Un saggio indaga i paradossi, che già si fanno strada nelle aule giudiziarie, nati dal voler ridurre ogni scelta a combinazioni chimiche del cervello
di Andrea Galli
Herbert Weinstein, un manager americano, fu accusato di aver strangolato la moglie e di averla gettata dal dodicesimo piano del loro appartamento di Manhattan, simulando un suicidio. Nel processo che si svolse nel 1992, il suo avvocato sostenne che una cisti che premeva sulla membrana aracnoide del suo assistito gli provocava una menomazione mentale, rendendolo non responsabile della propria condotta. Il giudice permise che si portasse in aula l’esito di un esame di neuro-immagine.
Il procuratore, nella paura che ciò potesse compromettere l’impianto accusatorio, accettò di patteggiare.
Sempre negli Usa, nel verdetto del 2005 con cui la Corte suprema giudicò incostituzionale la pena di morte per i minorenni, nel parere scientifico sottoposto ai nove giudici da Raquel Gur, neuropsichiatra dell’Università della Pennsylvania, sia faceva notare come gli adolescenti non fossero in grado di controllare pienamente i propri impulsi perché i neuroni della corteccia prefrontale raggiungono solo verso i vent’anni il loro pieno sviluppo. Parere che probabilmente pesò sulla decisione della Corte. Ancora e più recentemente, ossia nove mesi fa, è stata una sentenza della Corte d’assise di Trieste ad accordare, prima in Europa, una riduzione di pena ad un condannato per omicidio, anche perché la perizia disposta dalla difesa aveva dimostrato un profilo cromosomico alterato e suscettibile di indurre alla violenza sotto specifiche circostanze esistenziali. Questi esempi, citati da Andrea Lavazza, studioso di scienza cognitive e giornalista di 'Avvenire', e Luca Sammicheli, psicologo forense, sono un buono spunto per riflettere sull’impatto – sempre più attuale, non solo potenziale – delle neuroscienze su un pilastro dell’ordinamento sociale: il diritto. Diritto che, per come ci è stato consegnato nella plurisecolare elaborazione che ne ha fatto l’Occidente, fonda la necessità della pena del reo su un postulato: l’uomo 'sano' conserva per lo meno un nucleo di libertà, e quindi di responsabilità per le proprie azioni, che può far sì che venga riconosciuto colpevole e sia proporzionalmente punito. Al contrario di un pitbull o di una tigre, che, nel caso sbrani il proprio incauto guardiano, non viene processata o giudicata colpevole: semplicemente viene abbattuta o, come preferisce un certo animalismo, rilasciata intatta al suo stato di natura. Ma il diritto è solo un capitolo di uno scenario ben più ampio e con cui è necessario confrontarsi a viso aperto, anche perché non è più relegabile solo a qualche distopia letteraria: nel momento in cui si affermasse una visione deterministica 'dura', quella per cui – come scrive un nome di punta delle scienze cognitive attuali, l’americana Martha Farah – «tutto il nostro comportamento è determinato al cento per cento dal funzionamento del cervello, che a sua volta è determinato dall’interazione tra geni ed esperienza», quale spazio rimarrebbe per la specificità umana, ossia la libertà orientata dalla volontà?
Un approccio al problema è dato da Siamo davvero liberi? Le neuroscienze e il mistero del libero arbitrio (Codice edizioni, pagine 210, euro 14,00) a cura di Mario De Caro, Andrea Lavazza e Giuseppe Sartori. Un libro importante, un tentativo riuscito di divulgazione alta che riunisce competenze varie e di primo livello – da quelle di neuroimaging di John Dylan Haynes, a quelle di psicologia sperimentale di Marcel Brass, di filosofia morale di Roberta Monticelli o di neuroetica di Adina L. Roskies, per citare alcuni dei contributi. E che aiuta a comprendere i termini di quel nodo ontologico ed epistemologico dato dal rapporto tra corpo e mente, o tra fisico e 'spirituale', che, se è venuto al pettine e ha riacceso negli ultimi anni il dibattito sull’evoluzione della vita e la visione neodarwiniana dell’uomo, tutto lascia supporre che troverà sempre più nello studio del cervello il suo banco di prova.
