Lo scrittore inglese cattolico e tradizionalista sposò la fede all’umorismo, la teologia alla comicità Senza moralismo e attraverso il paradosso seppe cogliere la verità e rendere accattivante la bontà
di Marcello Veneziani
Cari ciellini che siete in gioioso conclave a Rimini, avete applaudito il vostro leader Giancarlo Cesana quando ha attaccato Umberto Eco, citando una sua frase tratta dal Nome della rosa quando dice di temere i profeti disposti a morire per la verità e a far morire gli altri. Secondo Eco, bisogna «far ridere della verità, fare ridere la verità». Al contrario voi credete nella verità, la prendete sul serio e amate i profeti disposti a morire per essa. Ma io vi invito a distinguere nella frase di Eco perché come, spesso accade, il bene e il male sono mescolati, forse subdolamente shakerati.
Io amo il profeta disposto a sacrificarsi per la verità, ma temo il profeta disposto a sacrificare gli altri nel nome della sua verità. Ammiro chi si gioca la propria vita per testimoniare la verità, detesto chi gioca la vita degli altri per testimoniare la sua verità. E così detesto i nichilisti che deridono la verità e si prendono gioco di essa, ma amo coloro che vogliono far ridere la verità e renderla perfino giocosa. Uno scrittore cattolico diceva che la fede del futuro poggerà su una forma più sottile di umorismo. E lo stesso scrittore veniva citato da Papa Ratzinger per una sua frase di celeste lievità: «Gli angeli possono volare perché sanno prendersi con leggerezza». Sto parlando di Gilbert Keith Chesterton, cattolico e tradizionalista, che sposò la fede all’umorismo, la teologia alla comicità. Prendete lezione da lui che criticò il moralismo del suo tempo senza con questo difendere l’affarismo; e seppe distinguere tra la religione e il clericalismo.
Oltre la saga celebre di Padre Brown, il don Camillo british, il prete detective che quarant’anni fa Renato Rascel interpretò in Rai e di cui l’editore Morganti sta ora ristampando le opere, sono usciti quest’estate due preziosi libri di Chesterton, Eretici e Ortodossia. Li edita (oltre all’Autobiografia, da pochi giorni in libreria) Lindau che ha già ripubblicato il suo San Tommaso d’Aquino (che pubblicò l’editore Volpe tanti anni fa) e il suo San Francesco d’Assisi, oltre al saggio La Chiesa cattolica. Il bello di Chesterton è la sua leggerezza, la sua fede che passa dal paradosso, la sua confessione di felicità ridente sulla soglia della Chiesa. Pensate che quando morì, Pio XI lo definì defensor fidei, titolo a cui potevano un tempo aspirare solo i sovrani. Dicono che i re d’Inghilterra se la fossero presa, ma loro si erano messi in proprio con lo scisma anglicano e dunque non potevano pretendere nulla. Chesterton fu anche ricevuto da Mussolini e si scoprirono reciproci ammiratori. Ma persino Italo Calvino diceva: «Amo Chesterton perché voleva essere il Voltaire cattolico e io volevo essere il Chesterton comunista».
A vederlo in maturità Chesterton sembra il nonno di Giuliano Ferrara, ma il suo peso ha la leggerezza della fede, non è un ateo devoto, ma un giullare di Dio, un catto-comicista. A volte è un po’ stucchevole nella pretesa di far ridere a ogni costo e di suscitare sconcerto e sorpresa, gioca troppo con il sentimento del contrario, che secondo Pirandello è la fonte dell’umorismo. Ma Chesterton ha capito una grandissima cosa: se vuoi parlare oggi di Dio, di religione, di fede e perfino di morale, devi saper passeggiare contromano, andare a rovescio tra i paradossi, rendere la bontà accattivante, ridere di ciò che è serio, capire che nell’epoca dell’ateismo e della scienza onnipotente il comico è l’unico modo per presentare non dico la verità, che non è di questo mondo, ma la passione di verità che è poi ciò che ci rende davvero umani. L’umorismo è quel che manca a certi cristianucci lugubri e moralisti, ma anche a certi cupi giacobini della fede, che non sopportano chi ama la vita e chi sorride (per esempio, Berlusconi), considerandolo esempio di paganesimo edonista. E invece Chesterton dice che i pagani ridono in apparenza, i veri cristiani ridono dentro, hanno quasi pudore della loro gioia ma sono intimamente felici.
