La testimonianza di una delle voci più rilevanti del ’900 sul ruolo della poesia nella società: «È qualcosa di organico, di vivo». E i suoi consigli a chi vuole cimentarsi coi versi
di Margherita Guidacci
Per me la poesia è qualcosa di molto naturale e direi che a tutt’oggi la definizione più convincente della poesia, dell’arte in generale, rimane quella di Aristotele, cioè una imitazione della natura. Non una imitazione nel senso di fare dei quadretti (che poi non imiterebbero nulla, sarebbero un qualcosa di raggelato, di inerte) ma nel senso di ripetere noi il procedimento della natura. La poesia è qualcosa di organico, di vivo, qualcosa che ha un seme da cui poi spuntano delle radici, uno stelo, un fusto, delle foglie, un fiore e un frutto. Proprio l’immagine dell’albero è per me quella che meglio rende l’idea di cos’è un poeta, o un artista in generale.
Alcuni anni fa, nell’83, a un 'parvis poétique' che fu tenuto a Martigues, con poeti italiani, francesi e provenzali insieme, si discusse, appunto, della poesia e tutti furono invitati a dire che cosa la poesia rappresentava per loro. Ci furono disquisizioni molte dotte, manifesti poetici, ideologici, in varie combinazioni. Io dissi semplicemente che per me i poeti erano come alberi. Tutti affondavano le radici nella terra, la nostra madre comune. Tutti, avendo degli elementi diversi, perché eran stati voluti dalla natura con possibilità diverse sceglievano dalla stessa terra dei succhi diversi, quelli che più si confacevano a loro. Perciò, accanto a un giuggiolo o a un nespolo si poteva trovare benissimo un rovo, tutti radicati nella stessa terra: ciascuno ne aveva scelto le sostanze che avevano contribuito a farlo giuggiolo, nespolo o rovo, l’importante era che desse dei buoni frutti, qualunque pianta fosse. Era inutile mettersi a dire: «La poesia dev’essere così, o dev’essere in quest’altro modo». Sarebbe stato come dire: «Tutti gli alberi dovranno fare susine». I susini le faranno, ma i peri faranno le pere, i peschi faranno delle buone pesche e così via.
A me le discussioni di poetica sono parse, quasi sempre, questioni di lana caprina. Forse sono troppo elementare. Per me quello che veramente conta è il rapporto con la terra. L’immagine dell’albero mi piace anche per un’altra ragione. Ci sono le radici che affondano nella terra e c’è il fogliame che, invece, quanto più le radici sono profonde tanto più si può espandere verso l’alto. Questa immagine dell’albero già condensava tutto per me fin dalle mie prime prove poetiche. Il mio primo libro di La sabbia e l’Angelo, pubblicato nel 1946, quando avevo 25 anni, e in questo c’era una sezione chiamata 'Epitaffi', in cui uno dei più significativi si intitolava 'Epitaffio d’ignoto' e consisteva in questi versi «Ciò che l’albero presso la mia tomba sa/ unito con le radici alle sorgenti e con le fronde alla brezza/ cerca tu pure di penetrare, o viandante/. Qui è tutta la saggezza della vita e della morte».
Un’altra caratteristica, non tanto della mia poesia quanto della mia etica è stata quella di dedicarmi a questo lavoro quando sentivo di poterlo fare (perché la poesia non si può fare a comando) e di cercare di farlo meglio che potevo, ma con distacco e disinteresse riguardo a quello che poteva essere il risultato esterno.
Ho sempre pensato, fin dall’inizio, che avrei preferito scrivere un buon libro, senza avere nessun riconoscimento, piuttosto che il contrario, ossia avere dei riconoscimenti per cose dubbie o comunque non buone, imposte poi di forza attraverso qualcuna delle varie vie, non sempre pulite, che conducono al successo. E così scrissi una specie di ars poetica che in realtà era un’ars ethica più che poetica, perché di ricette poetiche non credevo che ve ne fosse nessuna, tranne, appunto, quella seguita dai peri per fare le pere e dai susini per fare le susine.
