Cicerone & management
di Giovanni Santambrogio
Nessuno nega il valore della cultura, ma appena si entra nella discussione di ciò che essa è, e di che cosa vada insegnato per formare un individuo, nascono le dispute più accese. Il latino serve ancora oppure no? La storia antica va salvata o tralasciata per sostituirla con lo studio approfondito del Novecento? Aspettando che la riforma della scuola dia risposte anche a questi quesiti, ascoltiamo la breve e vibrante orazione di Cicerone, il Pro Archia, appena tradotta da Gavino Manca nella collana "I classici" diretta da Carlo Carena e pubblicata dall’editore Armando Dadò di Locarno.
Archia era un poeta che, lasciata l’originaria Antiochia, si stabilì a Roma entrando presso nei circoli intellettuali e dell’alta politica. Compose numerose opere e cantò le imprese romane. Eppure di suo non è rimasto un verso. Se si parla di lui, lo si deve a Cicerone che fu suo discepolo e, nel 62 a.C., lo difese davanti al pretore dall’accusa di aver usurpato la cittadinanza romana, cui non aveva diritto in base a nuove disposizioni. L’orazione si divide in due parti: la prima smonta le accuse e documenta le procedure che hanno reso cittadino di Roma il poeta asiatico, la seconda tesse l’elogio della cultura e dello studio delle lettere conte strumento e «aiuto per la conoscenza e la pratica della virtù». Anche quando la lettura può apparire soltanto nn piacere più che una capitalizzazione di sapere con vantaggi immediati, anche allora, sostiene Cicerone, va apprezzata e coltivata: si tratta di una "ricreazione dell’animo" tra le più degne e nobili per un uomo. II motivo è molto semplice e immediatamente percepibile: «Tutti gli altri svaghi non si adattano ugualmente a ogni circostanza, tempo, luogo, mentre questi studi spronano i giovani, allietano i vecchi, sono un ornamento nel benessere, offrono rifugio e conforto nelle avversità: ci rallegrano in casa, fuori non ci danno impaccio, vegliano di notte con noi, con noi viaggiano». Un modo per dire che la personalità, lo spessore e la forza di un individuo si formano nel tempo e in mille interessi.
Esiste un dialogo continuo con sé stessi, con le prove della storia, con gli avvenimenti previsti c inprevedibili, con il senso delle cose e con il loro mistero. Dentro questa "narrazione" si affina la saggezza che è prudenza, capacità di rischio, affetto, progettazione personale e sensibilità per la collettività. Diversamente non si dà dominio di sé e delle cose. La vita è un’arte che s’impara vivendo. E nulla sostituisce l’esperienza, neppure un corso di formazione accelerato e intensivo, come vanno di moda oggi, per preparare chi deve gestire uffici e imprese.
Gavino Manca questo lo sa: diversamente non insisterebbe a proporre classici (ricordiamo che ha tradotto Seneca, Orazio, Cicerone per Einaudi, Sellerio, Scheiwiller e Armando Dadò), ma avendo alle spalle responsabilità manageriali nel gruppo Pirelli e l’insegnamento in Bocconi, potrebbe benissimo scrivere di strategia e organizzazione. Invece no, anticipando un orientamento che ha messo radici negli ultimi anni nelle Business School americane e inglesi, ha preferito la frequentazione dei grandi autori del passato, che hanno insegnamenti di vita da indicare. Chi, come un manager, tratta con gli individui diversi per perseguire obiettivi precisi, riesce a raggiungerli se ha dimestichezza con le psicologie, gli umori, le debolezze e gli orgogli umani. Non a caso i veri capi rivelano interessi culturali raffinati, oltre a dominare il proprio specifico settore di competenza sul posto di lavoro. La classe non si improvvisa, né si acquisisce su un “bignamino”.
Il Pro Archia mette sull’avviso e smaschera come rozzi i tentativi di coloro che, impuntandosi su cavilli o un qualsiasi altro pretesto, intendono emarginare l’uomo di cultura perché è diverso e non omologato. Ciò che si è scritto e fatto resta, sottolinea con insistenza Cicerone. Da qui nascono fama e gloria che il tempo - giudice - sa preservare dagli attacchi degli invidiosi. Le vittorie dei "solerti tecnici", quando accadono, hanno breve durata e creano guasti perché per ricostruire un clima e una sensibilità culturale servono gli uomini che apprezzano gli uomini, ovvero uomini con un’identità. E la cultura è ciò che la forma.
