C'è un'occasione per pensare i tagli e ripensare un modello
di Davide Rondoni
Potrebbe essere l’occasione buona. Ci voleva forse la crisi (e poi i tagli, i lamenti, i litigi tra ministri e insomma tutto il teatro che stiamo vedendo in questi giorni) per iniziare a ragionare sul problema della cultura e dei suoi costi. Ci voleva forse questo punto di non ritorno. Ci voleva questa aria di regolamento di conti. E di stralci e di ministri che duettano stizziti. Di enti che minacciano. Che scioperano. Ci voleva forse d’arrivare a questo punto, a questo bello spettacolo per niente bello. A questo serraglio. Per pensare forse qualcosa a riguardo di un bene così arduo e importante come la cultura nel Paese e la sua vita (e i suoi soldi, dunque). Ci voleva, bisognava proprio arrivare a questo punto. Perché sono stati anni e decenni di irresponsabilità. Di carte truccate. Anni e decenni di abuso. Anni e decenni di elenchi senza senso. Anni e decenni in cui non sempre il merito, non sempre il necessario, e nemmeno il sensato a volte veniva finanziato.
Occorreva forse arrivare a questa indecenza. A questa storia di un terzo di enti che nemmeno rispondono a chi – finanziando – chiede almeno informazione sull’attività. A questa aria da dopo fine impero. Per cominciare, speriamo, a ragionare davvero sulla cultura, sulle sue necessarie istituzioni – che non è detto siano una sede, un telefono, una segretaria, o un palazzo antico, una bacheca. Per vedere se davvero stiamo facendo la cosa adeguata per un Paese chiamato Italia.
Che della cultura è culla, dicono. E può essere anche tomba.
Occorreva tutto questo per vedere se i costi sostenuti stanno facendo vivere la cultura o altre cose. Magari solo occupazione. O peggio ancora: vanità e pigrizia. Ci sono certo tagli che non si devono fare. O fare più ragionevolmente. Riesamineranno la lista, hanno detto. È giusto, non si può andare troppo alla leggera sulla cultura. Non si può andare alla leggera coi tagli così come non si può andare alla leggera coi contributi. E, soprattutto, speriamo dunque che sia questa l’occasione per ragionare. Alcune strade nuove il governo sta provando a introdurle, forse con eccessiva timidezza. Come la possibilità di defiscalizzare gli investimenti produttivi nel cinema. Ma occorre osare di più: prenderle davvero, queste strade nuove.
Fare leva sulla sussidiarietà, più che sulla politica centralistica di finanziamento. Discutere di liste è penoso. Si potrebbe, ad esempio, inventare un 5 per mille per la cultura.
Un po’ di enti che fanno cultura già ne usufruiscono, ma si potrebbe allargare il meccanismo, e si vedrebbe che forse i cittadini premiano l’azione culturale di alcuni e non di altri. E se da un lato ci sono imprescindibili doveri di conservazione e di cura che spettano a un ente centrale statale, forse ci sono tanti altri compiti culturali che potrebbero essere dismessi dagli enti statali centrali o periferici, con meno costi dando spazio alle competenze di privato-sociale di valore pubblico che esistono anche in campo culturale.
Forse una proliferazione di assessorati regionali, provinciali, comunali alla cultura non ha molto più senso in un periodo di istituzioni pubblico-privato, di fondazioni e di altri motori della cultura. Forse è finito il tempo degli assessorati produttori di cultura a nome di non si sa chi. Perché in una città, in una provincia, in una regione la cultura la devono fare le persone, gli artisti, gli esperti e le associazioni, non gli Enti pubblici. E forse si potrebbe provare ad armonizzare l’intervento spesso possente e per così dire 'sussidiario al contrario' di grandi fondazioni bancarie (private) che finanziano enti pubblici, in un intreccio spesso bizzarro. Ci vogliono idee nuove. Ne circola già qualcuna.
Può essere corretta, incrementata. Così che la crisi sia non solo una crisi di soldi letale per la cultura, ma una crisi culturale salutare per la cultura.
Occorreva forse arrivare a questa indecenza. A questa storia di un terzo di enti che nemmeno rispondono a chi – finanziando – chiede almeno informazione sull’attività. A questa aria da dopo fine impero. Per cominciare, speriamo, a ragionare davvero sulla cultura, sulle sue necessarie istituzioni – che non è detto siano una sede, un telefono, una segretaria, o un palazzo antico, una bacheca. Per vedere se davvero stiamo facendo la cosa adeguata per un Paese chiamato Italia.
Che della cultura è culla, dicono. E può essere anche tomba.
Occorreva tutto questo per vedere se i costi sostenuti stanno facendo vivere la cultura o altre cose. Magari solo occupazione. O peggio ancora: vanità e pigrizia. Ci sono certo tagli che non si devono fare. O fare più ragionevolmente. Riesamineranno la lista, hanno detto. È giusto, non si può andare troppo alla leggera sulla cultura. Non si può andare alla leggera coi tagli così come non si può andare alla leggera coi contributi. E, soprattutto, speriamo dunque che sia questa l’occasione per ragionare. Alcune strade nuove il governo sta provando a introdurle, forse con eccessiva timidezza. Come la possibilità di defiscalizzare gli investimenti produttivi nel cinema. Ma occorre osare di più: prenderle davvero, queste strade nuove.
Fare leva sulla sussidiarietà, più che sulla politica centralistica di finanziamento. Discutere di liste è penoso. Si potrebbe, ad esempio, inventare un 5 per mille per la cultura.
Un po’ di enti che fanno cultura già ne usufruiscono, ma si potrebbe allargare il meccanismo, e si vedrebbe che forse i cittadini premiano l’azione culturale di alcuni e non di altri. E se da un lato ci sono imprescindibili doveri di conservazione e di cura che spettano a un ente centrale statale, forse ci sono tanti altri compiti culturali che potrebbero essere dismessi dagli enti statali centrali o periferici, con meno costi dando spazio alle competenze di privato-sociale di valore pubblico che esistono anche in campo culturale.
Forse una proliferazione di assessorati regionali, provinciali, comunali alla cultura non ha molto più senso in un periodo di istituzioni pubblico-privato, di fondazioni e di altri motori della cultura. Forse è finito il tempo degli assessorati produttori di cultura a nome di non si sa chi. Perché in una città, in una provincia, in una regione la cultura la devono fare le persone, gli artisti, gli esperti e le associazioni, non gli Enti pubblici. E forse si potrebbe provare ad armonizzare l’intervento spesso possente e per così dire 'sussidiario al contrario' di grandi fondazioni bancarie (private) che finanziano enti pubblici, in un intreccio spesso bizzarro. Ci vogliono idee nuove. Ne circola già qualcuna.
Può essere corretta, incrementata. Così che la crisi sia non solo una crisi di soldi letale per la cultura, ma una crisi culturale salutare per la cultura.
«Avvenire» del 1 giugno 2010
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