Non solo Orsina, anche Orsini. Spunta un altro caso di rifiuto editoriale poco motivato dell’editrice bolognese, lontana dal liberalismo del fondatore. È un saggio sul terrorismo che mette sullo stesso piano "rossi" e "neri"
di Francesco Perfetti
In quel di Bologna, nelle austere stanze della casa editrice Il Mulino, evidentemente prima di decidere sulla pubblicabilità o meno di un’opera di saggistica devono essere proprio abituati a discuterne, accanto alle qualità scientifiche, anche quelle ideologico-culturali. Il recente «caso Orsina», del quale ieri si è occupato il Giornale, è indicativo. Riguarda, come è noto, il rifiuto di accogliere nelle proprie collane il libro dedicato da questo studioso a Giovanni Malagodi come espressione di un progetto di alternativa liberale nonché alla sua opposizione al centrosinistra. L’argomento del volume, ora in via di pubblicazione per Marsilio, dev’essere apparso urticante negli ovattati ambienti frequentati dai sommi sacerdoti della cultura politica progressista e cattocomunista: ambienti nei quali proprio il centrosinistra ebbe il suo battesimo.
Qualcuno dei responsabili della casa editrice bolognese potrebbe osservare che il rifiuto alla pubblicazione del libro, peraltro comunicato all’autore dopo un lungo periodo di silenzio, sia dovuto a motivi di carattere scientifico e non politico. E potrebbe apparire una giustificazione plausibile per chi, come il sottoscritto, non ha ancora avuto occasione di leggere il saggio di Orsina. In fondo, si potrebbe pensare, che anche ad uno studioso serio e attento, con un curriculum di tutto rispetto, come Giovanni Orsina, potrebbe capitare di scrivere un brutto libro. Anche se poi non ci si spiegherebbe, se così fosse, il motivo per il quale un altro editore avrebbe accettato, subito e senza problemi, quel volume.
Il sospetto è subito fugato da un altro episodio che vale la pena di citare. A un altro studioso, Alessandro Orsini, sociologo e allievo di Luciano Pellicani, è capitata più o meno la stessa cosa. Orsini scrisse un denso volume intitolato Anatomia delle Brigate rosse. Le radici ideologiche del terrorismo rivoluzionario e lo propose alla casa editrice bolognese. Il saggio di Orsini era molto bello, anche sotto il profilo metodologico, e proponeva una spiegazione del terrorismo rivoluzionario che, tra il 1969 e il 1985, interessò l’Italia repubblicana: una spiegazione basata sull’idea che i terroristi - fossero essi comunisti o fascisti - appartenevano e appartengono alla categoria antropologica dei «purificatori del mondo» formatisi culturalmente sulla base di una «pedagogia dell’intolleranza», cresciuti all’ombra della «sacralizzazione della politica», portati a chiudersi in sette rivoluzionarie pronte a ricorrere all’omicidio politico per distruggere il potere borghese e raggiungere il fine metapolitico della instaurazione del «Paradiso in Terra».
Anche ad Orsini, dopo un lunghissimo periodo di silenzio, giunse il responso negativo del Mulino. Il volume fu poi pubblicato da Rubbettino con una prefazione elogiativa di un autorevole storico americano, Spencer M. Di Scala. Il libro è finito nella cinquina della sezione scientifica del premio Acqui Storia, il più autorevole fra i riconoscimenti riservati alla saggistica storica. Inoltre per quest’opera sono già pervenute alcune importanti opzioni per traduzioni all’estero. Se a un «caso Orsini» fa seguito un «caso Orsina», si ha subito la sensazione che ci sia qualcosa che non va. E se, poi, si ricorda che Marcello Pera si vide rifiutare la pubblicazione sulla rivista di un saggio su Mario Pannunzio e Tocqueville - saggio che avrebbe, a rigor di logica, dovuto trovare naturale ospitalità sulle pagine di un periodico che a suo tempo aveva offerto ai lettori il denso scritto dello stesso Pannunzio su Le passioni di Toqueville - allora quella sensazione diventa una certezza.