Marco Tullio Cicerone, «Per un poeta», traduzione e introduzione di Gavino Manca, Armando Dadò editore, Locarno 1997, pagg. 50, s.i.p.
Archia era un poeta che, lasciata l’originaria Antiochia, si stabilì a Roma entrando presso nei circoli intellettuali e dell’alta politica. Compose numerose opere e cantò le imprese romane. Eppure di suo non è rimasto un verso. Se si parla di lui, lo si deve a Cicerone che fu suo discepolo e, nel 62 a.C., lo difese davanti al pretore dall’accusa di aver usurpato la cittadinanza romana, cui non aveva diritto in base a nuove disposizioni. L’orazione si divide in due parti: la prima smonta le accuse e documenta le procedure che hanno reso cittadino di Roma il poeta asiatico, la seconda tesse l’elogio della cultura e dello studio delle lettere conte strumento e «aiuto per la conoscenza e la pratica della virtù». Anche quando la lettura può apparire soltanto nn piacere più che una capitalizzazione di sapere con vantaggi immediati, anche allora, sostiene Cicerone, va apprezzata e coltivata: si tratta di una "ricreazione dell’animo" tra le più degne e nobili per un uomo. II motivo è molto semplice e immediatamente percepibile: «Tutti gli altri svaghi non si adattano ugualmente a ogni circostanza, tempo, luogo, mentre questi studi spronano i giovani, allietano i vecchi, sono un ornamento nel benessere, offrono rifugio e conforto nelle avversità: ci rallegrano in casa, fuori non ci danno impaccio, vegliano di notte con noi, con noi viaggiano». Un modo per dire che la personalità, lo spessore e la forza di un individuo si formano nel tempo e in mille interessi.
Esiste un dialogo continuo con sé stessi, con le prove della storia, con gli avvenimenti previsti c inprevedibili, con il senso delle cose e con il loro mistero. Dentro questa "narrazione" si affina la saggezza che è prudenza, capacità di rischio, affetto, progettazione personale e sensibilità per la collettività. Diversamente non si dà dominio di sé e delle cose. La vita è un’arte che s’impara vivendo. E nulla sostituisce l’esperienza, neppure un corso di formazione accelerato e intensivo, come vanno di moda oggi, per preparare chi deve gestire uffici e imprese.
Gavino Manca questo lo sa: diversamente non insisterebbe a proporre classici (ricordiamo che ha tradotto Seneca, Orazio, Cicerone per Einaudi, Sellerio, Scheiwiller e Armando Dadò), ma avendo alle spalle responsabilità manageriali nel gruppo Pirelli e l’insegnamento in Bocconi, potrebbe benissimo scrivere di strategia e organizzazione. Invece no, anticipando un orientamento che ha messo radici negli ultimi anni nelle Business School americane e inglesi, ha preferito la frequentazione dei grandi autori del passato, che hanno insegnamenti di vita da indicare. Chi, come un manager, tratta con gli individui diversi per perseguire obiettivi precisi, riesce a raggiungerli se ha dimestichezza con le psicologie, gli umori, le debolezze e gli orgogli umani. Non a caso i veri capi rivelano interessi culturali raffinati, oltre a dominare il proprio specifico settore di competenza sul posto di lavoro. La classe non si improvvisa, né si acquisisce su un “bignamino”.
Il Pro Archia mette sull’avviso e smaschera come rozzi i tentativi di coloro che, impuntandosi su cavilli o un qualsiasi altro pretesto, intendono emarginare l’uomo di cultura perché è diverso e non omologato. Ciò che si è scritto e fatto resta, sottolinea con insistenza Cicerone. Da qui nascono fama e gloria che il tempo - giudice - sa preservare dagli attacchi degli invidiosi. Le vittorie dei "solerti tecnici", quando accadono, hanno breve durata e creano guasti perché per ricostruire un clima e una sensibilità culturale servono gli uomini che apprezzano gli uomini, ovvero uomini con un’identità. E la cultura è ciò che la forma.
Marco Tullio Cicerone, «Per un poeta», traduzione e introduzione di Gavino Manca, Armando Dadò editore, Locarno 1997, pagg. 50, s.i.p.
«Il Sole 24 Ore» dell’11 gennaio 1998
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