La mia ars poetica fu una dichiarazione di princìpi a cui credo di essere rimasta fedele durante tutta la vita, anche se ormai sono trascorsi più di quarant’anni da quando la scrissi. Si intitolava 'Consigli a un giovane poeta'. Il giovane poeta allora ero io e i consigli li davo a me stessa per incoraggiarmi. Consisteva di cinque punti, ma i più importanti sono i primi tre. Il primo diceva: «Meglio scrivere un libro importante nel deserto/ dirgli sei figlio del deserto, qui sei nato e qui rimani,/ solo le pietre e il vento ti avranno conosciuto,/ che diventare celebri per equivoco». Il secondo articolo di fede diceva: «Il poeta che non è pronto a ignorare quel che si dice di lui/ come la brezza ignora quel che egli stesso ne dice,/ il poeta che non sa contemplare chi lo loda o lo biasima/ col calmo stupore di una rosa occupata nei suoi pensieri di rosa;/ il poeta che non ha mai somigliato a una sorgente/ che dal profondo soltanto deriva il suo riso e le lacrime,/ perché non si è messo piuttosto un berretto di piume di gallo,/ non regge un uovo sul naso e non danza sui bicchieri?/ Ci sono tanti modi innocui di attirare la gente! ». Il terzo punto era questo: «Mio Dio, salvami dalla parola condotta in parata come un vitello nel giorno di fiera/ con fiocchi rossi alla coda e una ghirlanda che di traverso gli/ scende sui grandi occhi tristi, tra la ressa dei villani e le grida dei sensali». Credo di essere stata fedele a questi miei enunciati. Era una via negativa: dicevo, a me stessa, quello che non dovevo fare, e non l’ho fatto. La poesia per me è stata anche una forma di conoscenza.
Io credo che la poesia sia soprattutto questo. In fondo, uno cerca di capire. La poesia è strettamente legata alla vita. È una risposta che noi diamo alle domande, alle sollecitazioni della vita. A volte non è una risposta ma è un’altra domanda: io mi sono accorta che molto spesso si ottengono più facilmente le soluzioni capovolgendo i termini. Noi crediamo di ricevere delle domande a cui dobbiamo rispondere. In realtà tutto è risposta intorno a noi, e noi dobbiamo formulare le giuste domande. Comunque, attraverso questo procedimento di domanda o risposta, io cercavo una conoscenza, e quindi uno dei miei capisaldi è stata la chiarezza, perché la conoscenza mira a raggiungere una sua interna chiarezza e a trasmettersi con chiarezza.
Io ero pronta, come ho detto, ad accettare il deserto, a restare sempre nel deserto, a scrivere e lasciare lì, anche se nessuno avesse mai trovato, né allora né poi, quello che io scrivevo. Però, con altrettanta convinzione, volevo che se qualcuno fosse per combinazione venuto in contatto con quello che scrivevo, potesse comprenderlo. E per questo ho sempre cercato di essere il più chiara possibile, il più semplice possibile, mettendo in pratica quel detto di Valéry che personalmente lui non ha sempre messo in pratica, ma il detto era sacrosanto: «Quando siete incerti tra due termini scegliete sempre il minore». Come fra due mali, anche fra due parole bisogna sempre scegliere la minore. Con questi pochi, semplici criteri, mi sono regolata.
Alcuni anni fa, nell’83, a un 'parvis poétique' che fu tenuto a Martigues, con poeti italiani, francesi e provenzali insieme, si discusse, appunto, della poesia e tutti furono invitati a dire che cosa la poesia rappresentava per loro. Ci furono disquisizioni molte dotte, manifesti poetici, ideologici, in varie combinazioni. Io dissi semplicemente che per me i poeti erano come alberi. Tutti affondavano le radici nella terra, la nostra madre comune. Tutti, avendo degli elementi diversi, perché eran stati voluti dalla natura con possibilità diverse sceglievano dalla stessa terra dei succhi diversi, quelli che più si confacevano a loro. Perciò, accanto a un giuggiolo o a un nespolo si poteva trovare benissimo un rovo, tutti radicati nella stessa terra: ciascuno ne aveva scelto le sostanze che avevano contribuito a farlo giuggiolo, nespolo o rovo, l’importante era che desse dei buoni frutti, qualunque pianta fosse. Era inutile mettersi a dire: «La poesia dev’essere così, o dev’essere in quest’altro modo». Sarebbe stato come dire: «Tutti gli alberi dovranno fare susine». I susini le faranno, ma i peri faranno le pere, i peschi faranno delle buone pesche e così via.
