03 settembre 2010

Guidacci: la poesia serve alla vita

La testimonianza di una delle voci più rilevanti del ’900 sul ruolo della poesia nella società: «È qualcosa di organico, di vivo». E i suoi consigli a chi vuole cimentarsi coi versi
di Margherita Guidacci
Per me la poesia è qualcosa di mol­to naturale e direi che a tutt’oggi la definizione più convincente della poesia, dell’arte in generale, rimane quel­la di Aristotele, cioè una imitazione del­la natura. Non una imitazione nel senso di fare dei quadretti (che poi non imite­rebbero nulla, sarebbero un qualcosa di raggelato, di inerte) ma nel senso di ri­petere noi il procedimento della natura. La poesia è qualcosa di organico, di vi­vo, qualcosa che ha un seme da cui poi spuntano delle radici, uno stelo, un fu­sto, delle foglie, un fiore e un frutto. Pro­prio l’immagine dell’albero è per me quella che meglio rende l’idea di cos’è un poeta, o un artista in generale.
Alcuni anni fa, nell’83, a un 'parvis poé­tique' che fu tenuto a Martigues, con poeti italiani, francesi e provenzali in­sieme, si discusse, appunto, della poesia e tutti furono invitati a dire che cosa la poesia rappresentava per loro. Ci furono disquisizioni molte dotte, manifesti poe­tici, ideologici, in varie combinazioni. Io dissi semplicemente che per me i poeti erano come alberi. Tutti affondavano le radici nella terra, la nostra madre co­mune. Tutti, avendo degli elementi di­versi, perché eran stati voluti dalla natu­ra con possibilità diverse sceglievano dal­la stessa terra dei succhi diversi, quelli che più si confacevano a loro. Perciò, accanto a un giuggiolo o a un nespolo si poteva trovare benissimo un rovo, tutti radicati nella stessa terra: ciascuno ne a­veva scelto le sostanze che avevano contribuito a farlo giuggiolo, nespolo o rovo, l’importante era che desse dei buoni frut­ti, qualunque pianta fosse. Era inutile mettersi a dire: «La poesia dev’essere co­sì, o dev’essere in quest’altro modo». Sa­rebbe stato come dire: «Tutti gli alberi dovranno fare susine». I susini le faran­no, ma i peri faranno le pere, i peschi faranno delle buone pesche e così via.
A me le discussioni di poetica sono par­se, quasi sempre, questioni di lana ca­prina. Forse sono troppo elementare. Per me quello che veramente conta è il rap­porto con la terra. L’immagine dell’albero mi piace anche per un’altra ragione. Ci sono le radici che affondano nella terra e c’è il fogliame che, invece, quanto più le radici sono profon­de tanto più si può espandere verso l’al­to. Questa immagine dell’albero già con­densava tutto per me fin dalle mie pri­me prove poetiche. Il mio primo libro di La sabbia e l’Ange­lo, pubblicato nel 1946, quando avevo 25 anni, e in questo c’era una sezione chiamata 'Epitaffi', in cui uno dei più signi­ficativi si intitolava 'Epitaffio d’ignoto' e consisteva in questi versi «Ciò che l’al­bero presso la mia tomba sa/ unito con le radici alle sorgenti e con le fronde al­la brezza/ cerca tu pure di penetrare, o viandante/. Qui è tutta la saggezza della vita e della morte».
Un’altra caratteristica, non tanto della mia poesia quanto della mia etica è sta­ta quella di dedicarmi a questo lavoro quando sentivo di poterlo fare (perché la poesia non si può fare a comando) e di cercare di farlo meglio che potevo, ma con distacco e disinteresse riguardo a quello che poteva essere il risultato e­sterno.
Ho sempre pensato, fin dall’inizio, che avrei preferito scrivere un buon libro, senza avere nessun riconoscimento, piuttosto che il contrario, ossia avere dei riconoscimenti per cose dubbie o co­munque non buone, imposte poi di for­za attraverso qualcuna delle varie vie, non sempre pulite, che conducono al successo. E così scrissi una specie di ars poetica che in realtà era un’ars ethica più che poetica, perché di ricette poetiche non credevo che ve ne fosse nessuna, tranne, appunto, quella seguita dai peri per fare le pere e dai susini per fare le su­sine.