Lo scriveva un altro santissimo ciccione, san Tommaso d’Aquino nelle sue pagine su La felicità che Umberto Galeazzi ha pubblicato ora da Bompiani. La felicità è partecipare alla festa degli angeli, dicono i santi e i pazzi. Rovesciando una tesi antica, Chesterton sostiene che il carpe diem toglie riso e destino agli uomini, li rende fugaci e occasionali, perduti nel giorno. Ed esalta il gusto di bere, il piacere della tavola e del vino, sangue di Cristo, a cui dedica un magnifico brindisi, dove lo spirituale e lo spiritoso, lo spirito santo e lo spirito dell’alcol si mescolano in gioiosa euforia.
La fede di Chesterton sorge dopo il nichilismo, come in lui sorse dopo la disperazione; una fede ironica, a tratti frivola, anche se poi nutrita di mistero e dedizione. Al nichilismo, Chesterton oppone la realtà, il buon senso della vita. Se credessimo veramente al nichilismo «gli assassini riceverebbero medaglie perché salvano gli uomini dalla vita; i vigili del fuoco verrebbero denunciati perché li sottraggono alla morte; useremmo i veleni come medicine e chiameremmo il dottore quando siamo in buona salute». Nel nome di Dio, Chesterton lega poi democrazia e tradizione, ritenendo che siano inseparabili: la tradizione è un plebiscito nei secoli, è «la democrazia prolungata nel tempo»; e la democrazia, a sua volta, regge sul sentire comune di un popolo.
Si deve a Chesterton la più penetrante analisi della pazzia. Per lui il pazzo non è colui che ha perso la ragione, ma chi ha perso tutto tranne la ragione. La follia è la perdita del rapporto col mondo, non la perdita della mente che anzi ragiona con meticoloso determinismo, inseguendo perfette geometrie, ma a prescindere dalla realtà, dalla vita, dagli uomini. «I maniaci di solito sono grandi logici». Un grano di follia fa lievitare la fede, e fa combaciare l’amor di Dio con l’amore per la vita. Il paradosso in fondo è proprio quel grano di follia che fa lievitare la realtà, come il comico insegna l’esistenza di nessi impensati tra gli uomini e le cose. Anche pensando a lui a volte preferiamo il cazzeggio all’analisi, l’ironia alla seriosa esegesi, convinti che nell’epoca delle verità impazzite solo attraverso il paradosso, il comico, la caricatura, sia possibile avvicinarsi alla verità. Il riso abbonda sulla bocca dei sapienti.
Io amo il profeta disposto a sacrificarsi per la verità, ma temo il profeta disposto a sacrificare gli altri nel nome della sua verità. Ammiro chi si gioca la propria vita per testimoniare la verità, detesto chi gioca la vita degli altri per testimoniare la sua verità. E così detesto i nichilisti che deridono la verità e si prendono gioco di essa, ma amo coloro che vogliono far ridere la verità e renderla perfino giocosa. Uno scrittore cattolico diceva che la fede del futuro poggerà su una forma più sottile di umorismo. E lo stesso scrittore veniva citato da Papa Ratzinger per una sua frase di celeste lievità: «Gli angeli possono volare perché sanno prendersi con leggerezza». Sto parlando di Gilbert Keith Chesterton, cattolico e tradizionalista, che sposò la fede all’umorismo, la teologia alla comicità. Prendete lezione da lui che criticò il moralismo del suo tempo senza con questo difendere l’affarismo; e seppe distinguere tra la religione e il clericalismo.
Oltre la saga celebre di Padre Brown, il don Camillo british, il prete detective che quarant’anni fa Renato Rascel interpretò in Rai e di cui l’editore Morganti sta ora ristampando le opere, sono usciti quest’estate due preziosi libri di Chesterton, Eretici e Ortodossia. Li edita (oltre all’Autobiografia, da pochi giorni in libreria) Lindau che ha già ripubblicato il suo San Tommaso d’Aquino (che pubblicò l’editore Volpe tanti anni fa) e il suo San Francesco d’Assisi, oltre al saggio La Chiesa cattolica. Il bello di Chesterton è la sua leggerezza, la sua fede che passa dal paradosso, la sua confessione di felicità ridente sulla soglia della Chiesa. Pensate che quando morì, Pio XI lo definì defensor fidei, titolo a cui potevano un tempo aspirare solo i sovrani. Dicono che i re d’Inghilterra se la fossero presa, ma loro si erano messi in proprio con lo scisma anglicano e dunque non potevano pretendere nulla. Chesterton fu anche ricevuto da Mussolini e si scoprirono reciproci ammiratori. Ma persino Italo Calvino diceva: «Amo Chesterton perché voleva essere il Voltaire cattolico e io volevo essere il Chesterton comunista».
