Sarzana Festival della mente: vedere è un'operazione che presuppone creatività
di Ludovica Lumer
Dedicata ai «processi creativi», si inaugura venerdì a Sarzana la settima edizione del «Festival della mente», che si chiuderà domenica. Anticipiamo in questa pagina il tema dell'intervento che la neuroscienziata Ludovica Lumer illustrerà sabato, spiegando come lo studio delle opere d'arte porti significativi contributi all'indagine dei processi innescati dall'atto dal vedere
Noi ricercatori, allo scopo di semplificare processi elaborati per poi poterli studiare, siamo spesso costretti a dimenticarci che il cervello è un organo di una complessità strabiliante, essendo parte di un circuito, il sistema nervoso, che lo collega al resto del corpo attraverso una rete di nervi che ci permette di ricevere informazioni dall'esterno e pianificare risposte di diverso tipo: emotivo, motorio e comportamentale. Ma quando ci si interroga su quei processi che oggi vengono chiamati alte funzioni cognitive, come la memoria, le emozioni, il linguaggio, il senso di identità, la comunicazione o l'empatia, allora la complessità non può più essere messa da parte. Ed è qui che l'arte contemporanea ci viene in soccorso, abbandonando la rappresentazione figurativa del mondo per un'espressione più profonda del senso di sé.
Racconti di una esperienza visiva
Semir Zeki ed io abbiamo cominciato molti anni fa a immergerci nel mondo dell'arte per cercarvi nuove risposte alla complessità crescente delle nostre domande. I nostri esperimenti sulla fisiologia della percezione visiva sono sempre stati, e sempre saranno, condizionati dalle risorse tecnologiche, dai metodi di analisi statistica, dal linguaggio con cui vengono descritti, non meno che dal modo in cui i soggetti, usati come cavie da laboratorio, rispondono ai quesiti posti dal paradigma sperimentale. A questi soggetti, più o meno sani che siano, viene spesso chiesto di raccontare cosa vedono durante l'esperimento, o di sintetizzare le loro complesse sensazioni nella scelta di premere un bottone piuttosto che un altro, con la costrizione a trasformare percezioni ed emozioni in semplici risposte verbali o motorie. Proviamo ora, per un attimo, a dare per scontato che la visione non sia solo una semplice analisi di stimoli esterni che colpiscono l' occhio e arrivano al cervello, ma che sia anche un processo guidato da un umano istinto di ricerca e acquisizione di nuove conoscenze e sempre condizionato dallo stato emotivo interno della persona. Come possiamo allora pensare di ridurre tutti questi complicati aspetti della visione umana a una risposta semplice, che ha senso solo per lo scienziato in cerca di una spiegazione ad un fenomeno la cui risposta è già condizionata dal suo modo di formulare la domanda? A svelare i misteri di questo processo, in tutta la sua complessità, ci viene in aiuto l'artista. L'opera d'arte e il processo creativo diventano il racconto esplicito e diretto dell'esperienza visiva, non più imprigionata, e forse imprecisamente sminuita, dai confini della spiegazione verbale e del contesto sperimentale.
Dai primi esperimenti è emersa l'idea della visione come processo attivo che richiede, da parte del cervello, una ricerca di elementi immutabili, necessari per riconoscere il mondo esterno nel suo continuo cambiamento. Come scrisse Matisse «vedere è già un'operazione creativa che richiede uno sforzo». Così come il colore cambia a seconda delle condizioni di illuminazione, un oggetto appare in modo diverso a seconda della posizione in cui si presenta; ma il cervello cerca, nella scena visiva, quegli elementi costanti che, classificati e associati in base all'esperienza passata, gli permettono di riconoscere il mondo. Vedere è il risultato di un complicato processo di elaborazione dei differenti attributi della scena visiva da parte di numerose aree corticali e subcorticali del nostro cervello, e il risultato finale è la percezione di una scena coerente del mondo esterno dove le diverse qualità e proprietà sono viste come un insieme organico. Molti degli artisti che cercarono di rappresentare il loro modo di percepire le cose, presto o tardi nella loro carriera, si resero conto che anche per creare un'immagine artistica coerente era necessario mettere in relazione tra loro percezioni, sensazioni ed emozioni.