Per capire quel che non va, bisogna dare uno sguardo alla storia di quel vero e proprio impero editoriale che è Il Mulino e che comprende una Associazione, degli istituti di ricerca, la casa editrice e la rivista omonima. Una storia illuminante. E caratterizzata da un continuo slittamento dalle originarie posizioni liberali a posizioni sempre più progressiste e - negli ultimi tempi - in linea con la diffusa moda salottiera e radical chic sempre più antiberluscoaniane. Non è un caso che le prospettive e il futuro della destra politica fossero analizzate un anno fa o giù di lì», sulle pagine della rivista da un Gianfranco Fini in un lungo confronto epistolare con il direttore del periodico: un Fini che, allora, postulava l’idea di trasformare già il Pdl, facendolo passare da una fase «movimentista» a una fase di «democrazia strutturata».
La rivista Il Mulino, embrione dell’impero editoriale omonimo, nacque nel 1951 in forma dimessa come frutto della passione politica di un gruppo di studenti universitari capeggiati dal futuro grande (e compianto) storico liberale Nicola Matteucci. L’idea di fondo era quella della «certezza di esser fuori dal fascismo» e lo scopo principale quello di proporre una politica capace di tradursi in una «alternativa di governo» in grado di affrontare i problemi del Paese «nello spazio garantito dall’azione degasperiana». Queste parole, contenute in un editoriale scritto proprio da Matteucci, implicavano come presupposto «indeclinabile» di questa politica «l’isolamento completo del Pci». I fondatori del Mulino erano intellettuali non intruppati nei partiti politici, animati da un autentico spirito liberale e uniti attorno a un programma condensato in una frase: «Contro i comunisti, contro i clericali, contro i laicisti, per uno Stato e per una società democratici, per una cultura nazionale» che esprimesse «le forze reali del Paese» e ne rispettasse ed estendesse «i valori, le tradizioni e le capacità».
Con l’andar del tempo le cose cambiarono. Cominciarono ad alternarsi nella direzione della rivista personalità - da Pietro Scoppola ad Arturo Parisi a Gianfranco Pasquino e via dicendo - sempre più impegnate nella vita politica e con l’occhio benevolmente rivolto verso sinistra, la sinistra prodiana e il mondo cattocomunista. Il vecchio liberale Nicola Matteucci ricordò con amarezza la deriva ideologica della «sua» rivista e dell’Associazione e della casa editrice collegate, in un saggio scritto nel 2001 per Nuova storia contemporanea. Una deriva frutto di quella progressiva involuzione ideologica che, forse, fa comprendere perché, oggi, Il Mulino non voglia inserire nel suo catalogo opere che parlino dell’opposizione liberale di Malagodi al centrosinistra o che svelino i misteri del terrorismo rosso e nero.
Qualcuno dei responsabili della casa editrice bolognese potrebbe osservare che il rifiuto alla pubblicazione del libro, peraltro comunicato all’autore dopo un lungo periodo di silenzio, sia dovuto a motivi di carattere scientifico e non politico. E potrebbe apparire una giustificazione plausibile per chi, come il sottoscritto, non ha ancora avuto occasione di leggere il saggio di Orsina. In fondo, si potrebbe pensare, che anche ad uno studioso serio e attento, con un curriculum di tutto rispetto, come Giovanni Orsina, potrebbe capitare di scrivere un brutto libro. Anche se poi non ci si spiegherebbe, se così fosse, il motivo per il quale un altro editore avrebbe accettato, subito e senza problemi, quel volume.
Il sospetto è subito fugato da un altro episodio che vale la pena di citare. A un altro studioso, Alessandro Orsini, sociologo e allievo di Luciano Pellicani, è capitata più o meno la stessa cosa. Orsini scrisse un denso volume intitolato Anatomia delle Brigate rosse. Le radici ideologiche del terrorismo rivoluzionario e lo propose alla casa editrice bolognese. Il saggio di Orsini era molto bello, anche sotto il profilo metodologico, e proponeva una spiegazione del terrorismo rivoluzionario che, tra il 1969 e il 1985, interessò l’Italia repubblicana: una spiegazione basata sull’idea che i terroristi - fossero essi comunisti o fascisti - appartenevano e appartengono alla categoria antropologica dei «purificatori del mondo» formatisi culturalmente sulla base di una «pedagogia dell’intolleranza», cresciuti all’ombra della «sacralizzazione della politica», portati a chiudersi in sette rivoluzionarie pronte a ricorrere all’omicidio politico per distruggere il potere borghese e raggiungere il fine metapolitico della instaurazione del «Paradiso in Terra».