A vederlo in maturità Chesterton sembra il nonno di Giuliano Ferrara, ma il suo peso ha la leggerezza della fede, non è un ateo devoto, ma un giullare di Dio, un catto-comicista. A volte è un po’ stucchevole nella pretesa di far ridere a ogni costo e di suscitare sconcerto e sorpresa, gioca troppo con il sentimento del contrario, che secondo Pirandello è la fonte dell’umorismo. Ma Chesterton ha capito una grandissima cosa: se vuoi parlare oggi di Dio, di religione, di fede e perfino di morale, devi saper passeggiare contromano, andare a rovescio tra i paradossi, rendere la bontà accattivante, ridere di ciò che è serio, capire che nell’epoca dell’ateismo e della scienza onnipotente il comico è l’unico modo per presentare non dico la verità, che non è di questo mondo, ma la passione di verità che è poi ciò che ci rende davvero umani. L’umorismo è quel che manca a certi cristianucci lugubri e moralisti, ma anche a certi cupi giacobini della fede, che non sopportano chi ama la vita e chi sorride (per esempio, Berlusconi), considerandolo esempio di paganesimo edonista. E invece Chesterton dice che i pagani ridono in apparenza, i veri cristiani ridono dentro, hanno quasi pudore della loro gioia ma sono intimamente felici.
Lo scriveva un altro santissimo ciccione, san Tommaso d’Aquino nelle sue pagine su La felicità che Umberto Galeazzi ha pubblicato ora da Bompiani. La felicità è partecipare alla festa degli angeli, dicono i santi e i pazzi. Rovesciando una tesi antica, Chesterton sostiene che il carpe diem toglie riso e destino agli uomini, li rende fugaci e occasionali, perduti nel giorno. Ed esalta il gusto di bere, il piacere della tavola e del vino, sangue di Cristo, a cui dedica un magnifico brindisi, dove lo spirituale e lo spiritoso, lo spirito santo e lo spirito dell’alcol si mescolano in gioiosa euforia.
La fede di Chesterton sorge dopo il nichilismo, come in lui sorse dopo la disperazione; una fede ironica, a tratti frivola, anche se poi nutrita di mistero e dedizione. Al nichilismo, Chesterton oppone la realtà, il buon senso della vita. Se credessimo veramente al nichilismo «gli assassini riceverebbero medaglie perché salvano gli uomini dalla vita; i vigili del fuoco verrebbero denunciati perché li sottraggono alla morte; useremmo i veleni come medicine e chiameremmo il dottore quando siamo in buona salute». Nel nome di Dio, Chesterton lega poi democrazia e tradizione, ritenendo che siano inseparabili: la tradizione è un plebiscito nei secoli, è «la democrazia prolungata nel tempo»; e la democrazia, a sua volta, regge sul sentire comune di un popolo.
Si deve a Chesterton la più penetrante analisi della pazzia. Per lui il pazzo non è colui che ha perso la ragione, ma chi ha perso tutto tranne la ragione. La follia è la perdita del rapporto col mondo, non la perdita della mente che anzi ragiona con meticoloso determinismo, inseguendo perfette geometrie, ma a prescindere dalla realtà, dalla vita, dagli uomini. «I maniaci di solito sono grandi logici». Un grano di follia fa lievitare la fede, e fa combaciare l’amor di Dio con l’amore per la vita. Il paradosso in fondo è proprio quel grano di follia che fa lievitare la realtà, come il comico insegna l’esistenza di nessi impensati tra gli uomini e le cose. Anche pensando a lui a volte preferiamo il cazzeggio all’analisi, l’ironia alla seriosa esegesi, convinti che nell’epoca delle verità impazzite solo attraverso il paradosso, il comico, la caricatura, sia possibile avvicinarsi alla verità. Il riso abbonda sulla bocca dei sapienti.