Da Pissarro a Duchamp
Nel 1890 Camille Pissaro scrisse a questo proposito: «A quarant'anni, ho cominciato a comprendere le mie sensazioni, a sapere cosa stavo guardando, ma soltanto vagamente. A cinquant'anni, ho formulato l'idea di unità, ma senza essere capace di rappresentarla. Adesso, a sessanta, comincio a capire come rappresentarla» (Lettera di Pissaro a Esther Isaacson, 5 Maggio, 1890). Molti anni prima della scoperta, ad opera di David Hubel e Torsten Wiesel nel 1959, di cellule sensibili all'orientamento delle linee, considerate le componenti di base della percezione della forma, Mondrian, nella sua «ricerca delle verità costanti che compongono la forma», trovò nelle linee l'espressione più forte della sua arte. Mondrian scrisse che l'arte «ci mostra l'esistenza di verità necessarie alla composizione della forma» e che le sue opere mirano a rappresentare «una riduzione delle forme complesse a questi elementi costanti».
Ma l'arte contemporanea, questo mostro incompreso e traviato dal mercato, cosa racconta oggi alle neuroscienze? Quale verità costanti e rassicuranti cerchiamo nell'arte? Duchamp ci ha insegnato che il significato viene conferito all'opera d'arte non soltanto da chi la crea ma anche da chi la guarda. Lo spettatore viene coinvolto in un dialogo a tre con l'artista e l'opera d'arte. Colui che guarda viene chiamato a completare il processo creativo, a ricostruire, o costruire, significati. Tra la fine del'800 e l'inizio del '900 la fisica, la matematica, la filosofia e la psicoanalisi trasformano completamente il nostro modo di concepire la realtà, ed è da questo contesto che è nato il grande cambiamento di paradigma proposto da Duchamp. Con l'evoluzione dei concetti di spazio e tempo si evolve anche il nostro modo di pensare e rappresentare il mondo e noi stessi. Si sfaldano i confini spazio-temporali anche nel caso dell' arte, il quadro con la sua cornice e la scultura a tuttotondo, che occupavano un luogo ben definito, lasciano il posto a installazioni, performance e video. Il tempo infinito in cui l'opera d'arte viveva diventa il momento, l'attimo, in cui lo sguardo dell'osservatore la fa vivere e la completa donandole un significato.
Quando ci guardiamo sulle superfici riflettenti di Michelangelo Pistoletto, quando riconosciamo orgasmo e agonia nelle bocche spalancate di Francis Bacon, quando Vito Acconci fa vacillare i confini del nostro Io, allora l'autoritratto dell'artista diventa anche l'autoritratto della dimensione sociale: il sé diventa noi.
«L'arte aggiunge qualcosa all'esistenza» ha scritto il critico inglese David Sylvester in Looking back at Francis Bacon (Thames and Hudson, London, 2000): osservare l'arte è davvero un po' come guardarsi dentro. Ma cosa vediamo veramente quando guardiamo noi stessi? È difficilissimo definire quello che viene chiamato il senso minimo del sé, la psicologia ci parla addirittura dei nostri diversi sé, il sé che emerge dal ruolo che abbiamo nella società, nella famiglia, nei vari contesti in cui ci troviamo a vivere. Il sé va ridefinendosi in maniera dinamica lungo tutto il corso della vita, si riplasma nelle interazioni con gli altri e nel passaggio da un'esperienza all'altra.
Quando il bambino nasce il senso di sé non è in lui ancora definito: si formerà nelle prime settimane di vita, maturerà attraverso l'interazione con l'esterno, con gli oggetti e le persone che lo circondano. Scrive il neuroscienziato Vittorio Gallese: «i legami e le relazioni interpersonali sono stabiliti all'esordio della vita, quando non è ancora disponibile alcuna rappresentazione soggettiva del mondo, per il semplice motivo che il soggetto cosciente dell'esperienza non si è ancora costituito. L'assenza di un soggetto auto-cosciente non preclude, tuttavia, la costituzione di uno spazio primitivo "sé/altro", caratterizzando così una forma paradossale d'intersoggettività priva di soggetto. Il neonato condivide questo spazio "noi-centrico" con gli altri individui che popolano il suo mondo».
