di Pino Ciociola
La diga del Vajont: in cima alla «gran signora» monumento al disprezzo della vita
«Prima il fragore dell’onda, poi il silenzio della morte, mai l’oblìo della memoria». Eccola. Un prodigio di tecnica, l’ottava meraviglia nel mondo di mezzo secolo fa. Qualcuno l’aveva ribattezzata «il velo» e qualcun altro «il foglio di calcestruzzo», perché larga in cima appena tre metri e quaranta. Eccola, la gran signora dall’anima nera: è qui, sotto i piedi. Seppure non ha più la sua falce. Seppure adesso è un’attrazione turistica o, meglio, un monumento al disprezzo della Vita. La più grande infamia ingegneristico-geologica nel nostro Paese, inaugurata il 19 novembre 1962: il più bel gioiello delle capacità umane costruito nel peggiore posto in cui si potesse. E lo si sapeva.
Salirci sopra mozza maestosamente il fiato: duecentosessantuno metri e sessanta centimetri di strapiombo da una parte (quella verso Longarone) e solamente quaranta metri dall’altra. La diga del Vajont, gran signora dall’anima nera. Indimenticata, indimenticabile: 353mila metri cubi di calcestruzzo che alle 22 e 39 del 9 ottobre 1963 assassinarono 1.911 donne, bambini, anziani e uomini creando il più lugubre tsunami che la storia italiana ricordi, facendo da immenso trampolino ad un’onda di 50 milioni di metri cubi d’acqua, che ricadde nella gola, lunga e stretta, e spazzò via Longarone con le sue frazioni piombandovi sopra a cento all’ora, dopo aver spinto a precederla un mostruoso muro d’aria ad una pressione tale da strappar via vestiti e brandelli di pelle.
I segni dell’altezza di quell’onda restano ancora oggi, molto in alto sulle pareti della gola di fronte alla signora: guardarli impressiona. Perché non diede scampo: lo si vede, lo si capisce bene da quassù. Esattamente come coloro che, accorgendosi di quanto stava accadendo, capirono subito d’avere pochi secondi prima d’essere falciati e nessun modo d’evitarlo.
Fu un bel pezzo del monte Toc a franare nel lago artificiale creato dalla diga, alzando quell’onda . Una frana assai più che annunciata negli anni, nei mesi, nelle settimane e finanche nei giorni precedenti il 9 ottobre del 1963: duecentosessanta milioni di metri cubi di terra, rocce e alberi per un fronte di due chilometri (per portarla via servirebbero cento camion che lavorassero tutto il giorno e ogni giorno dell’anno per sette secoli).
Perciò le altezze dei due strapiombi sono diverse: se guardando Longarone la diga s’innalza per tutta la sua interezza di 261 metri e 60 centimetri, invece sull’altro versante i primi 220 metri sono stati riempiti dalla frana, che prese il posto del lago e lì è rimasta.
Realmente mozza il fiato camminare qui sopra e non si tratta di vertigini. Fa rimbombare nella mente quel che il giorno dopo Dino Buzzati spiegò sul suo giornale: «Un sasso è caduto in un bicchiere colmo d’acqua e l’acqua è traboccata sulla tovaglia. Tutto qui. Solo che il bicchiere era alto centinaia di metri e il sasso era grande come una montagna e di sotto, sulla tovaglia, stavano migliaia di creature umane che non potevano difendersi». Longarone è distante, lontana. Erto e Casso, paesini di montagna che vennero feriti quasi mortalmente, s’intravedono appena. Però quell’onda arrivò fino a Belluno. E la gente raccolse a chilometri di distanza i cadaveri scesi a valle insieme al Piave. Invece da qui in cima, passeggiando sul 'coronamento della diga' – come si chiama – mezzo secolo dopo e sotto un cielo luminoso, sembra esser stato tutto irreale, forse niente più d’un brutto racconto inventato per spaventare i bambini. Non è così. Attrazione turistica (con 5 euro ci si sale sopra) e monumento al disprezzo della Vita, il passato lo ricordano questa maestosa
signora e la sua anima nera. Lo ricorda il cimitero di Longarone, nel quale è seppellito tutto ciò che resta dei morti del Vajont. Nel quale tante tombe hanno solo una foto, ma sono vuote, perché non s’è trovato più nulla di chi vi avrebbe dovuto riposare.
Lo tengono davvero bene questo cimitero. Curato, pulito: è custodito con amore, verrebbe da scrivere. Fuori dal suo ingresso c’è una grande stele di vetro con una frase in dodici lingue: « Prima il fragore dell’onda, poi il silenzio della morte, mai l’oblìo della memoria ».
Salirvi mozza maestosamente il fiato: 261 metri di strapiombo da una parte (quella verso Longarone), ma soltanto 40 dall’altra ...