La mia ars poetica fu una dichiarazione di princìpi a cui credo di essere rimasta fedele durante tutta la vita, anche se or­mai sono trascorsi più di quarant’anni da quando la scrissi. Si intitolava 'Con­sigli a un giovane poeta'. Il giovane poe­ta allora ero io e i consigli li davo a me stessa per incoraggiarmi. Consisteva di cinque punti, ma i più importanti sono i primi tre. Il primo diceva: «Meglio scri­vere un libro importante nel deserto/ dir­gli sei figlio del deserto, qui sei nato e qui rimani,/ solo le pietre e il vento ti avran­no conosciuto,/ che diventare celebri per equivoco». Il secon­do articolo di fede diceva: «Il poeta che non è pronto a igno­rare quel che si dice di lui/ come la brez­za ignora quel che e­gli stesso ne dice,/ il poeta che non sa contemplare chi lo loda o lo biasima/ col calmo stupore di una rosa occupata nei suoi pensieri di rosa;/ il poeta che non ha mai somiglia­to a una sorgente/ che dal profondo sol­tanto deriva il suo riso e le lacrime,/ per­ché non si è messo piuttosto un berret­to di piume di gallo,/ non regge un uovo sul naso e non danza sui bicchieri?/ Ci so­no tanti modi innocui di attirare la gen­te! ». Il terzo punto era questo: «Mio Dio, salvami dalla parola condotta in parata come un vitello nel giorno di fiera/ con fiocchi rossi alla coda e una ghirlanda che di traverso gli/ scende sui grandi oc­chi tristi, tra la ressa dei villani e le grida dei sensali». Credo di essere stata fedele a questi miei enunciati. Era una via ne­gativa: dicevo, a me stessa, quello che non dovevo fare, e non l’ho fatto. La poe­sia per me è stata anche una forma di co­noscenza.
Io credo che la poesia sia so­prattutto questo. In fondo, uno cerca di capire. La poesia è strettamente legata alla vita. È una risposta che noi diamo alle domande, alle sollecitazioni della vi­ta. A volte non è una risposta ma è un’al­tra domanda: io mi sono accorta che molto spesso si ottengono più facilmen­te le soluzioni capovolgendo i termini. Noi crediamo di ricevere delle domande a cui dobbiamo rispondere. In realtà tut­to è risposta intorno a noi, e noi dobbia­mo formulare le giuste domande. Co­munque, attraverso questo procedi­mento di domanda o risposta, io cercavo una conoscenza, e quindi uno dei miei capisaldi è stata la chiarezza, perché la conoscenza mira a raggiungere una sua interna chiarezza e a trasmettersi con chiarezza.
Io ero pronta, come ho detto, ad accetta­re il deserto, a resta­re sempre nel deserto, a scrivere e lasciare lì, anche se nessuno avesse mai trovato, né allora né poi, quello che io scrivevo. Però, con altrettanta convinzione, vole­vo che se qualcuno fosse per combina­zione venuto in contatto con quello che scrivevo, potesse comprenderlo. E per questo ho sempre cercato di essere il più chiara possibile, il più semplice possibi­le, mettendo in pratica quel detto di Valéry che personalmente lui non ha sempre messo in pratica, ma il detto era sacrosanto: «Quando siete incerti tra due termini scegliete sempre il minore». Co­me fra due mali, anche fra due parole bisogna sempre scegliere la minore. Con questi pochi, semplici criteri, mi sono regolata.