La nostra vita comincia, si sviluppa e finisce così, cercando di scoprire chi siamo, combattendo per afferrare e affermare la nostra identità. Da numerose ricerche condotte nell'ultimo decennio abbiamo imparato che la teoria della mente, la nostra capacità di comprendere gli stati mentali altrui, si sviluppa nei primi quattro o cinque anni di vita. Questa facoltà gioca un ruolo fondamentale nelle relazioni sociali perché ci permette di intuire cosa vogliono le altre persone, capire cosa stanno per fare e modulare i nostri comportamenti a proposito. Numerosi studi hanno evidenziato quali regioni cerebrali sono coinvolte nella teoria della mente e consistentemente riconosciuto un ruolo fondamentale di alcune aree temporali e prefrontali. Pazienti con danni a queste parti del cervello sono incapaci di svolgere compiti che richiedono processi di mentalizzazione. Non è sorprendente che in queste regioni del cervello, durante la fase adolescenziale - gli anni della vita in cui maggiormente si combatte per riconoscere e affermare la propria identità - avvengano profondissimi cambiamenti sia nella struttura che nella attività cerebrale. Studi recentissimi mostrano come l'adolescenza sia il momento determinante in cui si sviluppano quelle regioni del cervello coinvolte nella social cognition e self awarness.
Approssimazione di Francis Bacon
«Le relazioni sociali», scrive lo psicologo Louis Cozolino nel suo Il cervello sociale (Raffaelo Cortina editore, 2008) «sono un fondamentale e indispensabile mattone nell'evoluzione del nostro attuale cervello». Grazie alla sua plasticità sinaptica, cioè alla sua capacità di riorganizzarsi continuamente, il cervello è in costante mutamento. Ogni esperienza che facciamo lascia la sua traccia cambiando i nostri circuiti neuronali. Ma se riflettiamo bene, tutte le esperienze che modulano l'organizzazione del nostro cervello hanno una base inter-personale o di interazione con l'ambiente esterno. Come scrive Daniel Siegel in La mente relazionale (Raffaelo Cortina, 2001) «il cervello ha nella sua struttura una capacità innata di trascendere i confini del .. proprio corpo integrandosi con ... il mondo di altri cervelli».
Sono le tracce di questa tensione sé-noi che oggi come neuroscienziati cerchiamo nell'arte. Un meraviglioso trittico rappresentante un autoritratto di Francis Bacon (Study for Self-portrait - Triptych, 1985-6) viene così descritto da Richard Dorment: «rappresenta lo sforzo che si compie per raggiungere un'identità stabile e unitaria, dobbiamo imparare a distinguere i nostri corpi da quelli degli altri, a riconoscere che i nostri corpi non solo hanno un peso e una massa, ma anche confini, limiti, perimetri. Le figure in questo Trittico sono forme embrionali che cercano disperatamente, senza riuscirci, di raggiungere un'identità solida e indivisibile, ci parlano della condizione umana, della tragedia originale che ci perseguita durante tutta la vita - questo è il materiale di cui è fatta la grande arte.»
Racconti di una esperienza visiva
Semir Zeki ed io abbiamo cominciato molti anni fa a immergerci nel mondo dell'arte per cercarvi nuove risposte alla complessità crescente delle nostre domande. I nostri esperimenti sulla fisiologia della percezione visiva sono sempre stati, e sempre saranno, condizionati dalle risorse tecnologiche, dai metodi di analisi statistica, dal linguaggio con cui vengono descritti, non meno che dal modo in cui i soggetti, usati come cavie da laboratorio, rispondono ai quesiti posti dal paradigma sperimentale. A questi soggetti, più o meno sani che siano, viene spesso chiesto di raccontare cosa vedono durante l'esperimento, o di sintetizzare le loro complesse sensazioni nella scelta di premere un bottone piuttosto che un altro, con la costrizione a trasformare percezioni ed emozioni in semplici risposte verbali o motorie. Proviamo ora, per un attimo, a dare per scontato che la visione non sia solo una semplice analisi di stimoli esterni che colpiscono l' occhio e arrivano al cervello, ma che sia anche un processo guidato da un umano istinto di ricerca e acquisizione di nuove conoscenze e sempre condizionato dallo stato emotivo interno della persona. Come possiamo allora pensare di ridurre tutti questi complicati aspetti della visione umana a una risposta semplice, che ha senso solo per lo scienziato in cerca di una spiegazione ad un fenomeno la cui risposta è già condizionata dal suo modo di formulare la domanda? A svelare i misteri di questo processo, in tutta la sua complessità, ci viene in aiuto l'artista. L'opera d'arte e il processo creativo diventano il racconto esplicito e diretto dell'esperienza visiva, non più imprigionata, e forse imprecisamente sminuita, dai confini della spiegazione verbale e del contesto sperimentale.
