ultimi quindici anni. È perlopiù sconosciuto il modo di funzionare dei suoi organi costituzionali (i loro poteri, le loro prerogative) e specialmente della giustizia. Egualmente pressoché sconosciuti sono il tono effettivo della nostra vita pubblica e politica, la variegata qualità delle nostre relazioni sociali, dei nostri costumi e comportamenti collettivi, direi anche la qualità del nostro dibattito intellettuale. Anche per gli stranieri colti, troppo spesso l'immagine attuale dell'Italia è schiacciata sotto il peso di tre stereotipi: Berlusconi (vissuto come un mistero orripilante, premessa di ogni male), l'onnipotenza della mafia e della camorra, il pervadente oscurantismo del Cattolicesimo. Per il resto: approssimazione, inefficienza, arbitrio. Insomma, il solito folklore mediterraneo.
Ma se le cose stanno così la colpa è soprattutto nostra. Per esempio del nostro ministero degli Esteri, che per una pitoccheria suicida lascia da anni nel più completo abbandono la rete dei nostri istituti culturali all'estero (di un numero ridicolmente elevato e quindi anche per questo con scarsissime risorse, scoordinati, privi di un indirizzo unitario); che cura in modo assolutamente inadeguato i corrispondenti della stampa estera in Italia non fornendo loro occasioni significative per conoscere più approfonditamente il Paese; che non si preoccupa di finanziare in misura significativa la traduzione di opere italiane, di mantenere stabili rapporti con i numerosi dipartimenti di studi italiani nelle università straniere, di avere una politica favorevole e larga di occasioni per tutti coloro (e sono ancora molti) che all'estero si occupano in modo serio d'Italia e di cose italiane.
Un'altra parte non indifferente di responsabilità ce l'hanno poi gli ambienti intellettuali di casa nostra. Troppi nostri scrittori, artisti, uomini di cultura, sembrano farsi quasi un punto d'onore nel compiacere senza fiatare le opinioni più raffazzonate e sommarie che capita loro di ascoltare da amici o colleghi stranieri quando si parla dell'Italia. E il loro più o meno tacito assentire ha peso, conta. In essi mostrarsi ostili al governo di destra in carica, così raccogliendo il quasi certo consenso dell'interlocutore, ha in genere la meglio su qualsiasi sforzo volto per esempio a chiarire le ragioni di fondo, i motivi complessi, che spesso spiegano per non piccola parte tanti aspetti negativi della nostra situazione. Per quanto almeno mi è capitato di vedere, quella cosa che si chiama «carità di patria» - e che per l'appunto dovrebbe indurre, non certo a nascondere la propria opinione, ma almeno ad accompagnarla con discorsi più alti e con un certo distacco - non è merce molto diffusa tra gli italiani colti quando si trovano fuori casa. Si aggiunga poi il nostro invincibile provincialismo culturale, il quale tende troppe volte a farci apparire bello ciò che non è italiano. E che per esempio qualche tempo fa ha spinto anche una casa editrice come Laterza ma non è certo la sola! a tradurre un libro come quello di Christopher Duggan, La forza del destino, un libro che offre una versione della storia italiana negli ultimi 150 anni che dire caricaturale è dire poco. Noi stessi contribuendo in tal modo ad accreditare un punto di vista circa il nostro passato che non aiuta certo a capire nulla del nostro presente. È così - è anche, e anzi soprattutto, così - che quando poi capita che l'Italia debba misurare il peso e la qualità della propria immagine nell'arena internazionale, essa si ritrova con il bel risultato che le ha riservato il caso Battisti. Un Paese che vuole contare ed essere preso sul serio dagli altri è innanzi tutto un Paese di cui gli altri conoscono a sufficienza la storia e la realtà attuale, un Paese che, se è l'Italia, non deve, o non dovrebbe, essere scambiato per la Macedonia o per la Colombia con buona pace di entrambe.
«Corriere della Sera» del 7 gennaio 2011
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