Il procuratore, nella paura che ciò potesse compromettere l’impianto accusatorio, accettò di patteggiare.
Sempre negli Usa, nel verdetto del 2005 con cui la Corte suprema giudicò incostituzionale la pena di morte per i minorenni, nel parere scientifico sottoposto ai nove giudici da Raquel Gur, neuropsichiatra dell’Università della Pennsylvania, sia faceva notare come gli adolescenti non fossero in grado di controllare pienamente i propri impulsi perché i neuroni della corteccia prefrontale raggiungono solo verso i vent’anni il loro pieno sviluppo. Parere che probabilmente pesò sulla decisione della Corte. Ancora e più recentemente, ossia nove mesi fa, è stata una sentenza della Corte d’assise di Trieste ad accordare, prima in Europa, una riduzione di pena ad un condannato per omicidio, anche perché la perizia disposta dalla difesa aveva dimostrato un profilo cromosomico alterato e suscettibile di indurre alla violenza sotto specifiche circostanze esistenziali. Questi esempi, citati da Andrea Lavazza, studioso di scienza cognitive e giornalista di 'Avvenire', e Luca Sammicheli, psicologo forense, sono un buono spunto per riflettere sull’impatto – sempre più attuale, non solo potenziale – delle neuroscienze su un pilastro dell’ordinamento sociale: il diritto. Diritto che, per come ci è stato consegnato nella plurisecolare elaborazione che ne ha fatto l’Occidente, fonda la necessità della pena del reo su un postulato: l’uomo 'sano' conserva per lo meno un nucleo di libertà, e quindi di responsabilità per le proprie azioni, che può far sì che venga riconosciuto colpevole e sia proporzionalmente punito. Al contrario di un pitbull o di una tigre, che, nel caso sbrani il proprio incauto guardiano, non viene processata o giudicata colpevole: semplicemente viene abbattuta o, come preferisce un certo animalismo, rilasciata intatta al suo stato di natura. Ma il diritto è solo un capitolo di uno scenario ben più ampio e con cui è necessario confrontarsi a viso aperto, anche perché non è più relegabile solo a qualche distopia letteraria: nel momento in cui si affermasse una visione deterministica 'dura', quella per cui – come scrive un nome di punta delle scienze cognitive attuali, l’americana Martha Farah – «tutto il nostro comportamento è determinato al cento per cento dal funzionamento del cervello, che a sua volta è determinato dall’interazione tra geni ed esperienza», quale spazio rimarrebbe per la specificità umana, ossia la libertà orientata dalla volontà?
Un approccio al problema è dato da Siamo davvero liberi? Le neuroscienze e il mistero del libero arbitrio (Codice edizioni, pagine 210, euro 14,00) a cura di Mario De Caro, Andrea Lavazza e Giuseppe Sartori. Un libro importante, un tentativo riuscito di divulgazione alta che riunisce competenze varie e di primo livello – da quelle di neuroimaging di John Dylan Haynes, a quelle di psicologia sperimentale di Marcel Brass, di filosofia morale di Roberta Monticelli o di neuroetica di Adina L. Roskies, per citare alcuni dei contributi. E che aiuta a comprendere i termini di quel nodo ontologico ed epistemologico dato dal rapporto tra corpo e mente, o tra fisico e 'spirituale', che, se è venuto al pettine e ha riacceso negli ultimi anni il dibattito sull’evoluzione della vita e la visione neodarwiniana dell’uomo, tutto lascia supporre che troverà sempre più nello studio del cervello il suo banco di prova.
«Avvenire» del 9 giugno 2010
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