A me le discussioni di poetica sono parse, quasi sempre, questioni di lana caprina. Forse sono troppo elementare. Per me quello che veramente conta è il rapporto con la terra. L’immagine dell’albero mi piace anche per un’altra ragione. Ci sono le radici che affondano nella terra e c’è il fogliame che, invece, quanto più le radici sono profonde tanto più si può espandere verso l’alto. Questa immagine dell’albero già condensava tutto per me fin dalle mie prime prove poetiche. Il mio primo libro di La sabbia e l’Angelo, pubblicato nel 1946, quando avevo 25 anni, e in questo c’era una sezione chiamata 'Epitaffi', in cui uno dei più significativi si intitolava 'Epitaffio d’ignoto' e consisteva in questi versi «Ciò che l’albero presso la mia tomba sa/ unito con le radici alle sorgenti e con le fronde alla brezza/ cerca tu pure di penetrare, o viandante/. Qui è tutta la saggezza della vita e della morte».
Un’altra caratteristica, non tanto della mia poesia quanto della mia etica è stata quella di dedicarmi a questo lavoro quando sentivo di poterlo fare (perché la poesia non si può fare a comando) e di cercare di farlo meglio che potevo, ma con distacco e disinteresse riguardo a quello che poteva essere il risultato esterno.
Ho sempre pensato, fin dall’inizio, che avrei preferito scrivere un buon libro, senza avere nessun riconoscimento, piuttosto che il contrario, ossia avere dei riconoscimenti per cose dubbie o comunque non buone, imposte poi di forza attraverso qualcuna delle varie vie, non sempre pulite, che conducono al successo. E così scrissi una specie di ars poetica che in realtà era un’ars ethica più che poetica, perché di ricette poetiche non credevo che ve ne fosse nessuna, tranne, appunto, quella seguita dai peri per fare le pere e dai susini per fare le susine.
La mia ars poetica fu una dichiarazione di princìpi a cui credo di essere rimasta fedele durante tutta la vita, anche se ormai sono trascorsi più di quarant’anni da quando la scrissi. Si intitolava 'Consigli a un giovane poeta'. Il giovane poeta allora ero io e i consigli li davo a me stessa per incoraggiarmi. Consisteva di cinque punti, ma i più importanti sono i primi tre. Il primo diceva: «Meglio scrivere un libro importante nel deserto/ dirgli sei figlio del deserto, qui sei nato e qui rimani,/ solo le pietre e il vento ti avranno conosciuto,/ che diventare celebri per equivoco». Il secondo articolo di fede diceva: «Il poeta che non è pronto a ignorare quel che si dice di lui/ come la brezza ignora quel che egli stesso ne dice,/ il poeta che non sa contemplare chi lo loda o lo biasima/ col calmo stupore di una rosa occupata nei suoi pensieri di rosa;/ il poeta che non ha mai somigliato a una sorgente/ che dal profondo soltanto deriva il suo riso e le lacrime,/ perché non si è messo piuttosto un berretto di piume di gallo,/ non regge un uovo sul naso e non danza sui bicchieri?/ Ci sono tanti modi innocui di attirare la gente! ». Il terzo punto era questo: «Mio Dio, salvami dalla parola condotta in parata come un vitello nel giorno di fiera/ con fiocchi rossi alla coda e una ghirlanda che di traverso gli/ scende sui grandi occhi tristi, tra la ressa dei villani e le grida dei sensali». Credo di essere stata fedele a questi miei enunciati. Era una via negativa: dicevo, a me stessa, quello che non dovevo fare, e non l’ho fatto. La poesia per me è stata anche una forma di conoscenza.
Io credo che la poesia sia soprattutto questo. In fondo, uno cerca di capire. La poesia è strettamente legata alla vita. È una risposta che noi diamo alle domande, alle sollecitazioni della vita. A volte non è una risposta ma è un’altra domanda: io mi sono accorta che molto spesso si ottengono più facilmente le soluzioni capovolgendo i termini. Noi crediamo di ricevere delle domande a cui dobbiamo rispondere. In realtà tutto è risposta intorno a noi, e noi dobbiamo formulare le giuste domande. Comunque, attraverso questo procedimento di domanda o risposta, io cercavo una conoscenza, e quindi uno dei miei capisaldi è stata la chiarezza, perché la conoscenza mira a raggiungere una sua interna chiarezza e a trasmettersi con chiarezza.