Dai primi esperimenti è emersa l'idea della visione come processo attivo che richiede, da parte del cervello, una ricerca di elementi immutabili, necessari per riconoscere il mondo esterno nel suo continuo cambiamento. Come scrisse Matisse «vedere è già un'operazione creativa che richiede uno sforzo». Così come il colore cambia a seconda delle condizioni di illuminazione, un oggetto appare in modo diverso a seconda della posizione in cui si presenta; ma il cervello cerca, nella scena visiva, quegli elementi costanti che, classificati e associati in base all'esperienza passata, gli permettono di riconoscere il mondo. Vedere è il risultato di un complicato processo di elaborazione dei differenti attributi della scena visiva da parte di numerose aree corticali e subcorticali del nostro cervello, e il risultato finale è la percezione di una scena coerente del mondo esterno dove le diverse qualità e proprietà sono viste come un insieme organico. Molti degli artisti che cercarono di rappresentare il loro modo di percepire le cose, presto o tardi nella loro carriera, si resero conto che anche per creare un'immagine artistica coerente era necessario mettere in relazione tra loro percezioni, sensazioni ed emozioni.
Da Pissarro a Duchamp
Nel 1890 Camille Pissaro scrisse a questo proposito: «A quarant'anni, ho cominciato a comprendere le mie sensazioni, a sapere cosa stavo guardando, ma soltanto vagamente. A cinquant'anni, ho formulato l'idea di unità, ma senza essere capace di rappresentarla. Adesso, a sessanta, comincio a capire come rappresentarla» (Lettera di Pissaro a Esther Isaacson, 5 Maggio, 1890). Molti anni prima della scoperta, ad opera di David Hubel e Torsten Wiesel nel 1959, di cellule sensibili all'orientamento delle linee, considerate le componenti di base della percezione della forma, Mondrian, nella sua «ricerca delle verità costanti che compongono la forma», trovò nelle linee l'espressione più forte della sua arte. Mondrian scrisse che l'arte «ci mostra l'esistenza di verità necessarie alla composizione della forma» e che le sue opere mirano a rappresentare «una riduzione delle forme complesse a questi elementi costanti».
Ma l'arte contemporanea, questo mostro incompreso e traviato dal mercato, cosa racconta oggi alle neuroscienze? Quale verità costanti e rassicuranti cerchiamo nell'arte? Duchamp ci ha insegnato che il significato viene conferito all'opera d'arte non soltanto da chi la crea ma anche da chi la guarda. Lo spettatore viene coinvolto in un dialogo a tre con l'artista e l'opera d'arte. Colui che guarda viene chiamato a completare il processo creativo, a ricostruire, o costruire, significati. Tra la fine del'800 e l'inizio del '900 la fisica, la matematica, la filosofia e la psicoanalisi trasformano completamente il nostro modo di concepire la realtà, ed è da questo contesto che è nato il grande cambiamento di paradigma proposto da Duchamp. Con l'evoluzione dei concetti di spazio e tempo si evolve anche il nostro modo di pensare e rappresentare il mondo e noi stessi. Si sfaldano i confini spazio-temporali anche nel caso dell' arte, il quadro con la sua cornice e la scultura a tuttotondo, che occupavano un luogo ben definito, lasciano il posto a installazioni, performance e video. Il tempo infinito in cui l'opera d'arte viveva diventa il momento, l'attimo, in cui lo sguardo dell'osservatore la fa vivere e la completa donandole un significato.
Quando ci guardiamo sulle superfici riflettenti di Michelangelo Pistoletto, quando riconosciamo orgasmo e agonia nelle bocche spalancate di Francis Bacon, quando Vito Acconci fa vacillare i confini del nostro Io, allora l'autoritratto dell'artista diventa anche l'autoritratto della dimensione sociale: il sé diventa noi.