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Un «breviario» per l’opera di una grande poetessa
di Fulvio Panzeri
È senz’altro un 'piccolo' evento questa antologia della poesia di una delle grandi voci novecente­sche italiane, quella di Margherita Guidacci, che ha voluto vivere una vita distante da quelli che erano i salotti letterari, in un proprio autonomo, solitario, ma incandescente percorso, al punto che un editore non l’ebbe mai e agli editori, come aveva detto Mario Luzi, ricordando la sua figura, la sua poesia non inte­ressava, nonostante lui ne consigliasse la pubblica­zione. Ed è sempre Luzi a dire che della sua poesia gli è rimasta «la suggestione di un incanto rituale al suo­no di un’arpa; di una cetra che spesso ha delle vibra­zioni alte e alle volte vibrazioni sorde, ombrose, lut­tuose, una poesia fondamentalmente di lode, canta­ta però troppo spesso da uno stato di dolore».
Il libro si intitola Poesia come un albero (Marietti, pag. 132, € 15,00) e, nella sua essenzialità compositiva è un 'brevario' che introduce al mondo poetico e al­l’esperienza umana di Margherita Guidacci, a partire dal saggio introduttivo della curatrice Giovanna Foz­zer, in cui traccia un utile profilo biografico e critico, in cui mette in rilievo le fonti culturali che hanno de­terminato la formazione della Guidacci, a partire dal­lo scrittore Nicola Lisi, «cugino materno e amabile frequentatore di casa Guidacci» che consiglia a Marghe­rita diciottenne la lettura del Montale di Ossi di sep­pia, ma soprattutto il suo lavoro sulla grande poesia di lingua inglese da Donne a Eliot fino ad Emily Dickin­son che già commentava e traduceva nel 1947-1948 e che aveva influito note­volmente sulla sua poe­sia. Aveva detto la poe­tessa «Il mio vero cam­mino incominciò nel ’46 con La sabbia e l’Angelo, in cui cercai di domina­re, esprimendolo, il de­vastante senso di morte che aveva gravato su di noi nei terribili anni del­la guerra. La nota fonda­mentale del libro era re­ligiosa, almeno come può esserlo una umana 'pietas' e consapevolez­za del mistero». Una 'pietas' che diventerà il segno costante della sua poesia e della sua espe­rienza, che qui ritrovia­mo nell’antologia, in un percorso essenziale che mette in rilievo soprat­tutto le punte di dia­mante.
È un percorso che si chiude con uno scritto in cui la Guidacci racconta se stessa e la sua poesia, in un ri­tratto molto intimo e sincero, intervento che sostiene la tesi della «poesia come albero» di cui parla il titolo del libro. Sono pagine queste di straordinaria e lucida verità, delle quali pubblichiamo alcune parti, scritte nel 1987, per un convegno sulla poesia femminile, che rappresentano una sorta di confessione intima, che og­gi appare di una urgentissima attualità. La Guidacci accenna alla sua 'etica' e la sua esperienza è fonda­mentale in quanto pone al centro della poetica pro­prio il valore etico, già nell’affermazione che «la poe­sia è qualcosa di organico, di vivo… Proprio l’imma­gine dell’albero è per me quella che meglio rende d’i­dea di cos’è un poeta, o un artista in generale».
La sua 'etica' diventa una lezione di stile per molti scrittori e poeti di oggi, che cercano qualsiasi tipo di 'esibizione', anziché curarsi delle proprie parole, u­na lezione, non solo di rigore e di umiltà, ma la di­chiarazione del valore assoluto affidato ad una lette­ratura di valore. Sono 'fuori tempo' ma necessarie queste 'lezioni', anche per cambiare il 'trend' attua­le. Ha ragione la Guidacci quando dice di aver sempre pensato che fosse meglio scrivere un buon libro, an­che senza riconoscimenti, piuttosto che il contrario, cioè avere riconoscimenti per libri non buoni, «im­posti poi di forza attraverso qualcuna delle varie vie, non sempre pulite, che conducono al successo». La sua scelta dimostra come sia più impervio farsi ricono­scere per il proprio valore, ma poi quello resta, non si cancella. E l’antologia lo dimostra.

Fu il cugino Nicola Lisi a consigliare all’autrice diciottenne la lettura di «Ossi di seppia» e il lavoro sulla letteratura inglese
«Avvenire» del 2 settembre 2010

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