Io ero pronta, come ho detto, ad accettare il deserto, a restare sempre nel deserto, a scrivere e lasciare lì, anche se nessuno avesse mai trovato, né allora né poi, quello che io scrivevo. Però, con altrettanta convinzione, volevo che se qualcuno fosse per combinazione venuto in contatto con quello che scrivevo, potesse comprenderlo. E per questo ho sempre cercato di essere il più chiara possibile, il più semplice possibile, mettendo in pratica quel detto di Valéry che personalmente lui non ha sempre messo in pratica, ma il detto era sacrosanto: «Quando siete incerti tra due termini scegliete sempre il minore». Come fra due mali, anche fra due parole bisogna sempre scegliere la minore. Con questi pochi, semplici criteri, mi sono regolata.
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Un «breviario» per l’opera di una grande poetessa
di Fulvio Panzeri
È senz’altro un 'piccolo' evento questa antologia della poesia di una delle grandi voci novecentesche italiane, quella di Margherita Guidacci, che ha voluto vivere una vita distante da quelli che erano i salotti letterari, in un proprio autonomo, solitario, ma incandescente percorso, al punto che un editore non l’ebbe mai e agli editori, come aveva detto Mario Luzi, ricordando la sua figura, la sua poesia non interessava, nonostante lui ne consigliasse la pubblicazione. Ed è sempre Luzi a dire che della sua poesia gli è rimasta «la suggestione di un incanto rituale al suono di un’arpa; di una cetra che spesso ha delle vibrazioni alte e alle volte vibrazioni sorde, ombrose, luttuose, una poesia fondamentalmente di lode, cantata però troppo spesso da uno stato di dolore».
Il libro si intitola Poesia come un albero (Marietti, pag. 132, € 15,00) e, nella sua essenzialità compositiva è un 'brevario' che introduce al mondo poetico e all’esperienza umana di Margherita Guidacci, a partire dal saggio introduttivo della curatrice Giovanna Fozzer, in cui traccia un utile profilo biografico e critico, in cui mette in rilievo le fonti culturali che hanno determinato la formazione della Guidacci, a partire dallo scrittore Nicola Lisi, «cugino materno e amabile frequentatore di casa Guidacci» che consiglia a Margherita diciottenne la lettura del Montale di Ossi di seppia, ma soprattutto il suo lavoro sulla grande poesia di lingua inglese da Donne a Eliot fino ad Emily Dickinson che già commentava e traduceva nel 1947-1948 e che aveva influito notevolmente sulla sua poesia. Aveva detto la poetessa «Il mio vero cammino incominciò nel ’46 con La sabbia e l’Angelo, in cui cercai di dominare, esprimendolo, il devastante senso di morte che aveva gravato su di noi nei terribili anni della guerra. La nota fondamentale del libro era religiosa, almeno come può esserlo una umana 'pietas' e consapevolezza del mistero». Una 'pietas' che diventerà il segno costante della sua poesia e della sua esperienza, che qui ritroviamo nell’antologia, in un percorso essenziale che mette in rilievo soprattutto le punte di diamante.
È un percorso che si chiude con uno scritto in cui la Guidacci racconta se stessa e la sua poesia, in un ritratto molto intimo e sincero, intervento che sostiene la tesi della «poesia come albero» di cui parla il titolo del libro. Sono pagine queste di straordinaria e lucida verità, delle quali pubblichiamo alcune parti, scritte nel 1987, per un convegno sulla poesia femminile, che rappresentano una sorta di confessione intima, che oggi appare di una urgentissima attualità. La Guidacci accenna alla sua 'etica' e la sua esperienza è fondamentale in quanto pone al centro della poetica proprio il valore etico, già nell’affermazione che «la poesia è qualcosa di organico, di vivo… Proprio l’immagine dell’albero è per me quella che meglio rende d’idea di cos’è un poeta, o un artista in generale».