«L'arte aggiunge qualcosa all'esistenza» ha scritto il critico inglese David Sylvester in Looking back at Francis Bacon (Thames and Hudson, London, 2000): osservare l'arte è davvero un po' come guardarsi dentro. Ma cosa vediamo veramente quando guardiamo noi stessi? È difficilissimo definire quello che viene chiamato il senso minimo del sé, la psicologia ci parla addirittura dei nostri diversi sé, il sé che emerge dal ruolo che abbiamo nella società, nella famiglia, nei vari contesti in cui ci troviamo a vivere. Il sé va ridefinendosi in maniera dinamica lungo tutto il corso della vita, si riplasma nelle interazioni con gli altri e nel passaggio da un'esperienza all'altra.
Quando il bambino nasce il senso di sé non è in lui ancora definito: si formerà nelle prime settimane di vita, maturerà attraverso l'interazione con l'esterno, con gli oggetti e le persone che lo circondano. Scrive il neuroscienziato Vittorio Gallese: «i legami e le relazioni interpersonali sono stabiliti all'esordio della vita, quando non è ancora disponibile alcuna rappresentazione soggettiva del mondo, per il semplice motivo che il soggetto cosciente dell'esperienza non si è ancora costituito. L'assenza di un soggetto auto-cosciente non preclude, tuttavia, la costituzione di uno spazio primitivo "sé/altro", caratterizzando così una forma paradossale d'intersoggettività priva di soggetto. Il neonato condivide questo spazio "noi-centrico" con gli altri individui che popolano il suo mondo».
La nostra vita comincia, si sviluppa e finisce così, cercando di scoprire chi siamo, combattendo per afferrare e affermare la nostra identità. Da numerose ricerche condotte nell'ultimo decennio abbiamo imparato che la teoria della mente, la nostra capacità di comprendere gli stati mentali altrui, si sviluppa nei primi quattro o cinque anni di vita. Questa facoltà gioca un ruolo fondamentale nelle relazioni sociali perché ci permette di intuire cosa vogliono le altre persone, capire cosa stanno per fare e modulare i nostri comportamenti a proposito. Numerosi studi hanno evidenziato quali regioni cerebrali sono coinvolte nella teoria della mente e consistentemente riconosciuto un ruolo fondamentale di alcune aree temporali e prefrontali. Pazienti con danni a queste parti del cervello sono incapaci di svolgere compiti che richiedono processi di mentalizzazione. Non è sorprendente che in queste regioni del cervello, durante la fase adolescenziale - gli anni della vita in cui maggiormente si combatte per riconoscere e affermare la propria identità - avvengano profondissimi cambiamenti sia nella struttura che nella attività cerebrale. Studi recentissimi mostrano come l'adolescenza sia il momento determinante in cui si sviluppano quelle regioni del cervello coinvolte nella social cognition e self awarness.
Approssimazione di Francis Bacon
«Le relazioni sociali», scrive lo psicologo Louis Cozolino nel suo Il cervello sociale (Raffaelo Cortina editore, 2008) «sono un fondamentale e indispensabile mattone nell'evoluzione del nostro attuale cervello». Grazie alla sua plasticità sinaptica, cioè alla sua capacità di riorganizzarsi continuamente, il cervello è in costante mutamento. Ogni esperienza che facciamo lascia la sua traccia cambiando i nostri circuiti neuronali. Ma se riflettiamo bene, tutte le esperienze che modulano l'organizzazione del nostro cervello hanno una base inter-personale o di interazione con l'ambiente esterno. Come scrive Daniel Siegel in La mente relazionale (Raffaelo Cortina, 2001) «il cervello ha nella sua struttura una capacità innata di trascendere i confini del .. proprio corpo integrandosi con ... il mondo di altri cervelli».
Sono le tracce di questa tensione sé-noi che oggi come neuroscienziati cerchiamo nell'arte. Un meraviglioso trittico rappresentante un autoritratto di Francis Bacon (Study for Self-portrait - Triptych, 1985-6) viene così descritto da Richard Dorment: «rappresenta lo sforzo che si compie per raggiungere un'identità stabile e unitaria, dobbiamo imparare a distinguere i nostri corpi da quelli degli altri, a riconoscere che i nostri corpi non solo hanno un peso e una massa, ma anche confini, limiti, perimetri. Le figure in questo Trittico sono forme embrionali che cercano disperatamente, senza riuscirci, di raggiungere un'identità solida e indivisibile, ci parlano della condizione umana, della tragedia originale che ci perseguita durante tutta la vita - questo è il materiale di cui è fatta la grande arte.»
«Il Manifesto» del 2 settembre 2010
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