di Giuseppe Bedeschi
È da tanti anni un luogo comune della storiografia sulla Prima repubblica: il centrosinistra è stato una stagione di profondo rinnovamento della società italiana, ha creato spazi di libertà infinitamente più ampi, ha permesso un notevole progresso in tutti i campi della vita del Paese. Chi si opponeva al centrosinistra da posizioni liberali, come il liberale Malagodi, faceva una battaglia di retroguardia, chiusa al nuovo, negatrice di qualunque politica progressiva e riformatrice. Si tratta di un giudizio privo di qualsiasi fondamento, e che mostra la propria totale inconsistenza solo che si rifletta sulle principali tappe dell’esperienza del centrosinistra. Intanto bisogna partire da un dato inconfutabile: la politica economica e finanziaria del «centrismo» (realizzata da De Gasperi in collaborazione con grandi personalità liberali come Einaudi) aveva permesso di avviare lo straordinario «miracolo economico», basato su spettacolari tassi di crescita, su un ammodernamento formidabile della nostra industria, e, insomma, tale da inserire il nostro Paese fra i paesi più sviluppati in Europa.
Questo «miracolo» era stato reso possibile da una meravigliosa fioritura di energie in campo imprenditoriale, sia nelle grandi imprese, sia nelle imprese medie e piccole (che ebbero un ruolo fondamentale). Senonché, il centro-sinistra non poteva non comportare i più grandi allarmi nel campo dell’imprenditoria privata. Il Partito socialista, infatti, non era affatto un partito socialdemocratico e riformista. Era un partito che aveva una grande componente interna filocomunista e filosovietica; e anche i dirigenti socialisti che si proclamavano «autonomisti» e che spingevano verso il centro-sinistra, avevano una concezione rivoluzionaria delle cosiddette riforme che volevano promuovere. Basti pensare a Riccardo Lombardi, nella cui visione il centro-sinistra era un grimaldello per far saltare l'economia capitalistica e avviare un processo di transizione verso il socialismo! Dunque, le apprensioni degli industriali erano più che giustificate: il centro-sinistra passò infatti di disastro in disastro (per l’economia italiana, per il Paese). La nazionalizzazione dell’industria elettrica diede vita a un enorme carrozzone (l’ENEL), nel quale (come riconobbe La Malfa) 60 miliardi partirono subito in aumenti di stipendi e salari; inoltre l’Ente fu presto coinvolto in manovre di finanziamenti ai partiti di governo. Il comportamento dei sindacati, che durante il centrismo era stato prudente e assennato, ricevette un grande impulso dal centro-sinistra verso rivendicazioni sempre più fuori misura, che misero in gravi difficoltà e spesso fecero fallire aziende un tempo floride.
E così via, di realizzazione in realizzazione, fino allo Statuto dei lavoratori varato dal Parlamento nel 1970, il cui articolo 5 diceva: «Sono vietati accertamenti da parte del datore di lavoro sulla idoneità e sulla infermità per malattia o infortunio del lavoratore dipendente». Risultato: un assenteismo sul lavoro di proporzioni disastrose. Come ricorda un testimone certo non sospetto come Giorgio Bocca (nella sua Storia della repubblica italiana dalla caduta del fascismo a oggi): «ci sono assenteisti notori che lavorano pochi giorni l’anno ma sono regolarmente pagati». Ed è un fatto che nel 1963-64 iniziò, col centro-sinistra, una fase di rallentamento economico prolungatasi fino alla fine del secolo, senza più recuperare i tassi di sviluppo degli anni del «miracolo». Dunque, come non ripensare la figura di Malagodi, la sua nobile battaglia politica contro il centro-sinistra?
Questo «miracolo» era stato reso possibile da una meravigliosa fioritura di energie in campo imprenditoriale, sia nelle grandi imprese, sia nelle imprese medie e piccole (che ebbero un ruolo fondamentale). Senonché, il centro-sinistra non poteva non comportare i più grandi allarmi nel campo dell’imprenditoria privata. Il Partito socialista, infatti, non era affatto un partito socialdemocratico e riformista. Era un partito che aveva una grande componente interna filocomunista e filosovietica; e anche i dirigenti socialisti che si proclamavano «autonomisti» e che spingevano verso il centro-sinistra, avevano una concezione rivoluzionaria delle cosiddette riforme che volevano promuovere. Basti pensare a Riccardo Lombardi, nella cui visione il centro-sinistra era un grimaldello per far saltare l'economia capitalistica e avviare un processo di transizione verso il socialismo! Dunque, le apprensioni degli industriali erano più che giustificate: il centro-sinistra passò infatti di disastro in disastro (per l’economia italiana, per il Paese). La nazionalizzazione dell’industria elettrica diede vita a un enorme carrozzone (l’ENEL), nel quale (come riconobbe La Malfa) 60 miliardi partirono subito in aumenti di stipendi e salari; inoltre l’Ente fu presto coinvolto in manovre di finanziamenti ai partiti di governo. Il comportamento dei sindacati, che durante il centrismo era stato prudente e assennato, ricevette un grande impulso dal centro-sinistra verso rivendicazioni sempre più fuori misura, che misero in gravi difficoltà e spesso fecero fallire aziende un tempo floride.
E così via, di realizzazione in realizzazione, fino allo Statuto dei lavoratori varato dal Parlamento nel 1970, il cui articolo 5 diceva: «Sono vietati accertamenti da parte del datore di lavoro sulla idoneità e sulla infermità per malattia o infortunio del lavoratore dipendente». Risultato: un assenteismo sul lavoro di proporzioni disastrose. Come ricorda un testimone certo non sospetto come Giorgio Bocca (nella sua Storia della repubblica italiana dalla caduta del fascismo a oggi): «ci sono assenteisti notori che lavorano pochi giorni l’anno ma sono regolarmente pagati». Ed è un fatto che nel 1963-64 iniziò, col centro-sinistra, una fase di rallentamento economico prolungatasi fino alla fine del secolo, senza più recuperare i tassi di sviluppo degli anni del «miracolo». Dunque, come non ripensare la figura di Malagodi, la sua nobile battaglia politica contro il centro-sinistra?
«Il Giornale» del 7 settembre 2010
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