La sua 'etica' diventa una lezione di stile per molti scrittori e poeti di oggi, che cercano qualsiasi tipo di 'esibizione', anziché curarsi delle proprie parole, una lezione, non solo di rigore e di umiltà, ma la dichiarazione del valore assoluto affidato ad una letteratura di valore. Sono 'fuori tempo' ma necessarie queste 'lezioni', anche per cambiare il 'trend' attuale. Ha ragione la Guidacci quando dice di aver sempre pensato che fosse meglio scrivere un buon libro, anche senza riconoscimenti, piuttosto che il contrario, cioè avere riconoscimenti per libri non buoni, «imposti poi di forza attraverso qualcuna delle varie vie, non sempre pulite, che conducono al successo». La sua scelta dimostra come sia più impervio farsi riconoscere per il proprio valore, ma poi quello resta, non si cancella. E l’antologia lo dimostra.
Il libro si intitola Poesia come un albero (Marietti, pag. 132, € 15,00) e, nella sua essenzialità compositiva è un 'brevario' che introduce al mondo poetico e all’esperienza umana di Margherita Guidacci, a partire dal saggio introduttivo della curatrice Giovanna Fozzer, in cui traccia un utile profilo biografico e critico, in cui mette in rilievo le fonti culturali che hanno determinato la formazione della Guidacci, a partire dallo scrittore Nicola Lisi, «cugino materno e amabile frequentatore di casa Guidacci» che consiglia a Margherita diciottenne la lettura del Montale di Ossi di seppia, ma soprattutto il suo lavoro sulla grande poesia di lingua inglese da Donne a Eliot fino ad Emily Dickinson che già commentava e traduceva nel 1947-1948 e che aveva influito notevolmente sulla sua poesia. Aveva detto la poetessa «Il mio vero cammino incominciò nel ’46 con La sabbia e l’Angelo, in cui cercai di dominare, esprimendolo, il devastante senso di morte che aveva gravato su di noi nei terribili anni della guerra. La nota fondamentale del libro era religiosa, almeno come può esserlo una umana 'pietas' e consapevolezza del mistero». Una 'pietas' che diventerà il segno costante della sua poesia e della sua esperienza, che qui ritroviamo nell’antologia, in un percorso essenziale che mette in rilievo soprattutto le punte di diamante.
È un percorso che si chiude con uno scritto in cui la Guidacci racconta se stessa e la sua poesia, in un ritratto molto intimo e sincero, intervento che sostiene la tesi della «poesia come albero» di cui parla il titolo del libro. Sono pagine queste di straordinaria e lucida verità, delle quali pubblichiamo alcune parti, scritte nel 1987, per un convegno sulla poesia femminile, che rappresentano una sorta di confessione intima, che oggi appare di una urgentissima attualità. La Guidacci accenna alla sua 'etica' e la sua esperienza è fondamentale in quanto pone al centro della poetica proprio il valore etico, già nell’affermazione che «la poesia è qualcosa di organico, di vivo… Proprio l’immagine dell’albero è per me quella che meglio rende d’idea di cos’è un poeta, o un artista in generale».
La sua 'etica' diventa una lezione di stile per molti scrittori e poeti di oggi, che cercano qualsiasi tipo di 'esibizione', anziché curarsi delle proprie parole, una lezione, non solo di rigore e di umiltà, ma la dichiarazione del valore assoluto affidato ad una letteratura di valore. Sono 'fuori tempo' ma necessarie queste 'lezioni', anche per cambiare il 'trend' attuale. Ha ragione la Guidacci quando dice di aver sempre pensato che fosse meglio scrivere un buon libro, anche senza riconoscimenti, piuttosto che il contrario, cioè avere riconoscimenti per libri non buoni, «imposti poi di forza attraverso qualcuna delle varie vie, non sempre pulite, che conducono al successo». La sua scelta dimostra come sia più impervio farsi riconoscere per il proprio valore, ma poi quello resta, non si cancella. E l’antologia lo dimostra.
Fu il cugino Nicola Lisi a consigliare all’autrice diciottenne la lettura di «Ossi di seppia» e il lavoro sulla letteratura inglese
«Avvenire» del 2 settembre 2010
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