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La Grande guerra : sul Monte Grappa fra i ricordi di quegli eroici «soldatini» italiani
La Grande guerra : sul Monte Grappa fra i ricordi di quegli eroici «soldatini» italiani
Venti chilometri di storia fra tornanti, rocce e mucche al pascolo, trincee e buche per mitragliatrici. Per arrampicarsi fin quassù, sulla Cima Grappa, millesettecentosettantasei metri d’altezza. E nel suo Museo i tratti dei volti disegnati e appesi alla parete, addirittura i loro stessi lineamenti, sono davvero d’altri tempi. Eppure commuovono: sembrano fumetti, furono vite. «I miei soldatini dell’Armata del Grappa», li chiamava il Maresciallo d’Italia Gaetano Giardino, che li comandò. E quel «soldatini» tanto non era un vezzeggiativo ruffiano che lui volle farsi seppellire proprio in mezzo a loro. Qui.
Del resto avrebbe compiuto 19 anni di lì a due mesi, Rodolfo, e non aveva mai combattuto.
Milanese. Un ragazzino. Uno dei mille e mille soldatini che il 6 dicembre 1917 erano qui, sul Grappa. Affondati nella neve, dentro un gelo ruvido, dentro tanto sangue e piombo e morte che – a chiudere gli occhi – anche ora, agosto 2010, anche con un sole caldissimo, sfiorano e mordono la pelle.
Rodolfo era mitragliere, aspirava a diventare ufficiale, guidava un pugno di ragazzini come lui. La battaglia era carneficina e venne ferito gravemente al polmone destro, ma non disse nulla a nessuno e nessuno se ne poté accorgere. Lui rimase al suo posto, accanto ai suoi. Intanto le granate si facevano inferno sulle teste. Le esplosioni spaccavano orecchie e cuore.
Ci restò a lungo, Rodolfo, ancora a combattere con un polmone dilaniato. Finché un’esplosione lo investì in pieno, devastandolo con ventisei ferite. Solamente allora non poté che accettare d’esser portato via, sapendo bene che per morire ormai gli ci sarebbero voluti minuti. Mentre su una barella abbandonava quella trincea e la sua vita in cima al Grappa, incrociò il gruppo dei rincalzi chiamato in quell’inferno a prendere il posto suo e dei feriti. E decise che le ultime forze le avrebbe usate per accendere una sigaretta e soprattutto per sorridere: quegli altri ragazzini come lui, che salivano a combattere, vedendolo, non avrebbero dovuto impressionarsi o abbattersi.
Sublime esempio di stoicismo e di elettissime virtù militari', scrissero nella motivazione alla Medaglia d’oro. Lo scrissero per Rodolfo e per centinaia d’altre Medaglie d’oro concesse ai 'ragazzi del ’99' che quasi mezzo secolo fa vennero a immolarsi su questa montagna per difendere cento, duecento metri di roccia. «Grappa sei la mia Patria», si legge sopra al Sacrario e per noi, oggi, forse è diventato colpevolmente difficile capire cosa volle dire 'Italia' per questi soldatini.
In cima a questa montagna, dal Sacrario militare, devi alzare appena le mani per sfiorare le nuvole e abbassare gli occhi per guardare le altre Dolomiti. Nel frattempo l’anima tocca quanto la guerra sia stupida e terrificante e inutile, ma anche come racconti spesso il Valore dimenticato dei piccoli e l’infame arroganza dei grandi, quelli che tirano le fila del mondo e dispongono 'gesta belliche', però su un Grappa non saliranno mai.
C’è il quadro col disegno sbiadito in bianco e nero del volto e con la medaglia di Rodolfo Carabelli, nel Museo. Ce ne sono a decine e decine d’altri quadri, con altri volti e medaglie di ragazzini che vennero a morire qui da tutta l’Italia e hanno storie di valore e onore uguali a quella di Rodolfo.
Non se ne leggono però i sogni e i desideri, gli amori e le pieghe delle loro vite: eppure ognuno ne aveva e per ognuno sono bruciati su questa montagna dove il cielo si fa tutt’uno con la terra ed è il luogo più bello dove possano restare custoditi.
Il Grappa, nelle tre battaglie che lo segnarono (dal 14 novembre del 1917 al 3 novembre 1918), si trasformò in un’immensa mattanza: nel Sacrario riposano – vicini – i resti di 12.615 italiani (10.332 ignoti) e 10.295 austro-ungarici (10mila ignoti). Quasi 23mila esseri umani spazzati via. E vedere le foto d’epoca dà i brividi. Come pure entrare nelle trincee e nei cunicoli lunghi alcuni chilometri, bagnati, bui, scavati fin nelle viscere della montagna per sistemarvici mitragliere e pezzi d’artiglieria, osservatori e sbocchi per le sortite, acqua e provviste. Cunicoli dal silenzio assordante ...
«Avvenire» del 29 agosto 2010
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