Anche ad Orsini, dopo un lunghissimo periodo di silenzio, giunse il responso negativo del Mulino. Il volume fu poi pubblicato da Rubbettino con una prefazione elogiativa di un autorevole storico americano, Spencer M. Di Scala. Il libro è finito nella cinquina della sezione scientifica del premio Acqui Storia, il più autorevole fra i riconoscimenti riservati alla saggistica storica. Inoltre per quest’opera sono già pervenute alcune importanti opzioni per traduzioni all’estero. Se a un «caso Orsini» fa seguito un «caso Orsina», si ha subito la sensazione che ci sia qualcosa che non va. E se, poi, si ricorda che Marcello Pera si vide rifiutare la pubblicazione sulla rivista di un saggio su Mario Pannunzio e Tocqueville - saggio che avrebbe, a rigor di logica, dovuto trovare naturale ospitalità sulle pagine di un periodico che a suo tempo aveva offerto ai lettori il denso scritto dello stesso Pannunzio su Le passioni di Toqueville - allora quella sensazione diventa una certezza.
Per capire quel che non va, bisogna dare uno sguardo alla storia di quel vero e proprio impero editoriale che è Il Mulino e che comprende una Associazione, degli istituti di ricerca, la casa editrice e la rivista omonima. Una storia illuminante. E caratterizzata da un continuo slittamento dalle originarie posizioni liberali a posizioni sempre più progressiste e - negli ultimi tempi - in linea con la diffusa moda salottiera e radical chic sempre più antiberluscoaniane. Non è un caso che le prospettive e il futuro della destra politica fossero analizzate un anno fa o giù di lì», sulle pagine della rivista da un Gianfranco Fini in un lungo confronto epistolare con il direttore del periodico: un Fini che, allora, postulava l’idea di trasformare già il Pdl, facendolo passare da una fase «movimentista» a una fase di «democrazia strutturata».
La rivista Il Mulino, embrione dell’impero editoriale omonimo, nacque nel 1951 in forma dimessa come frutto della passione politica di un gruppo di studenti universitari capeggiati dal futuro grande (e compianto) storico liberale Nicola Matteucci. L’idea di fondo era quella della «certezza di esser fuori dal fascismo» e lo scopo principale quello di proporre una politica capace di tradursi in una «alternativa di governo» in grado di affrontare i problemi del Paese «nello spazio garantito dall’azione degasperiana». Queste parole, contenute in un editoriale scritto proprio da Matteucci, implicavano come presupposto «indeclinabile» di questa politica «l’isolamento completo del Pci». I fondatori del Mulino erano intellettuali non intruppati nei partiti politici, animati da un autentico spirito liberale e uniti attorno a un programma condensato in una frase: «Contro i comunisti, contro i clericali, contro i laicisti, per uno Stato e per una società democratici, per una cultura nazionale» che esprimesse «le forze reali del Paese» e ne rispettasse ed estendesse «i valori, le tradizioni e le capacità».
Con l’andar del tempo le cose cambiarono. Cominciarono ad alternarsi nella direzione della rivista personalità - da Pietro Scoppola ad Arturo Parisi a Gianfranco Pasquino e via dicendo - sempre più impegnate nella vita politica e con l’occhio benevolmente rivolto verso sinistra, la sinistra prodiana e il mondo cattocomunista. Il vecchio liberale Nicola Matteucci ricordò con amarezza la deriva ideologica della «sua» rivista e dell’Associazione e della casa editrice collegate, in un saggio scritto nel 2001 per Nuova storia contemporanea. Una deriva frutto di quella progressiva involuzione ideologica che, forse, fa comprendere perché, oggi, Il Mulino non voglia inserire nel suo catalogo opere che parlino dell’opposizione liberale di Malagodi al centrosinistra o che svelino i misteri del terrorismo rosso e nero.
«Il Giornale» del 7 settembre 2010
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