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Il pazzo che bruciò la casa per eliminare il crocefisso
di G. K. Chesterton
Esce nei prossimi giorni, per la prima volta in Italia in versione integrale, il romanzo La sfera e la croce (Morganti, pagg. 330, euro 15). Chesterton affronta con ironia il rapporto fra fede e ragione. Nel brano che segue l’eremita Michele sfida il professor Lucifero, che solca veloce i cieli a bordo di un veliero d’argento.
«Una volta ho conosciuto un uomo come te, Lucifero», disse, parlando con una cantilena monotona e con una lentezza da far impazzire, «e anche quell’uomo…» «Non esiste un uomo come me», urlò furibondo Lucifero, con una violenza tale che l’onda d’urto emessa dalla sua voce scosse il vascello. «Come ti stavo facendo osservare», continuò imperterrito Michele, «anche quell’uomo abbracciò l’opinione secondo la quale il simbolo della cristianità è un simbolo di barbarie e d’irragionevolezza. La sua storia è piuttosto divertente, ed è anche una perfetta allegoria di quello che può succedere ai razionalisti come te. Egli cominciò, naturalmente, con il far sparire il crocefisso dalla sua casa, dal collo di sua moglie e perfino dai quadri. Diceva, come ben sai, che quella era una forma arbitraria e fantastica, che era una mostruosità e che chi la amava lo faceva solo perché era paradossale. Dopo di questo cominciò a diventare sempre più furioso e più eccentrico, tanto che avrebbe voluto abbattere le croci che sorgevano lungo i bordi delle strade, visto che viveva in un paese di tradizione cattolica. Alla fine, giunto all’apice della follia, s’arrampicò sul campanile della chiesa parrocchiale e ne strappò la croce, agitandola nell’aria e lanciandosi in un selvaggio soliloquio, lassù, sotto le stelle. Poi, in una sera d’estate, mentre si stava dirigendo verso casa, lungo un sentiero il demone della pazzia lo prese di colpo e lo trasfigurò, con quella violenza che può cambiare il mondo di una persona. Si era fermato, per un momento, a fumare di fronte a un’interminabile palizzata, quando i suoi occhi si aprirono sbigottiti. Non brillava una luce, non si muoveva una foglia, ma lui credette di vedere, come in un improvviso cambiamento di scena, quella lunghissima fila di pali trasformarsi in un esercito di croci legate le une con le altre, sulla collina e giù nella valle. E fu allora che, impugnando il suo pesante bastone, corse contro la palizzata come se avesse dovuto affrontare una schiera di nemici. Miglia dopo miglia, lungo il sentiero che lo portava a casa, sradicò e spezzò tutte le assi che incontrò lungo il suo cammino. Odiava la croce e ogni palo rappresentava per lui una croce. Quando tornò a casa era ormai completamente impazzito. Si lasciò cadere su una sedia ma subito schizzò su, perché le barre incrociate che tenevano unite le sedie gli ricordavano l’intollerabile immagine. Si buttò sul letto, soltanto per ricordarsi subito che anche questo, come tutte le cose fatte a regola d’arte che lo circondavano, era stato costruito su un progetto che in qualche modo gli ricordava una croce. Distrusse quindi tutti i mobili, appunto perché erano fatti di croci. Alla fine appiccò il fuoco alla sua casa, perché anche questa era fatta di croci. Il giorno dopo lo ritrovarono annegato nel fiume». Lucifero lo stava guardando dubbioso mordicchiandosi le labbra. «È davvero accaduta, questa storia?», chiese. «Oh, no», disse Michele, allegramente. «È solo una parabola. È una parabola rivolta a te e a tutti i razionalisti come te. Voi cominciate con lo spezzare la Croce, ma finite con il distruggere il mondo abitabile. Prima mi hai detto che nessuno deve entrare in Chiesa contro il suo volere. Ora mi dici invece che nessuno intende entrarvi. Ti ho lasciato dire che non è mai esistito un luogo chiamato Eden, ma poi ti sento dire che non esiste un luogo chiamato Irlanda. Tu parti odiando l’irrazionale e finisci con l’odiare ogni cosa, perché per te ogni cosa è irrazionale, e così…» Lucifero gli balzò addosso con un urlo da animale selvaggio. «Ah», strillò, «ogni uomo ha la sua pazzia, e tu, è chiaro, sei pazzo per quella croce. Fatti salvare da lei, allora! » E con una forza erculea scaraventò il monaco fuori dalla traballante nave che girava intorno alla parte superiore della sfera di pietra.
«Il Giornale» del 29 agosto 2010
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